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Kosovo: l’impunità per i crimini, nel nome dell’Europa

Un’analisi tagliente e scomoda, tanto scomoda che ha sollevato i malumori di parte dell’opinione pubblica albanese. Fatos Lubonja si confronta con il delicato tema dei crimini di guerra e della giustizia internazionale, senza mancare di portare l’attenzione sulle responsabilità locali e le ambiguità dell’Europa

02/08/2013, Fatos Lubonja -

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(Pubblicato originariamente dalla rivista Sudosteuropa Mitteilungen e dall’albanese Panorama, il 17 luglio 2013 e ripreso poi da Le Courrier des Balkans e OBC)

Dieci giorni dopo il suo rilascio, avvenuto il 29 novembre del 2012 da parte del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI) l’ex comandante dell’Uck ed ex primo ministro del Kosovo Ramush Haradinaj, ha fatto visita in Albania. Gli sono stati riservati i più alti onori, da parte delle più alte istituzioni albanesi: il primo ministro, il parlamento, il presidente e il capo dell’allora opposizione socialista.

Tutti hanno salutato e si sono congratulati per il coraggio, i sacrifici, la determinazione dell’ex comandante che ha “preservato intatta la dignità di una guerra di resistenza e liberazione”, secondo le parole del Presidente albanese. Sali Berisha ha affermato in quell’occasione che “il governo albanese avrebbe richiesto un’inchiesta indipendente per giudicare l’atteggiamento tendenzioso della procuratrice Carla del Ponte nei confronti dell’ex primo ministro del Kosovo”.

L’ironia sta nel fatto che i politici albanesi che hanno onorato quell’uomo, ripulito da gravi accuse da parte di un tribunale internazionale, sono in possesso di tutte le informazioni necessarie a stabilire la realtà dei fatti di cui era accusato. Nel 1998 e nel 1999, in particolare dopo l’avvio dei bombardamenti della NATO, gli uomini dell’Uck comandati da Ramush Haradinaj hanno prelevato serbi, rom e albanesi – tra cui delle donne – e li hanno imprigionati in condizioni disumane in prigioni improvvisate, li hanno torturati, violentati e uccisi.

Questi responsabili politici sanno bene che esiste un numero considerevole di scomparsi, tra i quali numerosi albanesi del Kosovo che l’Uck considerava traditori e che Ramush Haradinaj è stato assolto dalle accuse a forza di intimidazioni esercitate dai suoi uomini sui testimoni.

Sanno anche che la protezione dei testimoni in Kosovo è la peggiore di tutti i Balcani, secondo un rapporto del Consiglio d’Europa del 2010, e che la decisione del TPI che già scagionava una prima volta Ramush Haradinaj nel 2008, metteva in luce le difficoltà nel convincere i testimoni a portare la loro testimonianza all’Aja. Sanno anche che, nel corso dell’ultimo processo, i testimoni hanno rifiutato di parlare o hanno modificato nel corso del tempo la loro versione dei fatti. E infine, tutti sanno cosa sta avvenendo durante un altro processo ad un altro eroe dell’Uck, Fatmir Limaj.

Perché tanta gloria?

Una prima ragione potrebbe essere la dominazione dell’ideologia nazionalista tra le élite politiche albanesi e kosovare. Come avveniva durante l’epoca comunista, gli albanesi si nutrono ancora dell’idea che devono sacrificare se stessi per far prevalere gli interessi della nazione e che devono chiudere gli occhi davanti ad ogni crimine commesso in suo nome. Questo lavaggio del cervello spiega la schizofrenia della glorificazione degli eroi della nazione, che però si sono sporcati le mani di opere poco gloriose.

Questo processo è ancora più efficace perché Haradinaj e i suoi amici detengono in Kosovo non solo il potere politico, ma anche quello economico, e godono di un certo culto della personalità. Il destino dei testimoni “morti accidentalmente” ha facilitato loro il lavoro.

Seconda ragione: gli albanesi hanno difeso Ramush Haradinaj per proteggere l’immagine del loro paese davanti agli occhi della comunità internazionale. Le accuse mosse da Carla del Ponte dovevano essere smentite, rigettate in blocco, perché nocive alla causa nazionale, delegittimavano gli albanesi, davano argomentazioni ai loro nemici che li accusano di nutrire in modo pericoloso l’idea di un’unità nazionale, divenuta recentemente una parola d’ordine nella retorica politica albanese.

Un doppio discorso

Nelle sue dichiarazioni rilasciate ai media internazionali nell’evocare il “problema nazionale irrisolto”, Ramush Haradinaj si presenta come “un uomo politico moderato”. “La questione albanese è stata risolta con l’indipendenza del Kosovo”, ha recentemente dichiarato ad un media greco. “Le minoranze esistono ovunque. Se si iniziasse a definire frontiere che rispettino le divisioni etniche non si finirebbe più. Ritengo che è l’ora di far prevalere la ragione. Invito tutti gli albanesi a agire per favorire l’integrazione europea, a guardare al futuro e non al passato”.

Un linguaggio che non gli impedisce di utilizzarne anche un altro, più vicino all’ideologia adottata dai politici albanesi in questi ultimi vent’anni. “Siamo una nazione, una lingua, una bandiera, una strada (quella della Nazione, costruita da Sali Berisha per riunire Albania e Kosovo), e questo fa di noi una sola entità”, ha dichiarato in occasione della consegna della medaglia di cittadino onorario della città albanese di Lezha.

Ecco quello che io definisco un approccio degno di un nazional-europeismo, uno scivolamento della retorica dell’élite politica albanese dal nazional-comunismo alla strumentalizzazione del processo di integrazione europea.

Secondo quest’ultima ideologia, che mescola la visione nazionalista della Grande Albania alla visione post-nazionalista degli albanesi riuniti in seno all’Unione europea, i serbi, i greci, i macedoni, i montenegrini non escono però dal loro statuto di nemici di lunga data.

Carla del Ponte descrive Haradinaj nel suo libro La caccia. Io e i criminali di guerra (Feltrinelli) come un uomo sostenuto dagli internazionali dell’Unmik, che hanno tentato di ostacolare la sua inchiesta con il pretesto che questo personaggio era molto potente in Kosovo e che poteva trasformarsi in fattore di destabilizzazione per la regione.

Questo ci rivela uno di quegli animali politici che, in Albania come in Kosovo, non sono interessati che al potere personale e ai benefici che si possono trarre da esso. Ramush Haradinaj sa bene che, per il momento, non può fare a meno del sostegno della comunità internazionale. E’ per questo che sventola alta la bandiera a sei stelle del Kosovo di fronte agli europei e che si avvolge nel rosso e nel nero albanese quando incontra i suoi omologhi e i concittadini albanesi.

L’ambiguità dell’Europa

Il filosofo francese Etienne Balibar ricorda spesso che non considera atipica la situazione che si è venuta a creare in ex Jugoslavia. Non è in fin dei conti che la proiezione locale degli scontri e dei conflitti, “delle relazioni razziali europee”, come lui le chiama, che hanno scosso l’Europa intera. L’Europa attuale vive tensioni interne, tra l’egoismo degli Stati nazione e il post-nazionalismo dei suoi cittadini: “Il destino di una nuova identità europea si gioca in Jugoslavia e in generale nei Balcani… l’Europa deve ammettere che la situazione nei Balcani non è una mostruosità nel proprio seno, ma il riflesso della sua propria storia. E deve quindi adottare misure tali per farvi fronte e risolvere la situazione, e questo la rimetterà in discussione e la trasformerà. Sarà il grimaldello del suo rinnovamento”.

Se si è potuto in passato dire che gli occidentali erano voltati verso il futuro mentre gli europei dell’est verso il passato, come è stato dimostrato da quanto avvenuto in ex Jugoslavia, oggi non è più così. Il futuro del progetto europeo non è mai stato così in crisi come oggi. Il discorso doppio di Ramush Haradinaj e dei principali uomini politici kosovari ed albanesi è certamente il riflesso di questi Balcani dell’indecisione e dell’ambiguità degli europei rispetto al loro progetto di integrazione.

L’assoluzione di Ramush Haradinaj è molto significativa in questo contesto. Il fatto che sia sfuggito ad una decisione giusta apre il dibattito non solo sui rapporti tra politica e giustizia, ma anche sul funzionamento di un tribunale internazionale nell’Europa post-nazionale quando gli interessi che si autodefiniscono “nazionali” persistono.

L’esistenza di un tribunale per i crimini di guerra, come quello dell’Aja, di una giustizia che va oltre il potere, è un limite posto a quelle numerose persone che hanno l’arroganza di affermare nei loro paesi “che la legge e la giustizia sono loro stessi” e di perseguire la strada del crimine. La loro impunità è da base per i venti nazionalisti che soffiano nei loro paesi e che nutrono gli odi etnici.

Quest’impunità non minaccia solo la pace ed una genuina integrazione europea, ma anche lo sviluppo di una democrazia dello stato di diritto in Kosovo, incancrenito dalla criminalità, dalla corruzione e dal crimine organizzato. L’élite politica, di cui Ramush Haradinaj e Fatmir Limaj fanno parte, ne è spesso accusata. Non è per caso che il nuovo codice di procedura penale del Kosovo, licenziato nel gennaio 2013, rende ancora più difficile il coinvolgimento dei testimoni e la protezione di questi ultimi.

“Il razzismo trionfa quando si identifica con lo stato”, diceva Foucault. Sotto il cielo di un’Europa che ha smesso di guardare verso il futuro e che si rinchiude sempre più nell’egoismo degli stati-nazione, questa frase è sempre più significativa, in particolare in regioni come quella dei Balcani.

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