Kosovo, la lunga strada del dialogo
Valdete Idrizi, per anni alla guida del Community Building Mitrovica, lavora con serbi e albanesi per tenere vivi i ponti tra le due comunità nella città divisa. OBC l’ha intervistata nei giorni più tesi della crisi delle barricate. Per la Idrizi, l’escalation è dovuta agli errori di chi, comunità internazionale inclusa, ha tentato scorciatoie all’unica strada sostenibile: quella del dialogo
Valdete Idrizi è una di quelle cittadine di Mitrovica che non ha mai accettato la divisione della città in due parti distinte (albanesi a sud dell’Ibar e serbi a nord), che si è cristallizzata dopo la guerra del 1999. Per molti anni ha guidato Community Building Mitrovica, CBM (http://www.cbmitrovica.org/) che dal 2001 lavora testardamente sia con serbi che con albanesi. Uno dei progetti più conosciuti è quello della rivista “M Magazine” in albanese, serbo e inglese, prodotta da una redazione mista.
Per il suo lavoro a favore della riconciliazione nel 2008 Valdete Idrizi ha ricevuto il premio International Women Courage dal Dipartimento di Stato USA. e nel 2009 ha ricevuto il Soroptimist Peace Award. L’anno scorso Idrizi ha lasciato CBM per candidarsi alle elezioni kosovare col movimento "Fryma e Re" (Nuovo respiro) che però non ha raggiunto il quorum per entrare in parlamento.
Oggi Valdete Idrizi è tornata a lavorare come consulente per vari progetti dedicati al dialogo tra le comunità nazionali del Kosovo. Uno di questi è "Women together for human rights" di CBM, sostenuto da Unione europea e Caritas francese che ha portato alla costituzione di un’associazione di donne provenienti dalle aree miste del nord di Mitrovica (le “tre torri”, Bosnjacka Mahala, Suvido, Micronaselje, Osterode camp e a sud il quartiere rom Roma Mahala).
OBC ha incontrato Valdete Idrizi nella sede di CBM a Mitrovica sud nel periodo degli scontri tra comunità serba e Kfor sulle barricate erette nel Kosovo settentrionale, sfociati negli accordi sugli sulla gestione integrata delle frontiere (IBM) firmati a Bruxelles lo scorso 3 dicembre tra Pristina e Belgrado.
E’ possibile lavorare su progetti di dialogo in momenti di crisi come questo?
Alcune cose è possibile farle, altre meno, ma in generale lo scambio tra nord e sud continua. Ad esempio per l’ultima vacancy per un membro dello staff di CBM ha avuto molte richieste di candidati serbi che sono venuti alla sede dell’organizzazione, che sta nella parte albanese, per fare il colloquio. Diciamo che quello che possiamo fare lo facciamo, quello che non possiamo non lo facciamo. Senza pressione.
Gli accordi firmati da Borislav Stefanović per la Serbia e da Edita Tahriri per il Kosovo sugli IBM (Integrated Borders Managment), ovvero la gestione dei due passaggi doganali tra Serbia e Kosovo, Jarinje e Brnjak, miglioreranno la situazione?
In realtà sia a nord che a sud la popolazione è molto scettica. Gli ultimi accordi firmati a Bruxelles non sono stati rispettati e hanno portato, in definitiva, alle barricate. Oggi ancora non si sa bene se le barricate rimarranno o meno e se, ad esempio, le merci kosovare verranno accettate in Serbia, che è il punto che nell’ultimo round venne disatteso da Belgrado.
Quale potrebbe essere una strategia del governo di Pristina verso il nord?
Con la tensione così alta è un po’ difficile pensare ad una strategia, ma qualcosa si può fare. Il fatto è che errore dopo errore siamo arrivati alle barricate. E questo non solo a causa del governo di Pristina ma anche dell’ICO (International Civilian Office). Il pacchetto del piano Athisaari doveva essere implementato dopo che il Kosovo aveva dichiarato l’indipendenza, invece nessuno si è mai preso la briga di tradurlo in linguaggio comune. Per questo la gente lo ha respinto senza sapere bene a cosa stava dicendo di no.
Quali sono i punti più positivi del piano Athisaari, soprattutto rispetto alla questione del nord del Kosovo?
L’idea generale di decentralizzazione era molto buona, nel piano viene promossa la “local ownership”: ovvero sono le persone a definire autonomamente le proprie politiche. Quindi il nord avrebbe in un certo senso più potere, manterrebbe i legami con Belgrado (il piano Athisaari lo permette), i serbi potrebbero mantenere la loro identità culturale e ci sarebbe la possibilità di avere un bel po’ di soldi da Pristina e allo stesso tempo nessuno vieterebbe di avere denaro da altre fonti, ovvero Belgrado.
Se si fosse speso un po’ più di tempo per chiedere l’opinione delle varie comunità sul piano, si sarebbero potuti raccogliere molti spunti e risposte. Ma questo non è stato fatto. La situazione è poi cambiata e Pristina ha deciso di portare avanti una strategia diversa: quella dell’integrazione del nord. Ma anche questo è stato un errore commesso dal governo del Kosovo e da ICO, perché anche in questo caso non c’è stato nessun piano, nessuna valutazione e nessuna attenzione alla sensibilità locale. Come si può sviluppare un piano sostenibile se non si coinvolgono gli attori chiave?
L’attività politica e diplomatica sul nord del Kosovo è stata però intensa, ed ha portato ai colloqui sponsorizzati dall’Ue…
Sì ma con chi? Con Belgrado. Questo è il problema. Chi rappresenta il nord? Il dialogo dev’essere fatto a più livelli: ad alto livello politico perché è stato tutto molto politicizzato quindi Belgrado e Pristina dovevano per forza essere coinvolti. Ma parallelamente ci dev’essere un dialogo tra governo del Kosovo, partner internazionali e i politici locali, per dare loro un riconoscimento e per farli discutere direttamente. Ma soprattutto far sì che Eulex che faccia il proprio lavoro, perché ormai la vita vale troppo poco al nord e non c’è nessuna autorità a cui rivolgersi per il mantenimento dello stato di diritto.
Anche il governo del Kosovo ha fatto un grosso errore nel portare avanti un’azione come quella di luglio senza avere un piano, senza che si sia fatta una smilitarizzazione del nord. Perché si sa che ci sono in giro un sacco di armi. Quell’azione doveva essere fatta in qualche modo per ripristinare il fair play in campo commerciale. Allo stesso tempo però nessuno pensava che la Kfor avrebbe reagito così debolmente alle proteste sulle barricate.
I serbi del nord però parlano di resistenza civile, quindi si sentiranno sempre attaccati da persone in armi ovvero dai militari della Kfor…
Questa è la grossa differenza tra le due comunità fin dal 1999: per i serbi i militari internazionali sono occupatori, per gli albanesi sono liberatori. I sentimenti di chi protesta però non sono gli stessi per tutti, non tutti hanno sentono così forte lo spirito di "resistenza". Ci sono anche molti serbi che non vanno così volentieri sulle barricate.
Fino ad ora l’uso della forza non ha portato nessun risultato…
E’ proprio quanto sostengo, perché fare una cosa del genere senza una demilitarizzazione preventiva? Bisognava agire in modo totalmente differente. Io avrei iniziato a lavorare in anticipo, poi avrei portato avanti un dialogo con le persone del posto e non soltanto con chi sembrava più "malleabile".
Questo è un errore che fanno gli internazionali in primis: ci sono singoli attivisti serbi che solo ufficialmente e non nei fatti sostengono ‘indipendenza del Kosovo e le sue istituzioni e che per questo ricevono attenzione e soldi, mentre quelli che criticano il governo del Kosovo a causa di corruzione ed inefficienze vengono considerati estremisti. Io cercherei di parlare con quest’ultimo gruppo, perché sono quelli che sono intenzionati a restare. È una strada lunga, ma più sostenibile. Su queste persone io investirei molte energie cercando di creare un quadro di accordi in cui nessuno dovrebbe "riconoscere" niente. Bisogna essere più flessibili, più pragmatici e meno politici.
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