Kosovo: la corsa verso i rimpatri
In vista dei futuri colloqui sullo status, la Germania e altri paesi d’accoglienza aumentano le pressioni per il rimpatrio dei profughi del Kosovo. La difficile situazione delle minoranze, la posizione dell’Unhcr e i protocolli segreti. Da Transitions Online
Di Karin Waringo, Transitions Online, 11 luglio 2005
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Letizia Gambini
Nessuna pietà. Il 24 giugno, i ministri degli Interni dei Lander tedeschi hanno rifiutato di ritirare la minaccia di rimpatrio forzato da alcune delle migliaia di profughi fuggiti dal conflitto del Kosovo. Il ministro degli Interni Federale, Otto Schily, aveva semplicemente proposto di assicurare ai bambini che avevano passato in Germania parecchi anni e alle loro famiglie che, almeno loro, non avrebbero rischiato la deportazione.
Il rifiuto dei ministri al considerare la proposta di Schily significa che circa 54.000 persone rischiano di essere rimandate forzatamente in Kosovo. I più sono Rom, Ashkali e Egiziani Kosovari.
ALLONTANARE DEFINITIVAMENTE UNA MINACCIA
Il Kosovo sta entrando in una nuova fase di instabilità. In febbraio, l’International Crisis Group, organizzazione con base a Bruxelles, aveva avvertito che la violenza potrebbe aumentare nel Kosovo se le aspettative della maggioranza albanese di raggiungere l’indipendenza verranno deluse. Nel marzo 2004, un improvviso scoppio di violenze aveva portato alla morte di 19 persone e alla deportazione di 4.000 serbi, Rom e Ashkali, cacciati dalle loro case da manifestanti albanesi inferociti. La NATO sta preparando dei piani di contenimento adesso che la zona entra in un "periodo a rischio", come lo ha definito recentemente il Segretario Generale Jaap de Hoop Scheffer, durante il quale la comunità internazionale dovrà valutare se è il caso di cominciare dei dialoghi tra le varie parti per definire il futuro status.
Il coordinatore del Patto di Stabilità per il Sud Est Europa, Erhard Busek, ha ammesso in una recente intervista concessa ad un quotidiano che, a sei anni dalla fine della guerra, i serbi del Kosovo e i Rom hanno ancora difficoltà ad essere accettati dalla maggioranza albanese. Ha comunque difeso la decisione del governo tedesco di considerare il rimpatrio parte del processo di normalizzazione.
Sono stati pochi i ritorni volontari della popolazione in Kosovo. Alla fine dell’anno scorso, l’UNHCR, l’agenzia della Nazioni Unite per i rifugiati, ha riportato 12.000 "ritorni di minoranze", definiti come il ritorno di persone in luoghi in cui la loro comunità non è maggioritaria. Circa 10.000 ritorni forzati sono stati registrati nel 2003 e nel 2004, in maggioranza Albanesi, Bosniaci e Ashkali.
Fino a questa primavera, l’UNHCR ha sostenuto che le persone appartenenti a minoranze continuavano ad essere minacciate in Kosovo, e che quindi non dovevano essere rimpatriate. Ma nel marzo, l’agenzia ha cambiato la sua posizione riguardo agli Ashkali e agli Egiziani Kosovari, dichiarando che la loro situazione va valutata caso per caso. (Gli Ashkali e i così detti Egiziani Kosovari utilizzano per lo più l’albanese, al contrario dei Rom, che spesso usano il serbo). Il 26 aprile, il governo federale tedesco ha concluso un nuovo accordo con l’amministrazione civile ONU in Kosovo, che permette alla Germania di proporre ogni mese i nomi di fino a 500 Ashkali e Egiziani Kosovari che saranno rimpatriati, anche se si prevede che soltanto un quinto di questi venga effettivamente rimandato a casa dopo i controlli.
L’accordo esclude per il momento dal rimpatrio forzato i Rom, esclusi una ventina (da settembre 2005 circa 30) Rom che sono in carcere e stanno scontando pene di due anni o più. A settembre ci saranno altre trattative. Le previsioni ottimistiche dell’UNMIK e di Berlino sono che tutte le restrizioni sui rimpatri forzati possano essere eliminate nel 2006.
PROTOCOLLI SEGRETI PER I RITORNI "VOLONTARI"
Dall’essere un diritto stabilito dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU numero 1244 del 1999 ("è diritto di tutti i rifugiati e deportati di ritornare alle proprie case in Kosovo in tutta sicurezza"), il ritorno dei rifugiati e deportati del Kosovo è diventato una minaccia. Lo stato delle cose attuali è difficilmente compatibile con il principio dell’UNMIK del ritorno sostenibile, definito come una libera scelta, e nemmeno con i principi elencati nel "piano di implementazione" per il Kosovo dell’ONU: "Tutti i rifugiati e i deportati che vogliono ritornare in Kosovo devono poterlo fare in sicurezza e dignità".
Nei mesi scorsi, i rappresentanti del governo eletto del Kosovo hanno aumentato gli appelli alle comunità in esilio per il loro ritorno in Kosovo. Un serbo del Kosovo è stato nominato ministro per i Ritorni. Molti comuni hanno creato delle commissioni per il ritorno. Le autorità hanno visitato i paesi vicini e ricevuto visite da parte delle loro controparti.
La Macedonia e il Montenegro hanno firmato dei protocolli sul ritorno dei rifugiati con il governo e l’UNMIK. Al contrario degli accordi con la Germania, questi protocolli riguardano soltanto i ritorni "volontari", ma i documenti non sono pubblici e le comunità dei rifugiati hanno paura di seguire lo stesso destino dei rifugiati in Germania e in altri paesi dell’Europa Occidentale. Infine, rappresentanti del governo macedone hanno già annunciato che anche loro metteranno pressione sui rifugiati per farli tornare a casa.
La situazione in Kosovo rimane incerta. L’amministrazione ONU ha recentemente mostrato la tendenza a sottovalutare le preoccupazioni per la sicurezza dei rifugiati, notando per esempio che non sono stati riportati atti di serio "crimine motivato dalla discriminazione etnica", dopo le violenze di strada del marzo 2004. L’agenzia per i rifugiati dell’ONU ha fatto affermazioni simili nel suo documento rilasciato nel marzo 2005, concludendo comunque che l’assenza di serie violenze contro i membri di minoranze etniche potrebbe essere legato alla rinnovata limitazione della libertà di movimento.
L’UNMIK ha comunque ammesso che i termini degli accordi per il rimpatrio con la Germania sono difficilmente attuabili. In un’audizione di fronte alla Commissione di Helsinki del governo americano, il capo dell’UNMIK Soren Jessen-Petersen ha ammesso che in Kosovo manca la capacità di integrare un gran numero di rifugiati. Ha ripetuto questo in risposta ad una lettera dell’Ombudsperson del Kosovo, Marek Nowicki, in giugno, aggiungendo anche che l’UNMIK non aveva dato il suo assenso e non si aspettava nessun ritorno di massa di Rom dalla Germania o da altri paesi, non menzionando però se si stesse riferendo anche agli Ashkali e agli Egiziani Kosovari.
I RIFUGIATI A CASA
Quello che è spesso sottovalutato è che il Kosovo ha anche un gran numero di rifugiati interni e deportati. In giugno, l’inviato speciale dell’ONU per i diritti umani dei deportati, Walter Kalin, ha visitato il Kosovo. Alla fine della sua visita ha constatato la deplorevole condizione di molti deportati, che sono tuttora costretti a continuare a sopravvivere miseramente in campi profughi perché non ci sono abbastanza fondi per favorire il ritorno alle loro case, che potrebbero essere distanti soltanto pochi chilometri, ma in molti casi sono distrutte dal conflitto del 1998-1999 o occupate da membri delle etnie più potenti. Ha anche aggiunto che la mancanza di attenzione nei confronti di questo problema danneggia soprattutto le minoranze non-serbe – Rom, Ashkali, Egiziani Kosovari, e altri piccoli gruppi che si sentono oppressi tra le due maggiori comunità etniche (albanese e serba).
Alla fine di aprile, le condizioni di vita disastrose dei Rom che vivono in campi a Zitkovac, Cesmin Lug, e Kabalare ha catturato brevemente l’attenzione dei media internazionali. Le analisi del sangue condotte dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità hanno rivelato un livello sopra la norma di piombo nel 40 percento delle persone sottoposte al test. Ventisette persone, tra i quali l’ultimo è un uomo di 26 anni, sono già morti a causa di quello che i loro parenti vedono come le conseguenze di una contaminazione del suolo del campo.
Le persone che vivono in questi campi sono gli ex abitanti di Fabricka Mahala, il vecchio quartiere Rom di Kosovska Mitrovica. In aprile, l’UNMIK, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e altre organizzazioni internazionali avevano fieramente annunciato un accordo con il consiglio comunale per la ricostruzione della Mahala, distrutta nel giugno 1999 sotto gli occhi delle truppe francesi della KFOR. Però, ad un incontro per la raccolta fondi svoltosi in maggio, nessuno sponsor internazionale ha espresso la volontà di donare fondi.
L’UNMIK ha reso pubblici solo scarsi dettagli a proposito dei ritorni e dei rimpatri forzati sotto il nuovo accordo con la Germania. Dallo scambio di corrispondenza tra l’UNMIK e Nowicki emerge che 14 Ashkali e Egiziani Kosovari sono stati rimpatriati nelle prime settimane successive alla attuazione dell’accordo. Jessen-Petersen ha anche affermato che la Germania non è l’unico paese che sta facendo pressioni per il ritorno dei rifugiati. Presto il governo del Kosovo, la Serbia e la comunità internazionale apriranno il dialogo per definire il futuro status del Kosovo. Proprio perché la questione del ritorno dei rifugiati è uno dei prerequisiti perché il dialogo cominci, i governi ospitanti hanno intravisto uno spiraglio per rispedire i rifugiati a casa.
La resistenza si sta pian piano facendo avanti. Il mondo sembra essersi dimenticato che i rifugiati Rom, mai benvenuti dovunque fossero andati, avevano lasciato il loro paese sotto la minaccia di violenze e minacce. In uno dei suoi regolari editoriali sulla stampa del Kosovo, l’Ombudsperson Nowicki ha ricordato ai paesi ospitanti che le "case" a cui i governi intendono rimandare i rifugiati potrebbero essere memoria di avvenimenti tragici ed in molti casi non esistere neppure più.
Mentre i rifugiati all’estero sono spesso intimoriti dalla paura che qualunque atto di resistenza da parte loro possa aggravare la loro situazione e favorirne la deportazione, la loro causa è portata avanti dalle loro comunità residenti in Kosovo. Rappresentanti del Forum dei Rom e degli Ashkali del Kosovo hanno cominciato a dichiararsi contrari a quello che definiscono un esperimento su popolazioni indifese. In un appello ai rappresentanti della comunità internazionale hanno domandato la sospensione immediata delle deportazioni e hanno chiesto di essere inclusi nelle negoziazioni sul futuro del Kosovo.
Karin Waringo è una giornalista indipendente e ricercatrice su questioni relative al popolo Rom
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