Kosovo e internazionali, trasparenza cercasi
In Kosovo, una società pubblica viene espropriata per assicurare all’American University in Kosovo (privata) gli spazi per costruire il proprio campus. Secondo Andrea Capussela, ex direttore dell’ufficio economico dell’ICO, l’operazione rappresenta "tutto ciò che non va nel Kosovo di oggi". Da TOL
Accuse di corruzione e incompetenza hanno perseguitato il governo del Kosovo sin dalla dichiarazione d’indipendenza del febbraio 2008. D’altra parte, i supervisori internazionali della provincia divenuta Stato, dalle Nazioni unite all’Unione europea passando per gli Stati uniti, non hanno mai smesso di essere variamente dipinti come colonialisti, interessati, miopi, inerti o compromessi. Essendo il Kosovo un Paese piccolo e con vari strati di governo, parte di una regione nota per la corruzione delle proprie istituzioni, non è difficile capire come le frequenti denunce di truffe e corruzione tendano ad evaporare in una nube di confusione e indifferenza.
La settimana scorsa Koha Ditore, il principale quotidiano del Paese, ha pubblicato un pezzo in prima persona in cui Andrea Lorenzo Capussela, ex funzionario internazionale dell’ICO, fa letteralmente a pezzi un accordo che giudica illegale. Quella di seguito pubblicata è una versione rivista ed editata dell’articolo uscito su Koha Ditore. Pieter Feith, ex superiore di Capussela, ha reagito dichiarando che l’accordo non è concluso e che “il governo dovrebbe presto spiegare quali interessi pubblici” lo rendono necessario e quindi legale.
Una replica dell’ufficio stampa dell’International Civilian Office cita "un complesso educativo che ospiterebbe anche l’American University in Kosovo". Anche in questo caso, però secondo Capussela il trasferimento di proprietà di un complesso educativo (presumibilmente pubblico) non comporta che un’università privata ne entri parzialmente in possesso senza alcuna gara d’appalto. Poiché il comunicato cita anche “imprecisioni” nel resoconto di Capussela, TOL ha richiesto chiarimenti all’ufficio stampa ICO e ha ricevuto questa risposta:
“Come espresso nel comunicato di ieri, riteniamo che la versione del Sig. Capussela non fornisca un quadro completo né accurato del coinvolgimento dell’ICO nella vicenda. Ad esempio, consideriamo scorretto sostenere che l’ICO abbia fatto poco e troppo tardi, dato che il Sig. Capussela non è a conoscenza (né potrebbe esserlo) del persistente lavoro sulla questione, avendo lasciato l’Ufficio a fine marzo 2011. Considerati i possibili risvolti legali e i nostri doveri di riservatezza, anche verso il Sig. Capussela, non possiamo scendere in ulteriore dettaglio, ma speriamo che questo aiuti a spiegare la nostra posizione”.
Alle 9.10 del 23 settembre 2010, prendendo posto al consiglio di amministrazione dell’Agenzia per le privatizzazioni del Kosovo, trovai una serie di documenti che non erano all’ordine del giorno. Scorrendoli durante la discussione di altri argomenti, vidi che si trattava di un appezzamento di terra, tolto ad un’impresa ad amministrazione statale per permettere all’American University di costruirvi un nuovo campus.
Alle 12.30, dopo il nostro solito pranzo frugale, il presidente Dino Asanaj prese la parola per chiederci di approvare l’esproprio e la compensazione offerta, dicendo che era importante per sostenere l’istruzione superiore in Kosovo. Era un’imboscata: i membri del CdA devono ricevere proposte e relativi documenti cinque giorni prima della riunione. Io dissi che il consiglio non avrebbe dovuto votare, perché non c’era tempo per studiare la questione, ed espressi dubbi sulla legalità dell’operazione. Il presidente insistette per votare: un altro collega e io ci astenemmo, mentre gli altri sei votarono a favore. L’unica cosa che ottenni fu un’approvazione “di principio”, previa verifica della legalità dell’esproprio.
Nel tardo pomeriggio studiai le carte: il 16 giugno 2010, il governo aveva avviato il processo di esproprio per 30 ettari di terreno vicino ad un nuovo complesso immobiliare in stile americano, detto International Village, costruito da una compagnia di cui Asanaj è amministratore delegato.
La proprietà in questione appartiene ad AIC Kosovo Export, compagnia amministrata dall’Agenzia per le privatizzazioni. I documenti mostravano che la costruzione del campus era già iniziata. Una lettera mostrava che i termini dell’esproprio erano stati discussi, e apparentemente approvati, durante un incontro tenutosi a giugno fra l’allora ministro dell’Economia Ahmet Shala, l’allora ministro dell’Istruzione Enver Hoxhaj, il direttore vendite dell’Agenzia per le privatizzazioni Mrika Tahiri e Chris Hall, il presidente dell’università. Una lettera datata 3 settembre mostrava che il governo, non l’università, avrebbe pagato 3,4 milioni di euro all’agenzia per le privatizzazioni.
Tutto era già stato deciso ancora prima che il CdA fosse informato.
Conclusi che la transazione era illegale per due motivi. Primo, Kosovo Export, la compagnia proprietaria del terreno, è una delle tante cosiddette imprese di proprietà sociale in Kosovo. Si tratta di aziende, nazionalizzate in passato, che ora rappresentano buona parte del carico di lavoro dell’agenzia. Secondo la Costituzione del Kosovo, la loro privatizzazione può avvenire solo con una gara d’appalto. Il governo ne può entrare in possesso solo per chiari scopi di pubblico interesse e può conferirne l’uso, ma non la proprietà, ad un soggetto privato, sempre attraverso una gara d’appalto. Qui, nessuno di questi criteri veniva rispettato.
Secondo, contrariamente a quanto stabilisce la legge, la compensazione proposta dal governo era molto inferiore al valore di mercato del terreno. Uno studio commissionato dall’agenzia mostrava che, quando le banche accettavano terreni analoghi come garanzie per prestiti, facevano stime fra i 50 e i 60 euro al metro quadro. Eppure la valutazione si fermava all’improbabile cifra di 15 euro al metro quadro, per una porzione di proprietà in un’area del Kosovo in pieno sviluppo, con permessi di costruzione e facili allacciamenti a strade, acqua, fognature, ed elettricità. E la proposta finale scendeva ad 11 euro al metro quadro. In altre parole, l’agenzia avrebbe dovuto ricevere almeno 39-49 euro in più al metro quadro, ovvero fra i 12 e 15 milioni di euro in più di quanto stabilito nell’accordo.
Ma chi stava pagando il vero prezzo dell’affare? Il ricavato di queste vendite va a lavoratori e creditori delle imprese di proprietà sociale e quello che resta confluisce nel bilancio statale. Se il prezzo non basta a compensare lavoratori e creditori, questi perdono la differenza e non rimane nulla ai cittadini. Accettando quella compensazione, quindi, l’agenzia delle privatizzazioni sottraeva scientemente almeno 12 milioni di euro a chi vi aveva diritto.
Questo per quanto riguarda la legalità dell’affare. Ma era una cattiva idea anche per diverse altre ragioni.
Violazioni così palesi della legge e dei diritti dei creditori deteriorano ulteriormente la qualità dello stato di diritto e del clima d’investimento, rendendo così il Kosovo ancora meno attraente per gli investimenti stranieri e danneggiando le prospettive di sviluppo economico. In più, con questo accordo il governo faceva un grande regalo all’università, che invece non è mai stata molto generosa verso il Paese.
L’American University è un’istituzione privata no-profit, finanziata da una fondazione benefica di New York, che rilascia lauree per conto del Rochester Institute of Technology, stato di New York. Secondo le revisioni dei conti consultabili sul suo sito web, negli ultimi quattro anni la media delle entrate è stata di 2,8 milioni di euro, e quella delle uscite 3,1 (queste cifre escludono un consistente contratto con il ministero dell’Istruzione, che negli ultimi due anni ha fruttato un profitto medio di 270.000 euro l’anno). Il 95% delle entrate è rappresentato dalle tasse universitarie, mentre le uscite sono più diversificate: il 37% va al Rochester Institute of Technology, il 32 agli stipendi dei docenti, il 9 alla fondazione benefica di New York e il 4 al presidente dell’università. Il resto è per computer, libri e borse di studio. Ma la gran parte di queste borse è finanziata dal governo o da donatori: l’università ci mette solo il 35%, ovvero l’8% complessivo delle spese e un po’ meno dei profitti derivati dal contratto con il governo.
In sostanza, l’università è un business che sfrutta l’inadeguatezza dell’offerta formativa statale e le difficoltà incontrate dagli studenti più abbienti ad ottenere visti per studiare all’estero. In cambio di alte rette, fornisce una discreta formazione e una laurea statunitense. Circa metà delle rette vanno al Rochester Institute of Technology e alla fondazione benefica di New York. L’istituzione è esente da tassazione e, considerato che preferisce mandare i profitti a New York piuttosto che reinvestirli in borse di studio o attività benefiche in Kosovo, in termini economici sono i cittadini del Kosovo a rimetterci nella relazione. Ciò non toglie che l’istruzione privata sia un business perfettamente legittimo e che l’American University lo porti avanti piuttosto bene: produce laureati con competenze medie migliori dell’Università di Pristina e gran parte delle private, il che compensa parzialmente la perdita.
Ma cosa sarebbe successo se l’agenzia avesse venduto il terreno a prezzo di mercato e utilizzato il ricavato per finanziare lo sviluppo, invece che finanziare l’American University? Quei 12-15 milioni di euro avrebbero potuto pagare computer, laboratori e altri miglioramenti per l’Università di Pristina, il cui budget la Banca mondiale considera “modesto”. Al contrario, questa transazione riflette una politica della formazione che mira a sussidiare l’università dei ricchi trascurando quella pubblica, e così favorendo ulteriormente la domanda per quella privata.
La soluzione sembrava semplice: fermare l’esproprio e la costruzione del campus e istituire una gara d’appalto per il terreno, come previsto dalla legge. Se l’American University avesse fatto un’offerta troppo bassa, avrebbe potuto costruire il campus altrove. Ovviamente avrebbe perso il denaro già usato per costruire, ma questo è quello che succede quando si costruisce su terreno altrui.
Il giorno dopo la riunione, mandai le mie conclusioni a diversi colleghi dell’International Civilian Office, che ha l’incarico di supportare il processo di consolidamento istituzionale del Kosovo e rappresenta i poteri statunitensi ed europei, architetti della creazione del giovane stato kosovaro. Nel giro di 10 minuti ricevetti due risposte, prudentemente indirizzate solo al sottoscritto. La prima recitava: “attenzione caro, stai entrando in un campo minato!”. L’altro avvertimento era più dettagliato: “sappi che questo accordo è stato negoziato durante svariate passeggiate domenicali fra [l’ambasciatore statunitense Christopher Dell e il Primo ministro del Kosovo Hashim Thaci]. Potrebbe essere difficile da bloccare”. La questione sembrava più delicata del previsto, quindi ne parlai con il mio superiore Pieter Feith, inviato speciale UE in Kosovo e direttore dell’International Civilian Office, che mi incoraggiò ad agire.
A quel punto chiesi ad un alto funzionario diplomatico americano all’interno dell’ICO se fosse possibile per lui parlare con la sua ambasciata per fare modifiche all’accordo. “Nessuno vuole impedire [all’American University] di aprire un nuovo campus, la questione è nelle modalità di acquisto”, scrissi in un’email. Ricevetti una risposta pro forma, in cui si offriva di trasmettere le mie preoccupazioni, ma mi ricordava che l’università “non ha collegamenti con il governo”, nonostante l’ambasciata e Usaid figurino nell’elenco dei partner sul sito web. Qui finì la mia conversazione indiretta con l’ambasciata statunitense: nulla di fatto.
Quando presentai le mie obiezioni al presidente Hall, arrossì e promise di proporre “miglioramenti”. Un altro nulla di fatto. Shala, il ministro delle Finanze, non rispose alle mie email.
Lo fece invece Eulex (la missione UE incaricata di consolidare lo stato di diritto), ma fu una risposta inutile e alquanto stupida. In una lettera del 13 ottobre Isabelle Arnal, capo dell’Ufficio speciale della procura in Kosovo, mi consigliò di chiedere all’agenzia per le privatizzazioni di impugnare esproprio e compensazione. Questo quando la stessa agenzia li aveva già accettati entrambi.
Avevo mandato il mio parere anche all’ufficio legale dell’agenzia. Ma il 28 ottobre, con quattro voti a favore, uno contrario (il mio) e due astensioni, il Consiglio approvò definitivamente esproprio e compensazione, nonostante i legali avessero definito “dubbia” l’autorizzazione all’esproprio.
Allora riferii a Feith dei miei fallimenti e invitai l’ICO a bloccare l’esproprio e la relativa transazione. Feith mi chiese di discutere la questione con il suo vice (un diplomatico americano) e altri alti funzionari, per poi presentare un piano d’azione. Per oltre tre mesi, le mie richieste di mettere a punto questo piano d’azione incontrarono procrastinazioni, domande, commenti futili e riunioni inutili quanto poco frequentate. Questa palese inerzia mi confermò che i difetti di questa transazione dovevano essere intenzionali, e mi fecero pensare che probabilmente l’ambasciatore americano aveva partecipato alla sua pianificazione, perché mai nell’ultimo anno l’ICO aveva preso una posizione non approvata dall’ambasciata. Ma le tattiche dilatorie dei miei colleghi raggiunsero lo scopo, perché ci portarono al 31 marzo, scadenza naturale del mio incarico.
A fine febbraio, dissi a Feith e ai miei colleghi che non avrei tollerato altri ritardi: a meno che non mi avessero convinto che la mia interpretazione dell’accordo era sbagliata, mi aspettavo che l’ICO lo bloccasse entro la scadenza del mio contratto. Allora le cose precipitarono rapidamente: un collega americano mi accusò falsamente di mentire per sostenere la mia versione; una settimana dopo il nostro capo del personale, anziché sanzionare il mio collega come da me richiesto, mi ordinò per iscritto di non parlare dell’accordo fuori dall’ICO. A quel punto diedi a Feith una scadenza per sanzionare i due colleghi e fermare l’esproprio, avvisandolo che in caso contrario avrei scritto ai suoi supervisori (gli stati membri del Kosovo International Steering Group) per lamentare sia la transazione che la sua deliberata inazione in merito. Feith reiterò l’ordine di tacere e minacciò di licenziarmi in caso contrario. La scadenza passò e io scrissi agli stati membri dell’ISG. Feith lo venne a sapere (credo esaminando a mia insaputa la mia posta elettronica) e mi licenziò per motivi disciplinari il 30 marzo.
Mentre le puntate di questa singolare vicenda si susseguivano, vedevo l’affare American University come un campione di laboratorio che metteva in mostra il volto peggiore dell’élite del Kosovo e dei suoi amici e supervisori internazionali: la loro avidità, meschinità, pusillanimità. Il loro disprezzo per i propri doveri, l’interesse pubblico e la dignità stessa delle loro funzioni. Ma la determinazione con cui si difendevano proprio questi aspetti peggiori dimostra che non si trattava di errori, ma di un piano preciso: abusare del potere pubblico per soddisfare interessi privati e massimizzare i profitti privati alle spese dell’interesse pubblico. Questa è la raison d’être dell’accordo.
In uno scambio successivo, Feith mi ha detto di aver intrapreso “misure adeguate”, evitando però di specificare quali. In ogni caso, sembra che sia stato fatto troppo poco e troppo tardi: a quanto ne so, la costruzione del campus continua e credo che, ormai, chi trae profitto da questa operazione abbia messo al sicuro il bottino.
Forse l’opposizione parlamentare, la stampa o la società civile possono ancora fare qualcosa. Se riuscissero a fermare questa operazione, che rappresenta tutto quello che c’è di sbagliato in Kosovo oggi, sarebbe un’importante vittoria simbolica e forse il primo passo verso una serie di sviluppi positivi. Dove il sistema politico è chiuso e inefficiente, episodi apparentemente minori possono dare vita a grandi cambiamenti. Almeno, vincendo una battaglia che ICO ed Eulex non hanno voluto nemmeno cominciare, chi aspira ad una miglior governance in Kosovo dimostrerà che queste due imperfette creature internazionali sono diventate inutili se non dannose: un’ottima ragione per chiedere a Bruxelles e Washington di riformarle o ritirarle.
Anche se non dovesse cambiare nulla, esorterei l’università ad essere più generosa verso il Kosovo. Nel 2010 ha destinato alle borse di studio meno di 343.000 euro, ma ha pagato un milione e mezzo al Rochester Institute of Technology, 360.000 euro alla fondazione benefica di New York e 138.000 al proprio preside. E se si deduce il profitto di 341.000 euro derivato dal contratto con il governo, ai giovani kosovari resta la misera cifra di 1.500 euro.
* Pubblicato originariamente su Transition On Line il 13 luglio 2011 col titolo "An Education in Deal-Making, Kosovo Style".
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