Kosovo: chi parla? Rischia la vita
Chi decide di testimoniare all’Aja rischia la propria vita. Non è una novità per quanto riguarda la ex Jugoslavia ma nei processi in merito a crimini commessi da ex membri dell’UCK il problema sembra ancora più grave. Un articolo tratto da IWPR
Di Michael Farquhar – IWPR
Traduzione a cura di Osservatorio sui Balcani
Mentre il Primo ministro del Kosovo aspetta che si apra il processo nei suoi confronti all’Aja, emergono segnali che indicano che il lavoro del Tribunale che coinvolge incriminati albanesi si scontrerà con gravi problemi di intimidazione dei testimoni.
Il testimone protetto L-96 è stato invitato dai pubblici ministeri dell’Aja per raccontare come, nell’estate del 1998, lui ed altri detenuti di un campo per prigionieri allestito nel villaggio di Lapusnik, sono stati messi in fila da un plotone di esecuzione dell’UCK, in una radura del fitto bosco delle montagna Berisa.
Ha raccontato alla corte di essere riuscito a fuggire nel fitto del bosco nel momento stesso nel quale la foresta esplodeva di colpi d’arma da fuoco e di urla.
Data l’esperienza vissuta per il testimone è stata una sofferenza sedere davanti alla corte, nonostante la sua identità fosse tenuta nascosta al pubblico che partecipava al processo.
"Grazie …. per aver fatto i nomi" ha affermato stizzito quando nel contro-interrogatorio l’avvocato della difesa si è lasciato scappare un elemento che avrebbe potuto portare a svelare la sua identità. "Vi posso assicurare che ora mi sento molto più in pericolo, addirittura più che in passato".
Essere testimone oculare durante un processo per gravi crimini di guerra è senza dubbio un’esperienza carica di stress.
A 4 mesi dal primo caso contro ex membri dell’UCK trattato dalla corte delle Nazioni Unite vi sono segnali che testimoniano come gli albanesi che decidono di testimoniare debbono affrontare pressioni molto particolari.
Nel luglio del 2003 i pubblici ministeri dell’Aja hanno riportato che numerosi potenziali testimoni del processo contro tre ex membri dell’UCK accusati di abusi ed omicidi di detenuti nel campo di Lapusnik, sono stati o "direttamente avvicinati o hanno ricevuto chiamate o messaggi nei quali è stato detto loro che, nel caso avessero deciso di testimoniare, avrebbero subito le conseguenze",
Uno di questi testimoni, hanno affermato, è stato obbligato a trasferirsi in un altro Paese dopo che la KFOR, la forza NATO di stanza in Kosovo, ha sventato un complotto per ucciderlo.
I pubblici ministeri, lo scorso 12 novembre, hanno richiesto che i 12 testimoni del caso Lapusnik, potessero godere di misure di protezione, temendo per la sicurezza loro e dei familiari.
"L’intimidazione dei testimoni è un problema grave in tutta la ex Jugoslavia" ha dichiarato la procuratrice generale Carla Del Ponte in un discorso tenuto lo stesso mese presso il Consiglio Nord Atlantico a Bruxelles. "Ma in Kosovo è molto diffusa, applicata in modo sistematico e spesso con conseguenze mortali".
Molti osservatori affermano che l’insicurezza dei testimoni – problema che è sorto in molti altri processi svoltisi presso l’Aja ma che comunque nel caso Lapusnik è particolarmente preoccupante – può essere attribuita alla fragilità dello stato di diritto in Kosovo, come anche all’enfasi storica che la compatta comunità albanese ha posto sulla lealtà, l’onore e la ricompensa.
Gli osservatori internazionali ed i serbi del Kosovo – compresi due che hanno affermato di essere stati rinchiusi del campo di Lapusnik nel 1998 – si sono sentiti sufficientemente sicuri da apparire senza protezione alcuna per testimoniare contro Fatmir Limaj, Isak Musliu e Haradin Bala.
Ma quasi ogni testimone albanese che si è presentato sino ad ora – solo una è stata l’eccezione – viene ricompreso in una delle due seguenti categorie: ex compagni degli accusati, che si sono rifiutati di testimoniare sino a quando è stato loro inviato un mandato di comparizione; ed altri, in gran parte vittime, che hanno parlato ma solo sotto misure protettive.
Coloro i quali appartengono alla prima categoria, che hanno accettato di comparire come testimoni solo sotto la minaccia di finire anche loro sul banco degli inquisiti, si sono dimostrati davanti alla corte tanto ostinati quanto si poteva attendersi. Qualcuno ha approfittato dell’occasione per proclamare la propria ammirazione nei confronti degli accusati e la propria convinzione che l’UCK sia stata elusivamente una forza che ha combattuto per il bene.
Molti di loro hanno causato non poche frustrazioni ai pubblici ministeri negando dichiarazioni e prove incriminanti che avevano invece rilasciato durante precendenti colloqui privati con gli investigatori, spesso accusando i traduttori di aver fatto un cattivo lavoro o sollevando confusione su particolari fatti o date.
Non è chiaro sino a che punto questo tipo di comportamento derivi da un genuino senso di solidarietà con gli ex commilitoni dell’UCK e quanto invece dipenda da preoccupazioni in merito alla propria reputazione in patria se identificati come coloro i quali hanno favorito la condanna degli accusati.
Questa seconda opzione è stata ben evidenziata recentemente quando il pubblico ministero Alex Whiting ha chiesto ad un ex comandante dell’UCK – che insisteva sul fatto che le dichiarazioni che aveva fatto in un precedente colloquio erano state interpretate in modo errato – se avesse confessato o meno ad un inquirente il timore di testimoniare. Il testimone ha risposto di temere che la propria testimonianza potesse essere male interpretata in Kosovo.
Le paure di altri albanesi a comparire davanti alla corte come testimoni sono correlate al rischio concreto di venire uccisi.
Nel luglio del 2003 i pubblici ministeri hanno riportato che le minacce ricevute da un gran numero di potenziali testimoni del processo Lapusnik erano tanto gravi da aver indotto alcuni di loro a non testimoniare.
Oltre ai 12 testimoni ai quali sono state garantite misure di protezione dai giudici che seguono il caso Lapusnik, ve ne sono altri 15. Forniranno testimonianze scritte su questioni di fondo in merito ai sequestri di persona imputati all’UCK e verranno indicati sui documenti pubblici solo attraverso pseudonimi.
La maggior parte dei testimoni protetti che hanno sino ad ora testimonianza sono presunte vittime dei crimini imputati agli indiziati. Due dei tre ex membri dell’UCK che hanno accettato di testimoniare senza che venisse emesso nei loro confronti alcun mandato di comparizione hanno optato per l’anonimato.
Ad ulteriore testimonianza della gravità del problema, lo scorso ottobre, l’ufficio del pubblico ministero ha emesso un’incriminazione nei confronti di Beqe Begaj, un parente del già inquisito Musliu, per aver fatto pressione affinché due potenziali testimoni si tirassero fuori dal caso. Beqaj ha sostenuto di aver parlato per telefono con Musliu, all’Aia, e di aver agito per conto suo e di Limaj.
Oltre a specifiche minacce nei confronti dei testimoni relative a questo processo, la riluttanza di molti testimoni kosovaro-albanesi nel testimoniare pubblicamente contro Limaj e gli altri incriminati deriva senza dubbio anche da un clima generale di intimidazione che si può respirare nel protettorato.
Due processi relativi a crimini di guerra commessi dall’UCK durante il conflitto sono stati portati a termine anche in Kosovo. In entrambi i casi le sentenze sono state seguite da un’ondata di violenza – inclusa l’uccisione di tre uomini che avevano testimoniato, attentati esplosivi e vandalismi verso la polizia locale, e l’uccisone di due poliziotti che stavano compiendo indagini sulla morte di uno dei testimoni.
Tra gli ex membri dell’UCK condannati vi era anche Idriz Balaj, che è stato poi trasferito dalla sua cella in Kosovo all’Aia dove dovrà rispondere di una nuova serie di accuse, nello stesso processo che vede coinvolto Ramush Haradinaj.
Anche non prendendo in considerazione questi processi locali altamente politicizzati, una rassegna redatta dall’OSCE sul sistema giudiziario locale, che ricopre il periodo tra l’aprile del 2003 e l’ottobre del 2004, dipinge un panorama dove l’intimidazione dei testimoni è in Kosovo un problema ampiamente diffuso.
Il rapporto elenca una serie di presunte intimidazioni – in merito a rapimenti, crimine organizzato, violenza sessuale – relative al periodo indicato e sottolinea come "queste è probabile rappresentino solo una frazione dei casi effettivi".
Beth Miller, un avvocato che lavora per il Criminal Defence Resource Centre di Pristina, ha spiegato che il problema di questa diffusa pratica di intimidazione nei confronti dei testimoni non è solo relativo ai cosiddetti crimini di guerra ma deriva piuttosto da fattori più generici come il crimine organizzato a la mancanza di uno stato di diritto.
Sven Lindholm, portavoce OSCE, ne individua delle chiare conseguenze: "Se i testimoni ritengono che sostenendo le istituzioni mettono a repentaglio la propria incolumità o quella dei propri familiari potrebbero scegliere il silenzio per paura di conseguenze".
"E’ evidente che se i testimoni smetteranno di fornire informazioni alla polizia o prove alle corti verrà fortemente limitato il ruolo dell’accuso e la giustizia verrà rimpiazzata dall’impunità. Se il testimone di un caso di omicidio non può essere protetto, che speranza abbiamo quando poi si affrontano casi di crimini di guerra?".
Secondo alcuni osservatori un ruolo importante verrebbe giocato anche da complessi fattori culturali connessi ad un’area geografica piccola, qual è il Kosovo, e ad una comunità particolarmente coesa.
Per certi versi è un cliché parlare del peso che ha l’onore e la fedeltà nella tradizione kosovaro-albanese. Ma un esperto di Kosovo intervistato da IWPR ha sottolineato che queste sono ancora considerazioni che vanno fatte. Queste tradizioni, ha spiegato, hanno le proprie radici nella storia della regione, che si è sempre trovata alla periferia di vari Stati e per questo è sempre stata sprovvista di un buon sistema di governo. Quando la gente si sente insicura nel recarsi alla polizia o presso una corte per porre rimedio a delle ingiustizie, ha aggiunto, è probabile decida di intervenire in prima persona.
L’esperto, che non ha voluto essere citato, ha sottolineato che tradizioni come la fedeltà, l’onore e le vendetta è probabile siano particolarmente forti tra gli ex membri dell’UCK, organizzazioni che poneva le proprie radici in una solida cultura rurale e che coscientemente ha invocato concetti tradizionalisti in modo da esser percepito come un vero esercito albanese.
Lindholm, dell’OSCE, ha spiegato che il problema delle intimidazioni dipende anche dalla debolezza dell’attuale programma delle istituzioni kosovare di protezione, nonostante i tentativi in corso per migliorarlo.
Fonti interne al Tribunale sono comprensibilmente riluttanti a discutere dei dettagli del loro programma di protezione dei testimoni ma è chiaro che, almeno in parte – ed a partire dalla possibilità di spostare dal Kosovo i testimoni – quest’ultimo opera indipendentemente dalla giustizia locale in Kosovo.
Fonti interne alle Nazioni Unite riportano che i suoi membri considerano con estrema serietà i casi di intimidazione riscontrati.
"L’obiettivo dell’intimidazione è di impedire alla giustizia internazionale di essere effettivamente realizzata e che si arrivi a raccontare ciò che è realmente accaduto …", ha dichiarato ad IWPR Florence Hartmann, portavoce della procura generale del Tribunale dell’Aia.
"Sono previste, in seno alle regole del tribunale strumenti per ovviare a questi problemi che vengono riscontrati in tutti i casi presi in esame ma sono soprattutto allarmanti nel caso Lapusmik. Dalla protezione dei testimoni ad uno spostamento della loro residenza sino all’arresto e la punizione di coloro i quali ostruiscono la giustizia".
Nella stessa aula del tribunale possono essere utilizzati pseudonimi, strumenti per deformare la voce e l’immagine in modo a proteggere l’identità dei testimoni. Testimoni particolarmente a rischio possono essere ascoltati senza la presenza del pubblico.
Nei casi più estremi di intimidazione la corte delle Nazioni Unite ha staff specializzato pronto a favorire il ricollocamento dei testimoni in 11 Paesi che hanno accordi formali con la Corte.
Allo stesso tempo una fonte interna al Tribunale ha riferito ad IWPR che l’incriminazione di Beqaj è stata fatta per dare un segnale chiaro a chiunque altro avesse intenzione di interferire con il processo. Se condannato, Beqaj – che è stato momentaneamente rilasciato lo scorso 8 marzo in attesa del processo – rischia fino a 7 anni di prigione ed una multa di 100.000 euro.
Tutto questo però richiede soldi e tempo in più. Ma uno dei portavoce del Tribunale, Jim Landale, ha dichiarato ad IWPR che questo non è un problema quando si parla di una questione così seria.
"L’intimidazione dei testimoni è una questione che va affrontata ed in effetti la affrontiamo" ha affermato "e non viene dimenticata per questioni legate alle risorse. In altre parole, è una priorità".
Ciononostante, in fin dei conti è chiaro che molto dipende dal coraggio di coloro i quali, avendo sofferto e assistito a brutali maltrattamenti durante il conflitto in Kosovo, decidono di presentarsi davanti alla corte.
Dalle dichiarazioni del testimone L-96 emerge chiaramente come non si sia fatto illusioni in merito alle possibili conseguenze della sua decisione di testimoniare.
"Abbiamo dimostrato tenacia" ha detto ai giudici "ed abbiamo rischiato le nostre vite per venire qui".
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua