Kos, lembo d’Europa
Isola di Kos, Grecia, uno dei lembi più orientali dell’UE e teatro quest’estate della tragica epopea di migranti provenienti da Siria, Pakistan e Afghanistan. L’incontro con alcuni di loro
Kos non si merita la fama conseguita sui media di tutto il mondo dopo la giornata di tafferugli avvenuti mercoledì 12 agosto tra forze dell’ordine e alcuni migranti. La tranquillità delle decine di migliaia di turisti occidentali e turchi che la frequentano quest’anno non è mai stata messa a rischio dalla pur ingente presenza di siriani, afghani e pakistani che hanno traversato l’Egeo per approdare in questo che è uno dei lembi più orientali dell’Unione europea.
Neppure la diffusa definizione di "Lampedusa dell’Egeo" è del tutto appropriata: Kos è lunga ben 40 chilometri, di cui decine e decine sono costituiti da spiagge magnifiche, di sabbia o piccoli ciottoli, e ospita abitualmente poco più di trentamila greci. E’ dunque ben più estesa e spaziosa del nostro lembo di terra abitato più meridionale (22 volte più grande, per l’esattezza) e cinque volte più popolosa.
Inoltre, per essere un’isola greca è insolitamente pianeggiante; cosa che, unita alla presenza di falde d’acqua sotterranee e di numerose fonti, la rende anche produttiva dal punto di vista agricolo. Oltre alla frutta e agli ortaggi di ogni genere (o al latte: una rarità vedere tante mucche al pascolo in una di queste isole) chi la frequenta al di fuori dei normali circuiti turistici impara a bere il delizioso rakomeli (un liquore leggero addolcito con miele e cannella), a gustare come dessert il tomataki (un dolce a base di pomodori canditi) o a farsi servire come contorno una profumata insalata di foglie di cappero.
Ma la vera ricchezza di Kos, è, ovviamente, il turismo, che, grazie alle acque marine non troppo fredde di questa terra posta tra l’Egeo meridionale e il mare Carpatico, può andare avanti tranquillamente per cinque mesi. A frequentarla, oltre che gli italiani, che però vengono soprattutto in agosto, sono soprattutto visitatori dei paesi scandinavi e dell’Europa dell’est. Moltissimi i giovani, perché qui è possibile praticare ogni tipo di sport acquatico. E chi, ad esempio, si fa trainare appeso al paracadute da un motoscafo (si chiama parasailing) può ammirare da quell’altezza un paesaggio spettacolare, quello stesso che i meno atletici e coraggiosi salgono ogni sera al tramonto a guardare dalle terrazze di Zia, un caratteristico paesino montano dell’interno.
Da una parte si allungano le penisole turche di Bodrum e di Cnido (Datça), circondate da piccole isole rocciose e curiosamente appuntite, e dall’altra sfila il lungo profilo della stessa Kos, a sua volta attorniata da altre isole greche: la vulcanica Nisyros, la bianca Ghiali, la piccola Pserismo e la più vasta Kalimnos. Più lontana e minuscola, persa all’orizzonte, quell’Imia tante volte contesa con la Turchia. Ma il tratto più spettacolare è sicuramente quello che separa Kos dalla propaggine estrema della costa anatolica: è un canale di poco più di due miglia marine, quattro chilometri. E’ proprio questa posizione strategica, che tanto ha dato a Kos nel corso della sua storia, ad averla messa ora in crisi. Questo è infatti uno dei punti del Mediterraneo ove il continente asiatico si avvicina maggiormente ad un lembo dell’Unione europea.
Migranti a Kos
Si tratta di un’opportunità per le decine di migliaia di profughi e migranti che, in fuga dalla martoriata Siria e dai travagliati Pakistan ed Afghanistan, giungono qui per la prima volta ad un passo dalla sopravvivenza fisica, dalla libertà e dal benessere cui aspirano.
Il primo dei migranti con cui ho parlato, uno dei tanti siriani in fuga dallo sfacelo del suo paese, mi ha detto che, essendo un campione di nuoto, se non fosse stato per i suoi parenti quei chilometri li avrebbe traversati a bracciate. E invece no: ci hanno provato ben cinque volte, lui e i suoi, a salpare, dopo aver consegnato mille euro a testa agli ‘scafisti’, e una gli è andata talmente male che sono caduti in mare, salvandosi per un pelo. E tuttavia per attraversare questo piccolo tratto non occorro grandi imbarcazioni, le famigerate ‘carrette’ del mare che mirano alle coste sicule o calabre. Qui basta un gommone: come quello, appena abbandonato e senza più motore (forse asportato dagli accompagnatori in prossimità della riva: perché costa) che ho trovato un mattino presto davanti agli ombrelloni, nella spiaggia ancora semideserta. Nero e mezzo sgonfio, sembrava un grosso cetaceo spiaggiato e abbandonato al suo destino. Dei passeggeri neppure l’ombra: gli addetti allo stabilimento lo hanno rimosso prima che arrivassero i clienti.
Ecco dunque in breve il dramma che sta vivendo Kos questa estate: si parla di 7/800 arrivi al giorno, con una presenza totale, nel periodo più critico raggiunto prima di Ferragosto, di 5/7000 individui. Tutti costoro, ovviamente, non vorrebbero assolutamente rimanere a Kos: puntano al continente ellenico e poi all’Europa centro-settentrionale. E ovviamente neanche i greci li vorrebbero trattenere qui. Eppure ci restano, anche troppo: e questa è una delle più assurde contraddizioni della vicenda. Omer, che è uno studente 19enne dalla barbetta a punta, mi mostra sconsolato sul cellulare le foto di Aleppo, della sua Aleppo, prima e dopo l’inizio del conflitto, e il confronto è impietoso.
"La polizia governativa mi ha tenuto in cella un giorno per un semplice errore di persona", racconta, "e non è stata una bella esperienza; e poi io non voglio andare a combattere e a morire in quel caos di fazioni; in Siria avevo iniziato a studiare farmacia per aiutare la gente, non per ammazzarla; ora voglio andare in Germania, e terminare lì la mia università". Quando l’ho incontrato, si lamentava che non trovavano da pagarsi, lui e la sua famiglia, una camera d’albergo. Poi ho saputo che l’ha trovata. E del resto, qualche albergatore mi ha confidato che la presenza di questi inattesi ospiti paganti almeno è servita, fino ad un certo punto, a compensare il calo dei turisti europei, provocato comunque anche dalle convulsioni politiche finanziarie del luglio scorso che al principio della stagione avevano scoraggiato molti dal recarsi in Grecia.
Kos, ultimo lembo d’Europa
Così, mentre i pakistani e gli afghani li vedi sciamare in piccoli gruppi tutti di giovani maschi, a volte adolescenti, e fare una povera spesa nei supermercati della periferia per poi tornare nei loro rifugi o accampamenti messi su alla buona, nel caso dei siriani, che sono la maggioranza, non accade nulla di tutto questo. Sono spesso benestanti, hanno soldi da spendere, si muovono con le famiglie intere: coppie coi figli, anche neonati, sono attorniate da uno stuolo di zii, cognati, cugini, addirittura dagli anziani genitori.
E’ evidente che è un popolo intero che si muove, fuggendo allo strazio di una nazione. Soprattutto loro affittano stanze o appartamenti negli alberghetti un po’ fuori mano: o, se non ne trovano, si accampano compostamente nelle aiuole o in ogni spazio libero cercando di mantenere una loro compostezza o dignità, con i preparativi per il pranzo, i panni lavati stesi poggiandoli su una siepe, i bambini che giocano senza fare troppo rumore. Ma "La Siria è finita", mi dice amaro parlando in buon turco Nidal, un ventunenne che, prima di arrivare qui, ha lavorato per due anni nel vicino paese anatolico. "Che lavoro facevi?" gli domando. "Raccoglievo e rivendevo rifiuti", allarga sconsolato le braccia. "E dove dormi, dove alloggi in questi giorni?" Mi indica eloquentemente la terra.
Ma Nidal almeno è contento questa sera, perché, dopo una lunga attesa (quando parlo con lui siamo nella parte ultima, la più recente di tutta questa storia, cioè dopo la giornata di incidenti che ha richiamato l’attenzione internazionale) ha finalmente in mano il suo foglio di carta bianco, il chartì, come lo chiamano tutti qui indipendentemente dalla loro lingua, orecchiandone il nome ellenico. E’ il documento che, al termine della lenta procedura burocratica, dà loro il permesso di muoversi all’interno del paese: che vuol dire comprare dei biglietti di linea e salpare su un traghetto verso il Pireo, il porto di Atene. Da lì, poi, inizia un’altra parte dell’odissea. Quasi tutti mi parlano di Serbia, per poi risalire nell’Europa centrale. Insomma, sulle spiagge idilliache di Kos si rifrange l’ultima onda umana, la più estrema e tutto sommato ancora piccola, di quell’esodo biblico che porta milioni di siriani a cercare rifugio in Libano, Giordania, e anzitutto ai confini meridionali del grande vicino turco.
Al di là dell’ancora imprevedibile esito dell’intera vicenda, quello che ha vissuto Kos in quest’ultimo mese, il curioso incontro e contrasto tra il mondo spensierato dei vacanzieri e quello ben più dimesso e spesso dolente dei migranti, vale la pena di essere raccontato, perché è paradigmatico di ciò che sta accadendo in molti altri luoghi, e che ancora continuerà ad accadere. L’atteggiamento dei locali, la reazione dei turisti, il comportamento degli ultimi arrivati, e quello, incerto e altalenante, delle autorità locali: tre mondi diversi che sono venuti a confronto e hanno convissuto in qualche modo in quest’ultimo lembo dell’Europa. Fino a che, ad un certo punto, il precario equilibrio si è spezzato.
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