“Kiss the future”, la sorpresa di Berlino
Alla 73ma edizione della Berlinale, da poco conclusasi, un nuovo documentario sul periodo dell’assedio di Sarajevo. “Kiss The Future” di Nenad Cicin-Sain, appassionante e con tanta musica, sa rivolgersi a un pubblico ampio aggiungendo elementi diversi anche per chi le vicende dell’assedio le ha viste o sentite molte volte
Senza film balcanici in concorso, la bella sorpresa del 73° Film Festival di Berlino riguardante la nostra area è stato il documentario americano “Kiss The Future” diretto da Nenad Cicin-Sain. Un film prodotto addirittura da Matt Damon e Ben Affleck con la partecipazione di grandi nomi come Bill Clinton e Bono, The Edge e Adam Clayton degli U2. Si parte nel 1989 dalla caduta Muro di Berlino e, dopo un breve riassunto delle sue conseguenze sull’Europa, si arriva in Jugoslavia, stato che molto pagò le conseguenze dei nuovi assetti.
Il film evidenzia il ruolo di Slobodan Milošević e il suo tentativo di creare la grande Serbia per controllare il più possibile dei territori del paese creato da Tito. Durante la guerra in Bosnia un giovane americano, Bill Carter, arriva un po’ per caso, spinto soprattutto da vicende personali, a Sarajevo, dà una mano ad organizzazioni umanitarie, scopre la scena musicale sarajevese che continua a vivere nei club come forma di resistenza e ribellione, conosce musicisti e giornalisti della città. Il documentario, che si basa sul libro di Carter “Fools Rush In”, ripercorre con tante immagini d’archivio, alcune molto note, altre meno, alcuni dei fatti più noti legati alla guerra, svelandone i dietro le quinte. Diventa anche una riflessione su tutte le guerre che arriva all’oggi (nel finale passano le immagini di Putin, Salvini, Draghi, Meloni e Berlusconi) e come le persone comuni vivano i conflitti armati.
Se tante cose sono già state raccontate, “Kiss The Future”, oltre all’essere costruito in maniera appassionante e con tanta musica, ha il pregio di sapersi rivolgere a un pubblico largo aggiungendo elementi diversi anche per chi le vicende dell’assedio le ha viste o sentite molte volte. Tra i protagonisti del film ci sono la giornalista Vesna Andree Zaimović e il marito Senad Zaimović, che rievocano vita e lavoro durante il conflitto, tra aneddoti e l’incontro con quello strano americano che ebbe un’idea che sembrava irrealizzabile. Vedendo quanto gli U2 fossero amati dai giovani bosniaci, che li vedevano come un gruppo simbolo per le loro prese di posizione, e dopo aver sentito una dichiarazione di Bono sul conflitto, Carter si mise d’impegno e riuscì a raggiungere Verona per una tappa del tour Zooropa e intervistare il cantante per Tv Sarajevo. Iniziarono quindi gli interventi in video e i dialoghi a distanza, nel corso di diversi concerti in giro per l’Europa, con lo stesso Carter e cittadini bosniaci che portavano la loro testimonianza, il loro dolore e la loro rabbia. L’immagine della sfilata delle miss ispirò il brano “Miss Sarajevo” che Carter ha poi utilizzato nel suo documentario. Il legame culmina con il concerto nello stadio di Koševo a guerra finita, nel 1997, che per qualcuno rappresentò la vera conclusione dell’assedio e un momento di ritrovata unione, racchiusa nella canzone “One” intonata all’unisono.
E, si osserva nel film, forse ci sarebbe bisogno di un altro momento così per la città. Ad aprire la serata furono i Sikter e tra i protagonisti di “Kiss The Future” (il titolo viene dalle parole “Viva Sarajevo! Fuck The Past! Kiss The Future” pronunciate da Bono sul palco) c’è pure il loro frontman Enes Zlatar, che ricorda i concerti durante l’assedio e pure quando andò a offrirsi come vigile del fuoco volontario. In mezzo ai tanti documentari su Sarajevo, è uno dei più belli ed emozionanti, nonostante l’impostazione un po’ televisiva, all’americana.
Tra le belle scoperte dell’altra sezione competitiva, Encounters, comprendente 16 titoli, “The Cage is Waiting for the Bird” di Malika Musaeva, giovane regista cecena, allieva di Aleksandr Sokurov, che racconta una storia di amicizia e ribellione in Caucaso. È inverno, le due adolescenti Yakha e Madina frequentano la scuola e trovano nei giochi nei prati immensi l’unico sfogo dal senso di oppressione sociale che sembra pervadere tutto. Un giorno Madina fugge con un ragazzo e Yakha si ritrova sola, con la madre e la sorella maggiore Heda che non vuole più stare con suo marito. Un film quasi tutto al femminile, dove i matrimoni combinati sembrano un destino ineluttabile contro il quale c’è solo la fuga. La regista lavora benissimo sul contrasto tra primi piani delle ragazze e campi lunghi degli spazi vasti e spesso innevati, grazie anche a un’ottima fotografia. Un esordio riuscito, che riesce a far percepire l’oppressione senza spiegare nulla, un elemento che va a favore delle capacità di raccontare della Musaeva ma che può essere anche un limite dando il contesto un po’ troppo per scontato.
È decisamente spiazzante “Shidniy front – Eastern Front”, realizzato dal russo Vitaly Mansky (regista noto per “Gorbachev. Heave” e “Putin’s Witnesses”) con Yevhen Titarenko, che porta ai limiti la capacità dello spettatore di sopportare immagini molto crude. I primi mesi della guerra in Ucraina visti da dentro le forze di difesa, soprattutto tra i russofoni che, per tanti motivi (li spiegano nelle interviste e chiacchierate che ogni tanto alleviano la durezza delle situazioni belliche), hanno scelto di schierarsi con Kiev. Un documentario che scuote e vuole far discutere, sia per le prese di posizione sia per quanto sceglie di mostrare. Mansky e Titarenko hanno filmato gli scontri e le esplosioni e tante operazioni di soccorso e trasporto di feriti, tra arresti cardiaci e perdite di arti, nella concitazione e la preoccupazione dei soccorritori.
Il documentario romeno “Intre revolutii – Between Revolutions” di Vlad Petri ha ricevuto il premio della giuria Fipresci della sezione Forum, mentre i riconoscimenti Cicae Art Cinema e Label Europa Cinemas sono stati attribuiti al tedesco-turco “Das Lehrerzimmer – The Teachers’ Lounge” di İlker Çatak, infine Caligari-filmpreis a “De Facto” dell’austriaca d’origine bosniaca Selma Doborac.
Modesto, sebbene volesse puntare in alto, il romeno “Mammalia” di Sebastian Mihailescu, presentato in Forum. Un esordio molto pretenzioso, che si risolve in un irritante vorrei ma non posso, mescolando un po’ a caso lo stile della scuola romena fatto di piani sequenza con le stranezze del cinema greco ed episodi alla Sophia Coppola.
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