Kiš, l’Europa e noi
Oggi ricorre il trentennale della scomparsa di Danilo Kiš (1935-1989), l’ultimo grande scrittore jugoslavo. Il commento di Božidar Stanišić
Trent’anni fa si spegneva a Parigi Danilo Kiš. Poco dopo la sua morte cadde il Muro di Berlino, e con esso i regimi comunisti nei paesi dell’est Europa e in ex Jugoslavia. Kiš se ne andò e noi rimanemmo ad ascoltare le grandi promesse di un’Europa più felice e giusta, di un mondo migliore, promesse che ci giungevano dalla macerie del Muro. A quel tempo non immaginavamo nemmeno che i pezzi di cemento armato potessero volare (dove altro se non verso i Balcani), e tanto meno pensavamo che avessero il potere di trasformarsi in fili spinati contro i migranti. Nelle assurde polemiche tra i linguisti croati e serbi Kiš intuiva l’annuncio delle guerre jugoslave. Ma viene da chiedersi se negli ultimi giorni della sua vita, nonostante tutti i suoi oscuri presagi, Kiš potesse davvero immaginare almeno qualche frammento dell’enorme scena della nostra guerra fratricida.
Non conosco, ovviamente, la risposta. Sto solo tracciando segni sulla sabbia delle ipotesi, a quanto pare invano.
Mi chiedo anche come avrebbe reagito l’autore della trilogia “Giardino, cenere”, “Dolori precoci” e “Clessidra” se avesse sentito quello che gli abitanti del villaggio di Kerkabarabás hanno detto a Mark Thompson, autore di una biografia di Kiš. È in quel villaggio, situato nel sud-ovest dell’Ungheria, che la famiglia di Kiš trovò rifugio nel 1942, dopo i cosiddetti giorni freddi di Novi Sad. Nel suo libro Thompson riporta alcune affermazioni degli abitanti di Kerkabarabás secondo cui gli ebrei non erano poi così cattivi e sarebbe stato meglio se nei campi di concentramento fosse stato deportato un numero maggiore di rom.
In quei tragici e assurdi anni Novanta, eravamo in tanti, credo, a chiederci cosa avrebbe detto Kiš, l’ultimo scrittore di un mondo, quello jugoslavo, che stava scomparendo, che si dichiarava jugoslavo e scriveva in serbo-croato che, come sosteneva lui stesso, era l’unica lingua che conosceva alla perfezione. ”È la lingua in cui penso e respiro, lingua in cui sogno e che ho sulla punta delle dita”. Ci chiedevamo cosa avrebbe detto Kiš allo scoppio della guerra in ex Jugoslavia, dimenticando che lui si era già espresso su questa problematica nel ”Post scriptum” della lettera di suo padre, posta alla fine del romanzo ”Clessidra”: ”È meglio essere tra i perseguitati che tra i persecutori”.
Dove abiterebbe oggi Kiš? Sempre a Parigi, sorpreso dalla ”capacità” di spingere i limiti del sopportabile in un fratricidio generale? Oppure sarebbe tornato a Belgrado dove, accanto ai nemici, ha sempre avuto anche dei sinceri ammiratori? Scriverebbe ancora, rimanendo fedele ai suoi argomenti preferiti e continuando a rovistare nel residuo amaro dell’esperienza? Come sarebbero i suoi nuovi romanzi, racconti, saggi? Non possiamo saperlo, ma non vi è quasi alcun dubbio che vi troverebbero posto i nostri popoli fraterni e la provincializzazione della cultura a cui si assiste in tutti i paesi sorti dalla dissoluzione della Jugoslavia.
I popoli fraterni, che nell’ultima pulizia del passato si sono appoggiati soprattutto al nazionalismo, fascismo e revisionismo storico, e che continuano a usare queste stampelle ideologiche, eccome! Non credo che Danilo Kiš – che non ha mai nascosto di essere anticomunista e antinazionalista – si sarebbe astenuto dal denunciare questa situazione. Per non parlare dei campi di concentramento e prigioni in cui hanno sofferto tantissime persone, di fosse comuni, persecuzioni e violenze di ogni tipo. Ne avrebbe parlato ad alta voce, come ha fatto sei mesi prima di morire, durante un congresso tenutosi ad Albi, in Francia. ”Al momento della firma [degli accordi] di Jalta, c’erano tre uomini che non avevano alcuna filosofia, mi chiedo persino se fossero completamente estranei alla religione, all’etica… C’erano solo tre nazionalismi, tre potenze con le loro idee pratiche”, ha dichiarato Kiš in quell’occasione, chiedendo a se stesso e ai presenti dove fosse finita la filosofia.
Lasciando da parte le ipotesi, credo che, se fosse ancora vivo, Kiš scriverebbe ”Lezione di anatomia 2”, in risposta ai numerosi attacchi alla sua figura e alla sua opera, tra cui non mancano quelli antisemiti. Fra i tanti attacchi contro Kiš, ve n’è uno che spicca: un libro intitolato ”Lažni car Šćepan Kiš” [Il falso re Stefano Kiš, il titolo è un’allusione al libro ”Il falso re Stefano Piccolo di Petar Petrović Njegoš], ma non ho alcuna voglia di citare il nome dell’autore che con la parola Kiš contenuta nel titolo allude al termine ungherese ”kiss” che significa piccolo.
Questo libro è destinato alle misere menti piccolo-borghesi, piene di pregiudizi nei confronti degli ebrei, e più in generale agli ambienti della sottocultura in cui – come nel mondo antico – nessuno è più vendicativo di colui che si accorge di essere inferiore. Di questo, e molto altro, Kiš parla nel suo libro ”Lezione di anatomia” (1978), un saggio polemico scritto in risposta alle accuse rivoltegli dai semi-intellettuali della čaršija letteraria belgradese, secondo cui Kiš avrebbe plagiato alcune parti del suo libro ”Grobnica za Borisa Davidoviča” [Una tomba per Boris Davidovič]. Questa polemica, purtroppo, è ancora attuale.
Nelle sue interviste, che si trasformavano, di regola, in veri e propri saggi, Kiš non ha mai esitato a parlare anche delle sfide del mondo di oggi. Allo stesso modo in cui si opponeva al comunismo, oggi Kiš si opporrebbe al caos politico generale e alle ingiustizie economiche. Credo che tuonerebbe: ”Pil? Ma di che cosa state parlando, signori? Il mondo rischia una catastrofe, e voi state giocando con le finanze, i capitali e i missili intercontinentali. Dove sono l’uomo, l’etica e Dio in tutto questo?”.
Possiamo continuare a indovinare, a porci domande, con o senza il punto interrogativo, fino a domani mattina, ma una cosa è certa: l’opera di Kiš è sopravvissuta all’iperproduzione della pseudoletteratura, appartiene alla biblioteca del mondo, ha resistito alle più terribili sfide del XXI secolo, soprattutto alla relativizzazione del concetto di arte e al predominio della tecnologia e dei social media. Mi è capitato molte volte di incontrare un italiano o un cittadino di un altro paese europeo che sa chi è Marina Abramović, conosce anche i nomi dei calciatori della ex Jugoslavia, ma non sa chi fosse Danilo Kiš. Che continua a vivere come scrittore, artista e difensore della parola intesa come l’ultimo rifugio del buon senso e della memoria. In Kiš non vi è nulla di casuale: parlando dei film di Alain Resnais, che nelle sue opere ha spesso usato materiale archivistico, Kiš ha affermato che questo regista francese ha scritto l’undicesimo comandamento: non dimenticare.
Cosa direbbe Kiš dell’inedita iperproduzione di romanzi a cui assistiamo? Scuoterebbe la testa, impotente, come tutte quelle persone – rare, sempre più rare – che si chiedono dove sia la letteratura in tutto questo? Ribadirebbe di essere convinto che ”la Galassia Gutenberg che sovrasta il nostro cielo si sta lentamente spegnendo, è quasi visibile ad occhio nudo nel cielo stellato, eppure ad oggi la sua luce non ci ha ancora raggiunti”?
Non so cosa mi sta succedendo ultimamente: ogni volta che penso a Kiš mi sembra di trovarmi di fronte a una piramide aperta o di fronte a un manoscritto rinvenuto nel Mar Morto, perché intuisco che nell’opera di Kiš bisogna decifrare tutto, analizzare il significato di ogni parola, di ogni fenomeno, immaginare la flora e la fauna dell’epoca di cui parla. Questa sensazione è forse dovuta al fatto che sto invecchiando? (Che novità!)
Per concludere, rivolgo una domanda all’editore Adelphi, detentore dei diritti d’autore di Kiš in Italia: quando pubblicherete i brevi romanzi di Kiš ”Mansarda” e ”Salmo 44”? Se non avete intenzione di farlo, concedete i diritti a qualcun altro!
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