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Karadžić e Šešelj: il passato a giudizio

La giustizia internazionale e le relazioni nella regione all’indomani delle sentenze Karadžić e Šešelj. Intervista a Eric Gordy*

07/04/2016, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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Qual è la narrazione che emerge dalle sentenze Karadžić e Šešelj sulle guerre degli anni ’90 nei Balcani?

È difficile orientarsi rispetto alla sentenza Šešelj, perché è così atipica. Credo che però il verdetto Karadžić abbia fatto una cosa molto importante nel definire chiaramente quali fossero gli obiettivi della Republika Srpska, cioè creare uno Stato etnicamente omogeneo cambiandone la struttura della popolazione con la forza. I giudici hanno assolto Karadžić per la prima accusa di genocidio, ma hanno detto che il fine era quello. In altre parole, hanno detto che non erano convinti che lo sterminio facesse parte di questo piano, non hanno accolto l’accusa di genocidio [se non per Srebrenica], ma hanno detto che quello era l’obiettivo.

Si tratta di una condanna molto netta della politica e dell’origine della Republika Srpska (RS), ed è esattamente ciò che la destra oggi al potere in RS teme. Parlano sempre del rischio di essere definiti come uno Stato che è il risultato di un genocidio, ma questo è proprio quello che il Tribunale ha fatto, usando però la definizione legale di “crimini contro l’umanità” e non di “genocidio”.

Credo quindi che questo rappresenti un contributo importante, che sarà confermato anche dal processo Mladić. I giudici però hanno respinto l’ipotesi che questo piano, cioè la creazione con la violenza di uno Stato etnicamente omogeneo, fosse diretto dalla Serbia. Ci sono molti esempi, all’interno della sentenza Karadžić, dove i giudici affermano chiaramente che sono stati i paramilitari a commettere i crimini più gravi, mentre quando è arrivato l’esercito le cose sono un po’ migliorate.

Su questo però i due verdetti sono completamente incongruenti. Se guardiamo la sentenza Šešelj, infatti, per la maggior parte delle località dove i giudici affermano che l’imputato non era il responsabile di un determinato evento, sostengono che non era lui perché [i responsabili] erano l’esercito o la polizia. Credo che uno dei motivi per cui la sentenza Šešelj sia così atipica è data dal fatto che il Presidente di quella Camera, Jean-Claude Antonetti, non sembra essere uno specialista di diritto internazionale, almeno da quanto si può intuire leggendo il verdetto.

C’è una tendenza del diritto penale internazionale che possiamo rintracciare all’indomani di queste due importanti sentenze?

Credo che non ci siano grandi cambiamenti, troviamo la conferma di cose che avevamo già visto nelle sentenze Perišić e in quella Stanišić e Šimatović. I giudici si tirano indietro, non vogliono punire il sostegno dato a forze paramilitari da parte di altri Stati. Questo era chiaro sia nel caso Perišić che in quello Stanišić-Šimatović. I giudici hanno affermato che armare, finanziare e addestrare una forza paramilitare non è necessariamente un crimine. Ed ora, con la sentenza Karadžić, fanno la stessa cosa, dicendo che non ci sono prove sul fatto che Milošević o Stanišić e Šimatović erano parte dell’impresa criminale comune. In realtà dicono che Šešelj e Arkan ne erano parte, ma non li considerano come rappresentanti della Serbia.

Non so invece se sia possibile dire qualcosa sullo stato del diritto internazionale a partire dalla sentenza Šešelj, perché è così idiosincratica. In generale, però, sembra che questo sia oggi il punto critico raggiunto dal diritto internazionale: non ci sono problemi nel condannare chi ha partecipato a conflitti che possono essere considerati come una guerra civile. Per quanto riguarda invece persone i cui crimini hanno attraversato le frontiere, non si arriva a sentenze di condanna.

Perché?

Alcuni studiosi applicano teorie cospirative. Se ad esempio la Serbia venisse considerata responsabile di quello che hanno fatto i paramilitari in Croazia e in Bosnia Erzegovina, questo avrebbe conseguenze ad esempio per gli Stati Uniti in posti come la Libia o la Siria. Io però non sono convinto che le implicazioni politiche siano così nette.

Questi verdetti hanno stabilito i fatti in un modo che potrebbe favorire il confronto con il passato su basi comuni nella regione?

In questi giorni molti stanno facendo dichiarazioni, ma sono certo che non hanno letto le sentenze. In generale, almeno nel breve periodo, si ribadiscono le posizioni che si avevano prima che i verdetti fossero pubblicati. Quindi, per il momento, non cambierà nulla.

A un certo punto, però, diventerà sempre più centrale questo documento enorme che è la sentenza Karadžić. È davvero impressionante. Alcuni lamentano il fatto che sia così lunga, ma è estremamente bene organizzata, documentata, e tutto quello che riporta è molto chiaro. La gente dovrà confrontarsi con questa e, se la si vuole contraddire, o dire che è sbagliata, si dovranno trovare risposte concrete alle cose che lì vengono affermate.

È questa l’eredità del Tribunale per l’ex Jugoslavia?

La cosa migliore che ha fatto il Tribunale è stata quella di mettere a profitto il lavoro di tutti i suoi ricercatori. Se invece guardiamo a quanto hanno prodotto i giudici o gli avvocati, credo che molte cose non verranno giudicate neppure rilevanti, o in ogni caso non sopravviveranno al proprio tempo. La documentazione prodotta però è enorme, e a un certo punto tutti dovranno confrontarsi con quella.

Cosa possiamo dire invece della riconciliazione?

Nessuno dovrebbe stupirsi del fatto che le Corti non possono portare alla riconciliazione, nessuna Corte al mondo lo fa. Questo è il lavoro dei ricercatori, degli intellettuali, di chi lavora nel settore della cultura, dell’educazione, dei religiosi e dei politici. L’aspetto peggiore di questo intero processo, probabilmente, è il fatto che nessuna di queste categorie si sia inclusa. Hanno tutti tenuto ferme le proprie posizioni precedenti, in particolare i politici. Quando c’è stata la possibilità di avviare un percorso di riconciliazione, la maggior parte ha detto che era troppo difficile e che sarebbe stato impopolare. Quindi, l’atteggiamento è stato quello di buttare tutto nel piatto del Tribunale sperando che questo avrebbe risolto le cose.

Una delle prime cose che ha dichiarato Šešelj dopo la sentenza è che l’idea di una Grande Serbia rimane forte. Quali sono le conseguenze di questa affermazione, oggi?

È un’idea che ha una propria base, ma non è una maggioranza. La maggior parte delle persone oggi in Serbia non vede nessun interesse nel cercare di controllare territorio in Bosnia Erzegovina o in Croazia, per il Kosovo potrebbe essere diverso. Ma in ogni caso credo che le idee di estrema destra oggi in Serbia possano raggiungere un tetto massimo del 15%, 20%. Probabilmente queste idee sono ancora molto sentite tra i serbi in Bosnia Erzegovina però, che sono rimasti in una situazione in cui hanno un’entità ma non hanno uno Stato, non sono contenti di nessuno dei due, e ci sono sentimenti di identità frammentate.

Ci sarà un legame tra il risultato del processo Šešelj e le elezioni del 24 aprile prossimo in Serbia?

Alcuni dicono che Šešelj farà il pieno di voti. Io penso che crescerà, perché ha avuto una grande copertura mediatica, ma tendo a credere che qualunque sia il suo risultato alle prossime elezioni, questo sarà il massimo che riuscirà mai a raggiungere. Questo non significa che non ci siano molte persone con idee estremiste in Serbia, ma se ci sarà una crescita di queste posizioni, credo che il vantaggio andrà a qualcun altro.

*Eric Gordy è senior lecturer allo University College di Londra

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