Jugoslavia: viaggio in Turchia
Quando papà ti porta ad Istanbul, ma tu non ne hai proprio alcuna voglia perché sogni Parigi. Un viaggio in Turchia, agli inizi degli anni ’70
L’ultima epidemia di vaiolo in Europa fu nel marzo 1972. Nei trent’anni precedenti si credeva che la malattia fosse stata sradicata, ma riapparve a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Un trentacinquenne kosovaro era tornato dal suo pellegrinaggio alla Mecca e aveva portato il virus. 175 persone si ammalarono e 35 morirono.
L’ospedale dove furono sistemati i primi ammalati fu letteralmente sigillato. Le porte, le finestre e la fognatura, tutto venne sbarrato e intorno fu messo un cordone di poliziotti con l’ordine di sparare se qualcuno avesse provato a scappare.
In tutto il paese fu dichiarato lo stato di emergenza, fu introdotta la quarantena statale obbligatoria, limitato rigorosamente il movimento di tutti i suoi abitanti.
In un mese e mezzo furono vaccinati diciotto milioni di jugoslavi su una popolazione di ventun milioni di abitanti. L’epidemia finì dopo due mesi. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità lodò le autorità jugoslave per come avevano soppresso l’infezione.
Dopo giorni di agitazione tutto si calmò, e presto l’evento non fece più notizia, fu rimosso dalla nostra attenzione.
Si va in Turchia
Mi preparavo per un’estate al mare, dopo aver finito il primo anno di università. Ma all’inizio di luglio arrivò il “contrordine del compagno papà”: si va in Turchia.
Con nostro papà si facevano escursioni lavorative e viaggi educativi, per vedere e imparare, mai per divertimento. Tutti in famiglia trovarono qualche scusa per non andarci. Mi opposi anch’io, tirai fuori varie scuse, addirittura il fatto che c’era stata l’epidemia e che poteva essere pericoloso andare in Turchia.
La Jugoslavia era l’unico paese in cui il vaiolo era comparso, ma noi avevamo ugualmente la strana idea che era tutta colpa degli altri e che il focolaio dell’epidemia fosse altrove, “nel sud” o in Oriente.
L’epidemia era sconfitta, il pericolo non c’era più. Mi toccava proprio andare a Istanbul. La partenza fu fissata per metà luglio. Era il 1972.
Eravamo un gruppo strampalato con interessi diversi: papà, io, e una coppia di coniugi suoi amici. La donna ci andava perché voleva comprarsi dei gioielli, o meglio, qualche oggetto d’oro e una collana di perle, il marito l’accompagnava, mio papà voleva vedere un po’ di mondo, ed io mi trovavo lì per forza.
Piuttosto che andare a Istanbul, avrei preferito ascoltare “The Beatles” a Londra, passare insieme alle dive cinematografiche per via Veneto a Roma, passeggiare in minigonna per gli Champs Elysées a Parigi. L’Occidente piuttosto che l’Oriente era la meta preferita dei giovani di allora.
La macchina la guidava papà, l’unico in possesso della patente. Era una “Moskvich 408”, un’auto russa, orgoglio famigliare, la più grande in tutto vicinato. Gli altri, all’epoca, possedevano una Fiat “Cinquecento”, almeno due volte più piccola della nostra.
Papà non era un autista appassionato. La macchina la portava in giro, ogni tanto, “perché non si scaricasse la batteria”, diceva. Nel garage la copriva “per non farle prendere freddo”, scherzavamo in famiglia.
Prima di partire mi dettò i compiti: dovevo occuparmi delle gomme, controllare se erano abbastanza gonfie, tenere i vetri puliti, e fare attenzione alla segnaletica stradale. Quest’ultimo incarico mi lasciò un po’ perplessa. Non avevo la patente, non guidavo, non conoscevo il significato dei segnali stradali. Ma se lo diceva papà!
Il viaggio
Dalla Bosnia Erzegovina a Istanbul ci sono circa 1.200 chilometri. La strada passa per la Serbia, attraversa la Bulgaria ed entra in Turchia dalla città di Edirne. Oggi, un autista esperto la può fare, volendo, anche in un’unica tappa. Noi ci impiegammo due giorni e mezzo.
Lasciammo Sarajevo alle quattro del mattino. “Ci è andata bene”, dichiarò papà verso le nove, quando eravamo già vicino a Belgrado percorrendo strade quasi vuote.
Da Sarajevo ci sono due vie principali verso la Serbia. Una che attraversa la Bosnia orientale e va verso il fiume Drina, e l’altra che va in direzione nord, verso il fiume Sava. Noi andavamo verso nord, in direzione di Belgrado. Nella città di Orasje, attraversammo il ponte sul fiume Sava e poi prendemmo l’autostrada detta “Bratstvo i Jedinstvo” (della Fratellanza e Unità) (B&J).
All’epoca l’autostrada B&J era l’unica via moderna della Jugoslavia, anche se aveva solo due corsie, una per ogni direzione. Fu costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta e collegava la Jugoslavia da nord a sud, dal confine con l’Austria al confine con la Grecia.
La costruzione dell’autostrada B&J fu un’opera epica. Vi parteciparono più di trecentomila giovani volontari da tutte le parti del paese e tanti stranieri. Per molti fu anche una sorta di scuola di vita o per la vita. Dopo otto ore di lavoro venivano organizzati vari corsi, anche per analfabeti, e molti ottennero il diploma che cambiò loro la vita.
L’autostrada della Fratellanza e Unità è la via più breve che collega l’Europa occidentale e il Medio Oriente. Negli anni Sessanta ebbe inizio il grande spostamento stagionale dei gastarbeiter, che in tedesco vuol dire “lavoratori ospiti”. All’epoca i più numerosi gastarbeiter in Europa erano turchi, italiani, spagnoli e jugoslavi.
Durante i mesi estivi, per l’autostrada “Bratstvo i Jedinstvo” passavano migliaia di macchine, in entrambe le direzioni. I gastarbeiter turchi avevano pochi giorni di vacanza, tanta strada da percorrere, guidavano senza sosta, giorno e notte, e molti trovavano anche la morte su quelle corsie. Su ambedue i lati della strada erano piantati dei platani, per rompere il paesaggio monotono della pianura pannonica, ma gli alberi erano causa anche di molti incidenti mortali.
Dovettero passare molti anni ed esserci decine di morti, prima che qualcuno si decidesse a tagliare gli alberi “mortali” che fiancheggiavano l’autostrada.
Dopo aver pernottato a Belgrado, il secondo giorno proseguimmo a sud, verso il confine con la Bulgaria. La strada segue il fiume Morava e passa per i distretti della Šumadija e di Pomoravlje. Un paesaggio bellissimo che ricorda la Toscana, tanto verde, con le colline basse, la terra fertile. Più a sud il panorama cambia, le morbide colline lasciano il posto alla Gola di Sićevo (Sićevačka Klisura).
Circa 250 chilometri più a sud c’è la città di Niš. Sotto l’impero ottomano il suo nome era Naissus (“Città delle ninfe”). Là nacque nel 271 a.C. l’imperatore romano Costantino I che costruì la nuova residenza imperiale di Bisanzio e la chiamò Nuova Roma. In suo onore i Romani chiamarono questa città Costantinopoli, l’odierna Istanbul, la nostra meta.
A Niš volevamo vedere un monumento unico nel suo design, la Torre dei Teschi (Ćele kula) che racchiude al suo interno dei teschi umani. Fu fatta nel periodo degli Ottomani, con 950 teschi dei serbi ribelli, come monito a tutti quelli che pensavano di opporsi all’occupazione. Oggi sono rimasti incastonati nella pietra solo una cinquantina di teschi, ma quel macabro monumento fa ugualmente impressione.
L’ultima città serba prima di passare in Bulgaria è Pirot. Da cinquecento anni è il centro della produzione di tappeti tradizionali. I kilim di Pirot, apprezzati per la loro bellezza, varietà dei colori e motivi, sono fatti di lana, sono molto leggeri e resistenti.
Noi andavano in Turchia per comprare gioielli e vestiti da pochi soldi, mentre gli antiquari turchi viaggiavano per la Jugoslavia e compravano, a buon prezzo, i tappeti antichi fatti a Pirot, che noi vendevamo volentieri perché ci piacevano di più le moquette moderne.
Tra Serbia e Bulgaria il confine non è solo amministrativo. Da una parte all’altra della frontiera il paesaggio cambia come se fosse tagliato con il coltello. In Serbia, prima del confine, la strada spacca le montagne, s’insinua con fatica per il terreno duro, avanza quasi a zig-zag, si perde in tante gallerie, è pericolosa, un attimo di distrazione e può essere fatale.
In Bulgaria la strada attraversa la pianura, va dritta e tranquilla. Su entrambi i lati è affiancata da alberi di mele, ordinati, con i tronchi imbiancati, che danno un senso di ordine e pulizia. Dietro gli alberi, si estendono a perdita d’occhio campi coltivati di grano e di mais. In uno di questi dormimmo la seconda notte del nostro viaggio.
Ci fermammo sul bordo della strada per mangiare. Papà dichiarò che era stanco e che non se la sentiva di proseguire. Non sapevamo quanto fossimo distanti dalla città più vicina. La signora brontolava sottovoce, suo marito stava zitto guardando davanti a sé, io fissavo una mela dell’albero e stavo per afferrarla.
Papà intuì le mie intenzioni e, senza guardarmi, mi intimò: “Non ti azzardare!”. Rispettava ancora gli ordini dei partigiani che, secondo i racconti, tenevano così tanto alla disciplina che addirittura fucilavano quelli che prendevano la frutta dagli alberi altrui.
La mattina seguente, il terzo giorno del viaggio, ci svegliammo presto, tutti con la schiena a pezzi, stanchi, arrabbiati, con i vestiti stropicciati. Nessuno guardava l’altro, né proferiva parola.
Gambe nude
Da lì in breve varcammo la frontiera tra la Bulgaria e la Turchia. A Edirne, la prima città turca dopo il confine, facemmo una sosta per bere un bel caffè. Nel centro trovammo un bar con la terrazza. Uscimmo dall’auto.
Esaminavo, come mi aveva detto papà, le gomme. Battevo il piede contro la gomma (come avevo visto fare da altri, anche se non sapevo perché e che cosa aspettarmi), e mi accorsi che qualcosa non andava. Alzai lo sguardo e vidi che tutti gli avventori del bar, i maschi, erano ammassati sulla ringhiera e ci guardavano.
Confusi, ci ispezionammo anche noi per un attimo. Fu la signora a capire per prima cosa c’era che non andava. Indossavo, secondo la moda, un paio di pantaloncini corti e attillati, gli “hot pans”, per cui i maschi, dal bar, erano tutti intenti a fissare le gambe di una ragazza poco vestita per le abitudini locali.
“Entra, si parte”, ordinò papà.
I turchi si meravigliavano delle gambe esibite, mentre io mi stupivo nel vedere i carri armati, all’entrata a Istanbul con i cannoni puntati verso la strada (un anno prima l’esercito turco aveva preso il potere con un putsch militare). Io mi stupivo nel vedere le donne paesane vestite in una sorta di doppia larga gonna nera che fungeva anche da copricapo ribaltando uno dei due strati di dietro, nel vedere i turchi bere il tè, piuttosto che il “caffè turco”, come noi bosniaci, dei numerosi monumenti, grandi e importanti che mi facevano capire quanto piccolo e insignificante fosse il mio Paese.
Arrivammo a Istanbul nel primo pomeriggio. Papà accostò la macchina sul bordo della strada per chiedere indicazioni sulla pensioncina che avevamo prenotato. Ferma il primo passante, gli parla in tedesco, quello non capisce, prova con il francese, niente. Frustrato, papà si gira verso di noi e dice in serbo-croato: “Questo qui non capisce nulla”. A quel punto il turco si mette a ridere e, nella nostra lingua, il serbo-croato, ci chiede se eravamo jugoslavi.
Era un discendente dei bosniaci emigrati in Turchia all’inizio del diciannovesimo secolo.
Oggi in Turchia ci sono almeno due milioni di persone di origine bosniaca. Dalla Bosnia Erzegovina i musulmani scapparono dopo la disfatta dell’impero ottomano quando la Bosnia Erzegovina passò sotto il protettorato dell’Impero Austro Ungarico.
I primi bosniaci scappavano perché non volevano stare sotto un governo non musulmano, altri perché temevano per la propria vita, oppure erano convinti che in Turchia avrebbero potuto preservare la propria ricchezza.
Dopo le guerre balcaniche emigrarono anche i musulmani da Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. L’esodo continuò per cent’anni. Non tutti lasciavano la casa di propria volontà. La migrazione dei musulmani fu incoraggiata con la politica statale, con la forza, le minacce e le misure amministrative che, secondo i documenti ufficiali, dovevano rendere la vita dei musulmani impossibile, per cui l’emigrazione veniva vista come l’unica soluzione per loro.
In Turchia dovevano cambiare il cognome, ma molti avevano conservato anche il cognome bosniaco, la lingua e le abitudini. Ci sono alcuni villaggi, in Turchia, popolati prevalentemente dai discendenti dei bosniaci dove, dopo un secolo dal loro arrivo, ancora oggi si parla serbo-croato.
Un turco-bosniaco
Il nostro turco-bosniaco apparteneva alla terza generazione dei bosniaci espatriati dalla città della Bosnia del nord, Banja Luka. Nato a Istanbul parlava ottimamente la nostra lingua, con un accento forte e utilizzando alcune parole arcaiche. Era entusiasta dell’incontro casuale, era molto cordiale, gentilissimo, ci dava pacche sulle spalle e voleva invitarci a casa sua.
Papà, insospettito di questo entusiasmo secondo lui sproporzionato, s’irrigidì, diventò molto formale e pronunciò una serie di risoluti NO: “No, non se ne parla neanche”, “No, grazie”, “No, abbiamo già prenotato”, “No, vedremo”, “No, no, no, forse”.
Quel poveretto, deluso, ci guardava come un bambino che non capisce perché gli proibiscono di fare una cosa innocua. Ci accompagnò all’albergo, lasciò un pezzo di carta con l’indirizzo e il numero di telefono, rinnovò l’invito di andare a casa sua “almeno per una cena” e ci salutò.
Nella camera dell’albergo papà, come prima cosa, buttò nel cestino la carta con l’indirizzo del turco e si pulì le mani come se fossero contaminate, dicendo che “con gli stranieri non si sa mai… chissà chi era quello… meglio stare alla larga dagli sconosciuti… ci sono imbroglioni, ladri…” etc.
Papà mi portava in giro per i posti storici e i musei di Istanbul tenendomi per il braccio sopra il gomito come fanno i poliziotti quando accompagnano le persone arrestate. Di sera, in albergo, ci vedevamo con i compagni di viaggio, la signora mi mostrava le cose che aveva comprato, e io descrivevo le meraviglie che avevamo visto. Invano: a parte le compere, il resto l’annoiava.
Il terzo giorno a Istanbul, tornando in albergo, ci trovammo di fronte il “nostro turco”. Ero contenta di rivederlo, i coniugi pure. Papà, invece, “freddo come uno spritz”, aspettava zitto, presumo delle spiegazioni. Il “nostro turco” voleva invitarci a cena a casa sua. "Sì!", rispondemmo noi tre all’unisono. A quel punto papà non poteva opporsi, ma era chiaro che l’idea non gli piacesse. Per tutta la serata ci fecero domande su come si vivesse in Jugoslavia, se fossimo liberi di viaggiare, se possedessimo macchine private, case, il telefono, qual fosse la situazione lavorativa, se il regime comunista fosse pericoloso, se si potesse visitare la Jugoslavia e poi poter tornare a casa propria. C’erano le moschee? La religione, era proibita?
Edhem, così si chiamava il “nostro turco”, viveva con i genitori e i fratelli in una bellissima casa affacciata sul Bosforo. Ci accolsero tutti affettuosamente. Si cenava nel giardino con una meravigliosa vista sul mare. Uomini e donne insieme. Si parlava nella nostra lingua.
Ci divertivano le loro domande. Sembravano quelle che fanno i bambini su cose e fatti ovvi. “Certo che si può visitare… è ovvio che abbiamo il telefono… naturalmente che nessuno vi ferma per forza… macché regime, da noi si vive, lavora e viaggia liberalmente”, rispondevamo noi.
Verso la fine della serata, Edhem timidamente chiese: “Posso venire con voi? Mi piacerebbe visitare la Jugoslavia, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai stato.”
Tutti noi, insieme ai padroni di casa, guardavamo mio papà aspettando il suo giudizio. Seguì un attimo di silenzio, troppo lungo, a mio avviso.
Mi piaceva il “nostro turco” e mi piaceva l’idea di portarlo in Jugoslavia con noi, di fargli vedere il nostro paese, le nostre città, il nostro modo di vivere.
Fissavo papà, anzi lo supplicavo con lo sguardo.
“Ma certo”, disse papà sorridendo, come se non avesse mai avuto alcun dubbio sul “nostro turco” fin dall’inizio.
Dopo cinque giorni a Istanbul eravamo sulla strada del ritorno. Il “nostro turco” stava seduto dietro tra i due coniugi. Contento, sorridente, disponibile, di buon umore. Canticchiava.
E canticchiò instancabilmente, per due giorni, quanto durò il nostro viaggio di ritorno. Da lui, sentii per la prima volta l’antica canzone popolare bosniaca “Put putuje Latif-aga”, che parla di un abitante di Banja Luka che sta per partire per un lungo viaggio, saluta tutti e non sa se potrà mai far ritorno.
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