Jugoslavia anni ’70: si è mai stati meglio?
Una mostra racconta 40 anni della Jugoslavia socialista attraverso oggetti, foto e video. A Belgrado “Siamo mai stati meglio?” non è un cedimento alla jugonostalgia ma il tentativo di affrontare una storia comune resa drammatica dalla disintegrazione violenta del paese
“Non sono mai stata meglio”. Così scrisse nel bollettino sindacale Kata Rasnek, operaia specializzata alla fabbrica Borovo di Vukovar. Si era alla metà degli anni settanta, quando era giunto ormai a maturazione il processo di modernizzazione della Jugoslavia socialista. Portando un benessere davvero mai conosciuto prima.
La mostra organizzata a Belgrado dal Museo di storia jugoslava (dal 27 dicembre 2014 al 17 febbraio 2015) vuole gettare uno sguardo ragionato (e documentato) ai quarant’anni di vita della Jugoslavia socialista (1950-1990) partendo dal basso, attraverso cioè gli oggetti ed i ritmi della vita quotidiana.
La mostra occupa tre saloni in cui 200 oggetti, 400 fotografie e 26 video danno l’idea non solo della quotidianità, ma anche del grande salto dei livelli della vita materiale compiuto nel quarantennio considerato. Il tutto è stato curato da Ana Panic che ha utilizzato materiali provenienti da vari musei della ex Jugoslavia.
La mostra è significativamente intitolata “Si è mai stati meglio?” (Nikad im bolje nije bilo? ). Non è però un cedimento alla jugonostalgija (anche se il rimpianto è ben presente), ma il tentativo di affrontare una storia comune resa poi drammaticamente difficile dalla disintegrazione violenta del paese e dell’ideologia che faceva da collante. Con un approccio quasi di tipo antropologico e che parte dagli oggetti che hanno accompagnato la vita di tutti i giorni e dalle micro memorie – intime quanto condivise – che sanno oggi suscitare.
Quando si era insieme
Girando tra i numerosi oggetti presentati, vedendo i filmati dell’epoca ed ascoltando le canzoni che hanno fatto la colonna sonora del periodo, si respira anche emotivamente il tempo “in cui si era insieme” e lo sforzo gigantesco quanto talvolta originale di modernizzazione fatto dal paese.
Tanti sono gli angoli di lettura proposti: la scuola e la battaglia contro l’analfabetismo; la costruzione dell’”uomo socialista” attraverso le organizzazioni giovanili, i pionieri, il servizio militare nella JNA; l’immane sforzo dell’industrializzazione, il culto stakanovistico del lavoro, l’esperienza dell’autogestione operaia, ma anche la disoccupazione e l’emigrazione come gastarbeiter; l’edilizia e la cronica fame di case, nonché gli stili di arredamento con la simbolica centralità dell’apparecchio televisivo; il turismo e le ferie pagate come strumento di edificazione del lavoratore socialista; i consumi che diventano consumismo negli anni ottanta grazie al picco toccato dai salari reali alla fine degli anni settanta.
E nonostante che i marxisti eretici di Praxis avvertissero che lo scopo del socialismo non era lo sviluppo ottimale delle merci, l’occidentalizzazione dei consumi galoppava non solo attraverso lo shopping a Trieste ma anche grazie alla moda locale, al culto dell’auto e in televisione. Quest’ultima ha infatti gradualmente veicolato comportamenti ed estetiche sempre più omologate all’occidente.
Il ritmo del tempo
Un importante aspetto toccato dalla mostra riguarda il tempo collettivo scandito simbolicamente dalle feste, dalle cerimonie e dalle commemorazioni che punteggiavano il calendario jugoslavo.
Il ritmo del tempo ricordava così gli eventi della Seconda guerra mondiale e della lotta partigiana, le tappe fondative del nuovo Stato socialista ma anche le lotte dei lavoratori e i diritti delle donne. In particolare il titoismo era celebrato il 25 maggio, la cui mitopoiesi si realizzava nella festa della gioventù che culminava nella coreografica consegna del testimone (Štafeta mladosti) nelle mani stesse del Maresciallo. Ma anche la stessa musica di consumo onorava il culto di Tito, come successe nel 1978 con la nota canzone Računajte na nas (Contate su di noi) di Đorđe Balašević.
In ogni caso l’ideologia comunista fece da potente regista della modernizzazione che cambiò drasticamente quanto velocemente il volto materiale e culturale della società jugoslava; anche se non annullò le grandi differenze tra le aree del paese, con una differenziazione dei livelli di reddito e di consumo che si polarizzava nettamente tra Slovenia e Croazia da un lato e Kosovo e Macedonia dall’altro. I livelli di apertura raggiunti dalla società jugoslava alla fine degli anni ottanta furono poi gelati dai nazionalismi ed annichiliti dai processi tradizionalisti avvenuti nei dolorosi anni novanta, quando le differenze furono trasformate in identità. Ma questa è già un’altra storia.
La mostra offre anche un elegante catalogo (in serbocroato ed in inglese) ricco di fotografie, informazioni e statistiche. Ma soprattutto è una preziosa occasione per gli ex jugoslavi di ritornare con più serenità a rivisitare una storia che fu comunque comune. Per questo sarebbe auspicabile un lavoro di scavo storico e documentale che comprendesse sempre più il concorso di altri musei ed istituzioni delle varie repubbliche ex jugoslave.
L’iniziativa è interessante anche per gli stranieri e per gli italiani in particolare. Perché lo spazio balcanico, pur essendo confinante, ci è stato spesso distante culturalmente ed emotivamente. Ma è una distanza irragionevole che merita di essere assolutamente recuperata. E la mostra belgradese ne è un’ottima occasione.
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