Jerry Berman, l’ingegnere sudafricano testimone dell’holodomor degli anni Trenta
Da un archivio privato sono riemerse dopo quasi 90 anni una serie di lettere che l’ingegnere Jerry Berman, di stanza nell’Ucraina orientale dei primi anni Trenta, aveva inviato a parenti e amici all’estero. I suoi scritti testimoniano le sofferenze e le privazioni dovute alla carestia e alla politica staliniana di quel tempo, di cui nessuno allora sapeva nulla
Fondato nel 2009, il Museo statale dell’holodomor di Kiev nasce come concretizzazione dell’interesse, espresso da più parti a livello governativo, a dare vita a un vero e proprio memoriale dedicato alle vittime di quello che nel 2006 in Ucraina è stato riconosciuto ufficialmente come “genocidio”. Come scriveva Claudia Bettiol in occasione della commemorazione ufficiale dell’holodomor, ci si riferisce con questo termine alla morte per fame di circa sette milioni di persone tra il 1932 e il 1933, una tragedia deliberatamente provocata non soltanto dalla politica di collettivizzazione sovietica, ma anche dalla volontà di Stalin di reprimere qualsiasi aspirazione nazionalista di questa repubblica.
La carestia restò sepolta e sottaciuta a livello ufficiale fino al collasso dell’Unione Sovietica e anche al di fuori dell’URSS le notizie di fatto non trapelarono a loro tempo (nel periodo interbellico l’avvento del nazismo risultava un argomento evidentemente più urgente in Europa). Tentativi di rendere nota la vicenda all’estero furono condotti con enormi sforzi e ambizione dal giornalista gallese Gareth Jones; non solo tuttavia non ricevettero l’attenzione dovuta, ma ebbero per lui fatali conseguenze, come racconta il pregevole film di Agnieszka Holland Mr. Jones (2019; tradotto in italiano come L’ombra di Stalin).
Non fu però solo il giornalista Jones a tentare di portare all’estero informazioni sulla realtà quotidiana dell’epoca. L’industrializzazione accelerata della fine degli anni Venti aveva infatti determinato l’arrivo in Unione Sovietica di una serie di esperti selezionati, in primo luogo ingegneri. Tra questi vi fu Jerry Berman, un giovane sudafricano di origini lituane, che nel 1932 venne invitato a collaborare alla costruzione di un ponte presso Stanitsa Luhans’ka nell’Ucraina orientale. Nel 2021, a quasi novant’anni dal loro invio, sono state rinvenute una serie di lettere spedite da Berman a parenti e amici in Sudafrica, Stati Uniti e Regno Unito nel 1932 e 1933. La nipote dell’amico londinese Meyer Fortes, Alison Marshall, le ha ora donate al Museo dell’holodomor di Kiev e da settembre 2021 sono disponibili per la lettura ai visitatori (sia gli originali in inglese, che la loro traduzione in ucraino). Alcune lettere sono state anche digitalizzate e sono accessibili dal sito del museo, così come alcuni estratti sono riportati dalla stessa Alison Marshall in questo suo articolo di approfondimento.
Quello che Jerry Berman testimonia in questo suo epistolario è in primo luogo il terribile quadro umano dei lavoratori con cui si rapporta: uomini denutriti sull’orlo della morte per inedia, spesso non qualificati, disposti a lavorare a qualsiasi condizione pur di ottenere una misera razione di cibo. “Dunque è così che gli operai russi vivono e non se ne lamentano! Nessun uomo nell’intero universo lo sopporterebbe!”, scriveva e descriveva: “In mensa (stolovaja) ci sono scene di operai che scavano le bucce delle patate tra i mucchi di rifiuti. Gli operai che lavorano al ponte!… Come può un caposquadra lavorare e alimentare due caldaie lavorando per otto ore e ottenendo per questo 800 grammi di pane nero e denaro per acquistare in una stolovaja sudicia (peggiore di quelle riservate agli africani nativi) un piatto di zuppa di cavoli — senza carne — e due cucchiai di kaša?! Qual è il risultato? Che la gente dorme al lavoro, maledice tutti, si lamenta, grida e maledice. I nervi sono tesi al punto di collassare” (7 febbraio 1933).
Nelle fasi finali di costruzione del ponte, durante il disgelo delle nevi, il lavoro diveniva ancora più duro, tanto da richiedere turni da 14-16 ore pur di restare fedeli al piano quinquennale varato dall’alto. La mancata realizzazione dei compiti previsti avrebbe determinato una pena, “dunque passo il mio tempo al lavoro durante le fredde bufere, nel gelo e sotto le tempeste, così come in condizioni favorevoli” (6 marzo 1933).
In quanto straniero, Jerry Berman si rende però conto di ricevere un trattamento diverso e privilegiato rispetto alla popolazione locale, sia operai che contadini dei kolchoz della zona, i quali “vivono di cetrioli amari, cavoli marinati e un po’ di patate” (17 febbraio 1933). Berman aveva invece accesso al Torgsin, la rete di negozi statali dove per valuta straniera (oppure oro) era possibile acquistare generi alimentari altrimenti poco accessibili (dallo zucchero al miele). Inoltre, ai lavoratori stranieri lo stato sovietico garantiva alloggi, salari e razioni di cibo migliori e Jerry Berman approfittò di questa situazione per cercare di aiutare, per quanto possibile, i suoi operai fornendo loro cibo (nel marzo del 1933 riuscì a ottenere per loro quaranta razioni giornaliere di pane in più). “Essendo un uomo solo, sono molto fortunato. Alla stolovaja per gli ingegneri e i tecnici mi spettano tre pasti al giorno. Sono discreti. Discreti e non devo fare la coda. Mogli e figli di ingegneri e tecnici invece non ricevono assolutamente nulla!… è forse giusto? Un padre di famiglia con due bambini, mettiamo, ha diritto a un solo pasto per quattro persone! Io, singolo, ricevo lo stesso! […] Dunque faccio parte dell’aristocrazia della Russia. […] Non ho fame. Sono vestito bene. Posso star seduto e pensare a ciò che mi attende in futuro. Mentre tra i russi sono molto pochi coloro che possono pensare a qualcosa che non siano i bisogni primari” (22 aprile 1933).
L’ultima lettera tra quelle digitalizzate dal museo è del 16 luglio 1933. Il tono di Berman è ormai disperato e amaro: “Questo drammatico problema alimentare in Russia, che non mostra cenni di miglioramento, mi sta facendo impazzire e sta creando una sensazione di disperazione e rivalità nell’intero scenario. È orribile vedere la gente mezza morta di fame e stare a parlare di brigate di lavoratori modello e di pianificazione e di mille cose belle. Ci sono molte altre cose che potrei dire, sulla mia vita personale solitaria, del lavoro intenso e delle mie litigate qui e lì, quando e dove vedo un’ingiustizia crudele mai vista prima. Devo ancora trovare la terra della giustizia e dell’equità. Devo ancora trovare l’ideale! Lo troverò mai nella vita? Jerry”.
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