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Italia-Bosnia: la mia fascia bianca

Il 31 maggio 1992 le autorità serbo-bosniache di Prijedor imposero ai cittadini non-serbi di portare al braccio una fascia bianca. In migliaia vennero poi rinchiusi nei lager, più di 3mila uccisi. Dal 2013, ogni 31 maggio si tiene a Prijedor e in altre città europee come Trento, la "Giornata internazionale delle fasce bianche", per manifestare contro ogni discriminazione

30/05/2019, Edvard Cucek -

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Ernesto è un mio amico trentino. Conosce un po’ la Bosnia Erzegovina. È stato alcune volte a Prijedor, cittadina della Bosnia nord occidentale. Gli ho raccontato di quello che è successo nel maggio del 1992 in quella città, oggi abitata in maggioranza da serbo-bosniaci, dove i cittadini non-serbi (croato-bosniaci e bosgnacchi, cioè musulmani bosniaci) hanno subito deportazioni nei lager e uccisioni sommarie. Fatti che, dal 2013, vengono ricordati il 31 maggio con la “Giornata delle Fasce bianche”.

Lui non condivide la mia idea che gli episodi come questo vadano ricordati. Crede sia ancora presto. Sostiene che chi tende a ignorare quella grave discriminazione o si vergogna del fatto che i criminali responsabili appartengano al suo popolo, ma ha paura di prendere posizioni sia in Bosnia Erzegovina come qui in Trentino, vive questa manifestazione come una provocazione. Quindi, secondo Ernesto, le commemorazioni sono un ostacolo, invece che un sostegno, ai processi di riappacificazione.

Nel corso di questi 20 anni, però, la tendenza a sminuire quanto accaduto se non a negarlo in toto invece che diminuire si è rafforzata. Nonostante la giornata del 31 maggio, definita “delle fasce bianche”, sia diventata Giornata Internazionale solo dopo due anni che qualcuno, da solo e per la prima volta, ha osato manifestare il proprio dissenso rispetto all’omertà istituzionale. Quel giorno di maggio del 2012 un giovane di nome Emir Hodžić si è messo in mezzo alla piazza principale di Prijedor: da solo, in silenzio, con un sacco bianco ai suoi piedi su cui ha posato una rossa rossa in memoria di 256 donne uccise a Prijedor, nonostante fosse stato negato ogni permesso di manifestare.

Emir si è legato una fascia bianca al braccio, proprio come quelle che il 31 maggio del 1992 le autorità serbo-bosniache, appena insediatesi a forza nel governo locale della città, avevano imposto a tutti i cittadini “non serbi” di indossare per essere riconoscibili. Dopo quella protesta Emir si è recato in tutti i luoghi dove durante la guerra degli anni ‘90 sono stati torturati e uccisi dei civili. Una protesta che ha raccolto l’attenzione dei media e che dal 2013 è diventata sempre più partecipata, con la nascita del movimento “Jer me se tiče” ("Perché mi riguarda") creato da giovani e meno giovani, cittadini e cittadine bosniaci.

Mi piacerebbe, Ernesto, che nella Giornata delle fasce bianche del prossimo 31 maggio tutti e tutte le cittadine di Prijedor scendessero in strada. Per dimostrare compassione nei confronti delle vittime civili, per ricordare i 102 bambini innocenti uccisi a Prijedor – per i quali viene ancora rifiutato un monumento – e le vite di 256 donne uccise solo per il loro nome. Per ammettere che nel 21esimo secolo stigmatizzare dei concittadini, come è accaduto negli anni ’30 nella Germania nazista ma poi anche altrove in Europa, non è UMANO. Se tutti coloro che in privato “provano vergogna per il proprio popolo” scendessero in piazza, potrebbero togliersi il peso di essere identificati come gli stessi criminali responsabili di quelle azioni, solo perché appartenenti alla stessa etnia. E così, anche tutti coloro che hanno subito quelle violenze, potranno dimostrare loro solidarietà e condivisione.

Mantenere la memoria pubblica è importante, senza però mai dimenticare che dietro ai numeri ci sono nomi, persone, vite. Arifa, ad esempio, in quella guerra del 1992 appena trentenne ha perso il marito, deportato in uno dei campi di concentramento nei pressi di Prijedor e poi ucciso e occultato in una fossa comune. Lui, ateo, che si era sempre dichiarato semplicemente “bosniaco” (cioè cittadino della Bosnia Erzegovina), portava un nome e cognome che furono “la causa” del suo ultimo viaggio: di madre serbo-ortodossa e padre croato-cattolico, entrambi cittadini bosniaci legati alle proprie radici – mi ha raccontato Arifa – "da sempre" nelle profondità di quella terra martoriata. Senza patrie di scorta, si potrebbe dire.

In quella guerra Arifa ha perso un terzo della famiglia e ha salvato le due figlie. "Gli unici esseri per i quali trovo ancora le forze per esistere", come mi ha detto quando ci siamo conosciuti.

Arifa ricorda bene quell’ultimo giorno di maggio, come anche i terribili giorni successivi. Era con la figlia di soli 11 anni, si era legata la fascia bianca al braccio e appena incontrata sua madre anziana, ignara dell’imposizione, le diede uno straccio bianco per fare altrettanto. Arifa ricorda che fecero alcune centinaia di metri, camminando testardamente a testa alta. Al ritorno, a qualche passo dall’ingresso del proprio cortile, un soldato giovanissimo le fermò chiedendo di chi era la bambina. Arifa rispose che era sua figlia. "Mettile la fascia! È un ordine!", furono le parole del giovane. Arifa non le scorderà mai più.

Dopo qualche anno di esilio, nel 1999 è tornata a Prijedor, per seppellire in modo dignitoso il suo amato marito, i fratelli, il padre e gli zii. Aveva dovuto attendere che da qualche fossa comune emergessero i loro resti.

Le figlie, di fatto, non sono mai tornate: in seguito al rientro a Prijedor, la maggiore si è iscritta all’Università a Zagabria, mentre la più giovane è andata a Sarajevo per finire le scuole superiori. Dopo un traumatico tentativo di iscriverle alle scuole superiori nella città natale, diventata quasi totalmente abitata da serbo-bosniaci, Arifa ha deciso di risparmiare infatti loro ulteriori dolori e umiliazioni. Le ha mandate a vivere da parenti, e ha cominciato a vivere viaggiando tra Prijedor, Sarajevo, Zagabria e Stoccarda, dove lavora in modo precario.

Ma, come mi ha detto una volta, "Non ho mai più tolto quella mia fascia bianca". "Dopo così tanti anni hanno trovato solo la metà dei resti del corpo di mio marito. È un dolore insopportabile. La gente non parla e tutte le fosse comuni non saranno mai scoperte ed esaminate". Aveva finito così il suo racconto, lasciandomi senza aver capito del tutto questo suo disagio.

In tutti questi anni vissuti "in attesa di…", anni di una vita sospesa tra diverse città e diversi stati, Arifa, e tanti altri come lei, si è sentita di nuovo e di continuo con la fascia bianca sul braccio. Tutte le volte che ha cercato lavoro ma le è stato rifiutato. E le volte che ha chiesto aiuti agli enti competenti della sua città per ricostruire la casa distrutta, ma è sempre rimasta in fondo alla lista.

Tutte quelle volte che le figlie, come i figli di profughi e sfollati ritornati con coraggio, sono tornate da scuola disperate e in lacrime per aver vissuto un ennesimo episodio di discriminazione dai coetanei. In ogni occasione in cui i funzionari delle istituzioni locali ti hanno ripreso per aver chiamato la tua lingua madre come è sempre stata chiamata – prima – e non come loro vogliono che venga nominata.

Ogni maledetto giorno in cui sotto monumenti dedicati anche a criminali di guerra e assassini viene posta una corona di fiori dalle autorità locali mentre nella propria città per i propri cari morti uccisi, oltretutto civili, non esistono luoghi dove ricordarli dignitosamente. Così, mese dopo mese, ogni anno, senza tregua.

Il 31 maggio mi metterò la fascia bianca al braccio. La porterò tutto il giorno sperando che nel prossimo futuro indossarla non infastidirà qualcuno. La porterò spiegando, a chi me lo chiederà, qual è il motivo. La indosserò al lavoro e per le vie di questa città per tentare di aiutare persone come Arifa. Affinché un giorno venga loro di nuovo riconosciuta dignità e pari diritti. Quel giorno anche il mio amico Ernesto sarà più tranquillo. Potrà comprendere che quella discriminazione non è soltanto un brutto episodio da ricordare.

Saremo fieri entrambi di quello che stiamo facendo.

Per approfondire

Il 31 maggio del 1992 le autorità di Prijedor obbligarono tutti i cittadini non serbi ad appendere uno straccio bianco o un lenzuolo ad una finestra di casa. Per strada furono obbligati a portare al braccio una fascia bianca. Nei mesi che seguirono 31.000 civili vennero rinchiusi nei lager, 53.000 furono vittime di persecuzione e deportazione. Di questi, 3.173 vennero uccisi e 102 erano bambini.

Il gesto di Emir Hodžić, come racconta nel documentario del 2015 "Trideset prvi maj " (Trentuno maggio), non passò inosservato. Il fatto che nonostante il divieto di manifestare, da solo avesse deciso un’azione di questa forza, uscì sui giornali e arrivò alle orecchie di altri giovani. Giovani che nel 2013, sotto al cappello del neonato movimento "Jer me se tiče", riuscirono a organizzare la prima manifestazione pacifica per le vie di Prijedor, alla quale parteciparono decine di persone provenienti da diverse città della Bosnia Erzegovina.

Il 31 maggio 2019 anche a Trento (Piazza Santa MAggiore, ore 17.00) si commemora la "Giornata delle fasce bianche" per dare voce ai discriminati, non solo per il nome che portano o la religione professata, di tutto il mondo.

Guarda il video "White Armband Day in Bosnia " realizzato da "Photographers Without Borders" nel 2016.

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