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Istria slovena: dopo l’esodo, in cerca di una propria identità

In Slovenia la parola "esodo" è nei fatti bandita. Non per l’antropologa Katja Hrobat Virloget che ha pubblicato un libro sulla slovenizzazione delle cittadine istriane di Capodistria, Isola e Pirano: mettendo di fronte il lettore ad un territorio complesso ancor oggi in cerca della sua identità

10/02/2022, Stefano Lusa - Capodistria

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Se ne sono andati perché fascisti, se ne sono andati per ragioni economiche, se ne sono andati perché non erano altro che “regnicoli” venuti ad italianizzare le terre slovene, se ne sono andati perché hanno scelto di farlo liberamente, se non sono andati perché forviati dalla propaganda italiana e se ne sono andati perché non potevano accettare che a comandare non fossero più loro. Nella narrazione dominante slovena dello svuotamento dell’Istria e delle altre zone passate sotto amministrazione jugoslava ci sono mille modi e mille scuse per dire che gli italiani in realtà non furono cacciati e che la loro non fu altro che una scelta spontanea.

Quello che è certo, comunque, è che la parola “esodo” è praticamente bandita. Ad usarla recentemente è stata Katja Hrobat Virloget, antropologa dell’Università del Litorale, che ha pubblicato uno studio dal titolo “Nel silenzio del ricordo. L’esodo’ e l’Istria”, pubblicato in coedizione dalla sua università e dalle Edizioni Stampe Triestine, una casa editrice della minoranza slovena in Italia. La Hrobat ha usato intenzionalmente la parola esodo, seppur virgolettandola, partendo dalla considerazione che se ad andarsene furono centinaia di migliaia di persone quella non poteva che essere una “libera scelta” a cui si era costretti. Il volume nei mesi scorsi ha riscosso un grosso interesse in Slovenia, meritandosi articoli ed interviste sui principali quotidiani nazionali. Lo studio non affronta tanto il tema dell’esodo, quanto quello della slovenizzazione delle cittadine istriane di Capodistria, Isola e Pirano, passate all’allora Jugoslavia e di conseguenza alla repubblica socialista di Slovenia.

La Hrobat non ha l’ambizione di raccontare la storia, gli antropologi fanno un altro mestiere, così parla della vita di quegli italiani che decisero di rimanere e di coloro che arrivarono ad occupare le case rimaste vuote. Una ricerca durata dieci anni, un puntiglioso lavoro sul campo, fatto di silenzi, rifiuti e anche di lacrime, che ha prodotto una narrazione durissima, l’anatomia di un territorio rimasto senza identità. La Hrobat dà così voce ad una comunità lacerata e ridotta al silenzio, visto che il ricordo di chi rimase ed anche di chi venne non coincide con quello dominate che si è sviluppato dall’una e dall’altra parte del confine. Il lavoro fa riemergere una serie di ricordi individuali censurati, perché non coerenti alla “visione collettiva” che la società ha del proprio passato. Il risultato è la creazione di una sorta di “non luogo”, un territorio dell’obsolescenza culturale che fa fatica a trovare, anche a decenni di distanza una nuova sintesi per definire e ripensare sé stesso. Lo spiega bene nel rapporto che la popolazione locale ha con il mare, dove sembra che non viva con esso, come accade nelle zone costiere, ma solo accanto ad esso.

Quello che la Hrobat ci propone è il racconto di identità forti, ma anche di identità mobili come quelle delle campagne: aree miste, dove nelle stesse famiglie quelli che scelsero l’esodo non ebbero difficoltà a diventare italiani, mentre i loro parenti che rimasero diventarono senza grandi problemi sloveni o croati. Diversa era, invece la situazione nelle città, molto più omogenee etnicamente. Sta di fatto che gli italiani che rimasero divennero d’un tratto stranieri a casa propria. Dovettero non soltanto imparare una nuova lingua, ma anche accettare un cambio copernicano della società in cui vivevano. In un battibaleno vennero cancellati una serie di riti e tradizioni delle loro cittadine legate alle festività religiose, mentre le loro città mutavano volto, con riassetti architettonici ed un profondo mutamento della toponomastica. Come se ciò non bastasse le autorità non ci misero molto a cambiare nomi e i cognomi e nemmeno a spostare forzatamente i bambini dalla scuola italiana alla scuola slovena. Non andò meglio nemmeno a molti sloveni d’Istria, che rimasti senza scuole slovene nel periodo fascista, si ritrovarono con una conoscenza manchevole della lingua standard, e proprio per questo erano guardati dall’alto e considerati portatori di una cultura contadina di basso livello che non andava valorizzata. Quelli che arrivarono, invece, non vennero in paradiso. Nelle case malsane e senza servizi delle cittadine costiere molti si trovarono a vivere in condizioni peggiori di quelle che avevano lasciato nelle loro località di origine. Poi ci furono quelli che arrivarono dalle altre repubbliche jugoslave a partire dagli anni Sessanta, per edificare la costa slovena ed il suo porto: i “bosanci”, nei confronti dei quali tutti gli altri avevano un complesso di superiorità, e ancor oggi si sentono così “stranieri a casa loro”, perché non sono mai stati accettati come parte integrante del territorio, ma sanno che sono stati proprio loro a modellarlo, costruendo i complessi industriali e le palazzine delle periferie.

Un lavoro unico nel suo genere, che mette di fronte il lettore sloveno alla realtà di un territorio complesso che ancor oggi è in cerca della sua identità. Un vero e proprio pugno nello stomaco. Katja Hrobat Virloget ha messo uno specchio di fronte ad una delle aree che dal punto di vista identitario è la più degradata e schizofrenica della Slovenia. Quello che ne esce non è una bella immagine.

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