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Io, a Sarajevo

La mail di un amico e poi un viaggio a Sarajevo, in occasione del centenario della Grande guerra. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

08/07/2014, Massimo Mapelli -

Io-a-Sarajevo

“Carissimi, vi contatto per un motivo molto preciso.”

Si apriva così il messaggio che, qualche tempo fa, il nostro amico Paolo dedicava a un gruppo eterogeneo di persone che aveva indovinato quali possibili compagni di viaggio per un fine settimana a cavallo tra la storia e il buonumore. Un viaggio a Sarajevo in occasione del centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, quel 28 giugno del 1914, quando tutto il mondo si svegliò con l’espressione "casus belli" nelle orecchie.

È nata così l’idea un po’ balzana e ambiziosa di questa trasferta nei Balcani occidentali, a bordo di un furgoncino con un’anguria in perenne rotolamento sotto i sedili, attraversando frontiere di cui ci eravamo dimenticati l’esistenza e che ora dormono sornione sotto il cielo di luglio, adornate da petali di fiori di campo.

A cosa è servito sfidare chi, alla vigilia di questa partenza un po’ atipica, esprimeva perplessità più o meno fondate?

Ma a Sarajevo non c’è ancora la guerra? (Il mio dentista)

Perché per una volta non vai a goderti un bel fine settimana al mare? (I miei genitori)

La risposta, a dirla tutta, non ce l’ho. Posso dire che Sarajevo è stata per me una cosa pulsante, quanto un’arteria. Pulsante come un martello che batte secco su un chiodo, ora di rabbia e sgomento come una tempia durante un attacco di emicrania, ora di risate a crepapelle con in mano un bicchiere di birra slava.

Una città con un piccolo centro storico adagiato su un fiume discreto e l’orizzonte dominato dai minareti illuminati al tramonto. Intere colline ricoperte di pietre bianche, quasi dei funghi spuntati dopo una settimana di pioggia o piccoli cristalli squadrati in un quarzo al microscopio. Le angolazioni, certo, tutte diverse una dall’altra (perché solo Allah può costruire diritto) ma incisi sopra gli stessi, identici anni di morte: quelli dell’assedio.

Rimarrà il sapore dolciastro dei dolci ottomani, l’idea che in fin dei conti in quella biblioteca insieme ai capi di stato impettiti potevano fare entrare anche noi, il sottile imbarazzo di passare con un CD di Battisti a tutto volume nel bel mezzo di un cimitero musulmano.

Rimarranno i buchi nei muri ad altezza uomo, un colpo di cannone sparato al tramonto dalla collina più alta, per consentire finalmente la mensa ai cittadini di questa città martoriata dopo un giorno intero di ramadan, la piazza che si alza in piedi commossa davanti a un maxischermo quando l’orchestra filarmonica di Vienna, impegnata in un concerto di commemorazione a poche centinaia di metri da dove 100 anni fa Gavrilo Princip diede il via al secolo breve con il suo gesto impazzito, intona le note dell’Inno alla Gioia.

È l’inno d’Europa, l’ho controllato su Wikipedia, suonato a tutto volume proprio qui, dove l’Europa finge di non essere ancora arrivata ma dove, eppure, cominciò un conflitto sanguinario in grado di dilaniare il vecchio continente.

Oggi all’angolo in cui venne assassinato il famoso arciduca Francesco Ferdinando hanno aperto un museo, davanti c’è una macchina d’epoca sopra la quale si può fare una foto mascherati da regnanti dell’impero austro-ungarico e nel negozio di fronte Princip è disegnato su una tazza da te color beige.

E ancora: il colore della Miljacka, con quell’acqua scura che sembra sempre la stessa e invece cambia ogni secondo, come i giorni che ci scorrono sotto i piedi e che, faticosamente, ci affanniamo a riempire con esperienze sempre più coinvolgenti, chiacchiere belle anche quando vuote e viaggi avventurosi con il passaporto nel taschino.

La realtà è che non è successo niente di interessante; siamo molto meno di un granello di polvere rotolato su di un brandello d’Europa in un tempo di pace. Un nonnulla disperso tra le dune della Storia, quella con la S maiuscola.

Dalla collina dove alberga la torre della TV, ormai un decrepito e arrugginito baluardo di un passato troppo recente, si domina quasi tutta la città. Con questa immagine si aprivano quasi tutti i collegamenti della RAI in quegli anni tra il 92 e il 95. Per scattare una foto bisogna tenere le gambe un po’ larghe. È una questione di baricentro. Un brivido freddo sale lungo la schiena a pensarsi nella stessa posizione dei cecchini. Ci sono cani che abbaiano per strada, nella patria del randagismo, e bambini con le scarpe rovinate e la bandiera della Bosnia disegnata sulle guance. Sono troppo piccoli per ricordarsi una guerra di vent’anni fa, figuriamoci per una scoppiata agli albori del secolo scorso. Per loro il 28 giugno è solo un giorno come un altro dei Mondiali di calcio in Brasile.

Sarajevo laggiù riposa sotto un sole cocente. E se lo merita.

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