Inguscezia, il circolo dell’ingiustizia
Il “circolo dell’ingiustizia” che porta a un continuo rinnovarsi delle violenze in Inguscezia e in tutto il Caucaso del nord è al centro di un recente report di Amnesty International. Irina Gordienko, corrispondente speciale di Novaja Gazeta, lo racconta ai lettori di Osservatorio
Negli ultimi due anni John Dalhuisen, responsabile Europa e Asia centrale di Amnesty International, ha effettuato lunghe trasferte nel Caucaso del Nord. Le informazioni raccolte da lui e dai suoi colleghi sono alla base del rapporto recentemente pubblicato da Amnesty International sulla situazione in Inguscezia ("The circle of injustice: Security operations and human rights violations in Ingushetia ").
Ci incontriamo in un caffè del centro di Mosca. La musica è piacevole, la veranda piena di fiori. "Che ne pensi, quante di queste persone avranno un’idea di ciò che sta accadendo nel loro paese, per esempio del fatto che in ogni momento una persona può essere rapita o uccisa senza processo né conseguenze, come avviene oggi in Caucaso del nord?". Lancio uno sguardo ai visitatori, agli uomini d’affari che sorseggiano caffè, e mi rendo conto che non immaginano nemmeno lontanamente questa possibilità. Probabilmente a pochi importa ciò che avviene in Caucaso. "Proprio così”, continua John. “Non sorprende che tutti pensino che la guerra sia finita e che le forze dell’ordine si stiano occupando solo dei gruppi armati ribelli. Ma non è così. Lo Stato non è in grado di garantire protezione a nessun cittadino del Caucaso del Nord".
Israil Torshkhoev, "scomparso in circostanze misteriose"
Nell’aprile 2010, nel corso di un’operazione speciale nel centro della città di Nazran, le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco su una vettura che trasportava due uomini sospettati di coinvolgimento in bande armate illegali. Mezz’ora dopo, sul luogo è arrivato con la propria auto Israil Torshkhoev, 36 anni, che vivendo nei paraggi voleva sapere cosa stesse succedendo. Dopo avergli controllato i documenti, i poliziotti con maschere e armi automatiche gli hanno perquisito, senza alcun mandato, casa e terreni circostanti. Non avendo trovato nulla, e sempre senza identificarsi, hanno portato via il giovane, che nessuno ha mai più visto.
Da due anni i parenti del giovane lo cercano nei dipartimenti di polizia e in altri centri del ministero degli Interni, rivolgendosi anche al segretario del Consiglio di sicurezza dell’Inguscezia e ai servizi di sicurezza federali, ma la risposta è sempre: non risulta essere stato trattenuto. Alla moglie i dipendenti della procura hanno detto che "potrebbe essere stato arrestato dai servizi segreti" e che quindi "non son richiesti controlli procedurali". Ovvero nessuna inchiesta ufficiale sulla scomparsa dell’uomo. Secondo il sito ufficiale del ministero degli Interni, "Israil Torshkhoev è scomparso in circostanze misteriose". Ma nessuna inchiesta viene avviata per questo sequestro, avvenuto in circostanze quantomeno strane. Di queste "sparizioni in circostanze non chiarite" ce ne sono a decine in tutto il Caucaso, per non parlare dei casi di esecuzioni extragiudiziali e torture. Secondo gli autori del rapporto, l’impressione è che "casi simili nel corso degli anni di conflitto armato siano diventati parte integrante del modus operandi delle forze dell’ordine".
Oltre la Cecenia
Con l’eccezione della Cecenia, il problema principale delle repubbliche caucasiche risiede nella presenza di numerosi corpi di forze dell’ordine, che operano in modo indipendente e spesso in concorrenza tra loro. Ad esempio, in Inguscezia operano il Consiglio di sicurezza della repubblica e diverse divisioni del ministero degli Interni che si occupano della sicurezza per le strade e dei posti di blocco, ma anche un certo numero di unità speciali come l’OMON o il Centro per il contrasto all’estremismo, parte dei servizi di sicurezza federali. Sul territorio operano anche unità di stanza dell’esercito e la procura. A coordinare le attività di tutti questi organi sono chiamati il Comitato antiterrorismo della repubblica e, a livello federale, il Comitato nazionale antiterrorismo guidato da Aleksander Bortnikov, capo dell’FSB, attuale nome dei servizi segreti russi noti ai tempi dell’Urss come KGB.
Ognuno di questi organi ha i propri regolamenti e i propri capi, che operano in autonomia. Ad esempio, il ministero dell’Interno non è al corrente delle operazioni svolte dall’FSB e viceversa. I poliziotti possono circolare in auto senza targa con vetri oscurati, armati e mascherati ed effettuare arresti e perquisizioni senza produrre alcun documento. Di conseguenza, stabilire quale unità è coinvolta in un’operazione speciale è impossibile. La versione ufficiale è che tutto avviene per ragioni di "sicurezza", ma in pratica si traduce in violazioni delle leggi e dei diritti umani e nell’impunità per le forze dell’ordine.
Questa situazione dà luogo ad una paralisi quasi completa di inchieste e processi, poiché pubblici ministeri e investigatori non sono in grado di stabilire chi è responsabile per la scomparsa di una persona e spesso sabotano le indagini sui crimini commessi con la partecipazione delle forze dell’ordine. Questo comportamento si spiega facilmente: investigatori e procuratori sono essi stessi parte del sistema, e spesso non vogliono "rovinare i rapporti con i colleghi". Un altro problema risiede nel fatto che oltre l’80% dei processi per terrorismo sono istruiti in base a confessioni ottenute con metodi discutibili, che in tutto il mondo civilizzato sarebbero definiti “tortura”. Tale sistema di "illegalità legalizzata" nel Caucaso ha cominciato a prendere forma dagli inizi del 2000, dopo la famosa frase di Vladimir Putin "staneremo e faremo fuori i terroristi fin nel cesso", pronunciata all’inizio della seconda guerra cecena, che di fatto diede il via libera a qualunque atto delle forze dell’ordine.
La guerra in Cecenia è finita da tempo: nel 2009 è stato ufficialmente posto fine al regime di “operazione anti-terroristica” che vigeva nel territorio della repubblica. La lotta al terrorismo si è spostata in buona parte nei territori confinanti: Daghestan, Kabardino-Balkaria, Inguscezia. Ma la logica che definisce i meccanismi di pensiero e azione delle forze dell’ordine nel Caucaso del nord non è cambiata. E nemmeno gli inviti dell’ex presidente Medvedev ad azioni più chirurgiche e meno cruente hanno potuto scalfire l’impostazione putiniana. Nell’ultima riunione del Comitato nazionale antiterrorismo, tenutasi il 4 luglio a Makhachkala, il direttore dei Servizi federali Aleksander Bortnikov ha detto che "il conflitto armato nel Caucaso non può essere risolto solo con la forza". Una dichiarazione inaspettata da parte del capo di uno dei principali organi di sicurezza del paese che non cambia però la situazione nella regione.
Secondo John Dalhuisen, il sistema di "illegalità legalizzata" non può essere risolto senza coinvolgere in primo luogo ampi strati della società. "L’opinione pubblica russa deve capire che finché nel paese esiste un ghetto dove non si applica lo stato di diritto, le pratiche diffuse in quel contesto sono destinate a diffondersi come un tumore fino a infestare l’intero sistema in tutta la federazione.”
*Irina Gordienko è corrispondente speciale della Novaja Gazeta, Mosca
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