Infermiere bulgare in Libia, tragica odissea
Continua la drammatica vicenda delle 5 infermiere bulgare condannate a morte in Libia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo un punto della situazione realizzato da Antonia Ilinova dell’associazione Bulgaria-Italia, sul cui sito si può sottoscrivere un appello per la liberazione delle 5 donne
Di Antonia Ilinova, per Bulgaria-Italia, 8 dicembre 2005 (Tit. originale: Libia, infermiere bulgare, il punto della situazione)
Dopo quasi sette anni di prigione, torture e violenze, le cinque infermiere bulgare e il medico palestinese condannati a morte nel maggio del 2004, aspettano la decisione finale della corte suprema di Tripoli. Un’attesa straziante, che coinvolge le loro famiglie, colleghi e connazionali, associazioni e istituzioni internazionali come Amnesty International e l’Onu. Il 31 gennaio 2006 è la data in cui si dovrà conoscere la sorte dei detenuti accusati di aver infettato premeditatamente con il virus dell’Hiv oltre 400 bambini libici. In più di un modo è stata dimostrata la loro innocenza, ma le autorità libiche finora non hanno preso in considerazione i dati forniti dalla controparte.
Da molti anni professionisti della Bulgaria si recano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei paesi dell’Est. Durante i mandati, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Il 9 febbraio 1999 a Bengasi vengono arrestati 23 cittadini bulgari. Infermieri e medici arrivati nel paese africano per motivi di lavoro. 17 vengono liberati non molto tempo dopo, ma per sei persone inizia un incubo destinato a durare.
Gli sfortunati sono il medico Zdravko Georgiev e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Zdravko Georgiev è stato condannato a quattro anni di reclusione, pena per aver violato le norme valutarie del paese. Il medico ha trascorso cinque anni in prigione ed è stato liberato, ma non gli è tuttora consentito di lasciare il Paese. Secondo le autorità libiche le infermiere sono invece tutte colpevoli di aver infettato 426 bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi, circa cinquanta dei quali sono già morti. In Libia questo è un reato punibile con la pena capitale.
Sui motivi che starebbero dietro al cruente gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il leader Muammar Gheddafi a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente delle cinque infermiere. "E’ stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini. E chi li ha incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri dicono il Mossad" (il servizio segreto israeliano).
Il processo ha inizio in modo più concreto solo il 2 giugno del 2001. L’accusa si basa su confessioni di colpevolezza ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, ma questi non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, di produzione e consumo in pubblico di alcool.
In occasione dell’udienza di luglio 2004, 20 giorni prima dell’incontro in aula, il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ciò nonostante il 5 luglio gli avvocati sono pronti a sostenere e motivare l’innocenza delle proprie clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e quelle del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, esaminano il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Viene eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel 1998, nel 1999 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale di Bengasi. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al 1996 – 1997, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia. Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche come sostengono invece le autorità libiche. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La relazione da loro stilata avrebbe dovuto sopprimere i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione, ma di queste prove finora i giudici libici non hanno tenuto conto. Anche altri scienziati hanno dato il loro contributo per la soluzione della delicata vicenda.
Dopo numerosi rinvii del processo, la corte di Tripoli delibera la sentenza: le infermiere saranno fucilate. Per fortuna questo non accade nella data prestabilita e ancora una volta si attende con il fiato sospeso la decisione finale, che forse arriverà il 31 gennaio 2006.
La Libia ha cercato di risolvere la questione negoziando. In cambio dei sei prigionieri ha inizialmente voluto il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie. Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Il governo bulgaro ha rifiutato ogni forma di baratto. "Le infermiere sono innocenti, – ha dichiarato il portavoce del ministro bulgaro degli affari esteri, Dimitar Tsantchev – accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza e questo è inconcepibile".
L’eventuale esecuzione della condanna a morte rischia di compromettere fortemente l’immagine della Libia, che è alla ricerca di una migliore posizione sulla scena internazionale. Con l’abbandono delle armi di distruzione di massa e l’ammissione delle responsabilità per l’attentato di Lockerbie si è avviato un processo di avvicinamento della Libia all’Europa. L’esito dell’attuale vicenda avrebbe il potere di accorciare le distanze o di creare un divario insuperabile.
Il Governo libico deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini che hanno manifestato la loro rabbia contro il rinvio al 2006 della fatidica decisione della corte. Hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando "morte agli assassini", "impiccateli", "la vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro". Di tali reazioni sono in gran parte responsabili i media libici che da ormai troppo tempo sono strumento di divulgazione dell’odio contro gli ipotetici assassini dei bambini sieropositivi di Bengasi. Diversa la posizione del figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: "Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità relativamente al dilagare dell’epidemia. Io personalmente non credo nella colpevolezza delle infermiere".
Numerosissimi sono stati gli appelli, in ogni parte del mondo, di liberare lo staff medico arrestato. A Parigi si è tenuto un meeting per sollecitare l’annullamento delle condanne a morte. A capo dell’iniziativa ci sono le associazioni "Avvocati senza frontiere", "Insieme contro la pena di morte", nonché l’associazione degli studenti bulgari che abitano in Francia. Si raccolgono firme per la liberazione dei condannati. Ad oggi il numero delle persone che hanno firmato è superiore a 22.000. Nei giorni a ridosso della data in cui la Corte di Tripoli avrebbe dovuto pronunciarsi, nelle chiese e negli ospedali della Bulgaria sono state tantissime le azioni a sostegno delle infermiere rinchiuse. Non sono mancati mobilitazioni e appelli da parte dei governi di diversi stati, primo tra tutti l’America. Le speranze sono che una forte mobilitazione internazionale possa portare a una giusta decisione il prossimo 31 gennaio.
Nel frattempo l’Unione Europea, che segue con attenzione la vicenda, ha attivato il piano d’azione per gli aiuti umanitari. L’ospedale di Bengasi è stato munito di personale, apparecchiature moderne, medicinali e strumenti necessari per curare i malati di Aids.
Sottoscrivi l’appello a favore della liberazione delle infermiere bulgare
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