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In viaggio tra Albania e Macedonia: la chiave di sol

Un viaggio in autobus da Durazzo a Skopje. Ed un incontro musicale interrotto dalle guardie di frontiera. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

11/01/2018, Maria Chiara Calvani -

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Desara è una giovane ragazza albanese. Ha gli occhi grandi, aperti e pronti ad accennare un sorriso anche a chi non conosce. L’ho incontrata pochi giorni fa, abbiamo preso lo stesso autobus a Durazzo. Io, diretta a Skopje, avevo viaggiato tutta la notte in nave. Per alleviare qualche dolore muscolare dovuto alla potente aria condizionata del passaggio ponte e alle altrettanto fredde e troppo dure poltrone per dormire senza interruzione un’intera notte, avevo deciso che mi sarei fatta una nuotata in mare prima del viaggio.

Sarei arrivata a Skopje intorno alle 23 se tutto fosse andato liscio. Ricordo bene le lunghe fermate dell’autobus dell’anno passato alle frontiere albanesi e macedoni e il controllo estenuante dentro l’hangar sperduto della stazione di fermo albanese. Mi ricordo bene i poliziotti in cerca di Hashish ficcavano le loro mani grosse e rugose con un’insistente aggressività frugando tra i miei indumenti intimi, i miei diari e i prodotti tipici della cucina abruzzese che avevo impacchettato con cura per regalare ai miei futuri amici macedoni: qualche salsiccia di Letto Manoppello, il ratafià e i pomodori dell’orto di Nazzareno Capitani proprietario di un pezzetto di terra della fascia degli orti urbani del parco delle valli dietro casa.

Saliamo, l’autobus è pieno di gente, fa un caldo umido e pesante. Cerco di sdraiarmi puntando la faccia verso il bocchettone in plastica mezzo rotto dal quale esce un filo d’aria. I sedili stretti e scomodi emanano odori di abiti consumati e vecchi e di pelli e umori di altri precedenti viaggiatori. La signora dietro di me mi offre un pacchetto di crackers per alleviare la mia insofferenza o forse per condividerla. Rifiuto perché c’ho la lingua secca, avrei detto sì ad un buon bicchiere di acqua fresca che invece tiene gelosamente per sé. Invece, le chiedo col mio inglese zoppicante se è uso per l’autista fermarsi per un break. Lei non capisce e chiede aiuto a due ragazzi seduti accanto a lei, il figlio forse? E l’amico del figlio. Dopo qualche istante i due adolescenti mi rispondono in un inglese altrettanto incerto che tra circa un’ora si l’autobus si sarebbe fermato per una pausa.

Il pullman prosegue il suo tragitto lungo la strada che attraversa le campagne assolate di quel tratto di Albania necessario da percorrere per raggiungere il confine macedone. Un giorno, dico a me stessa, mi ci devo fermare in questa terra che per me è sempre un passaggio verso un altrove, un bordo da cui saltare per arrivare da un’altra parte. Sento un richiamo, una eco che mi dice, fermati qui vienimi a conoscere, vieni dalle mie genti passeggia sulla mia terra, prenditi con calma del tempo per ascoltarla e torna per restare.

A Skopje l’anno passato avevo conosciuto una giovane ragazza. Si chiamava Mimoza e con lei ed altre sue amiche macedoni ma di origini albanesi avevo cantato un’intera giornata in quel parco della periferia della capitale macedone lambito dal fiume Vardar. Io ero con Luisa, un’artista brasiliana conosciuta alla residenza d’artista Brashnar creative project di Skopje e insieme cercavamo di studiare canti macedoni, croati, serbi armeni ed albanesi e proprio a fagiolo arriva Mimoza con le sue amiche che ci cantano dai loro vivissimi 13 anni di età un canto albanese che si chiama Stacioni dunjas. L’ultima volta che ho visto Mimoza è stato l’anno scorso davanti a casa sua presso Saraj un quartiere albanese sempre alla periferia orientale di Skopje. Mi ha salutato e mi ha detto torna, la mamma mi ha baciato tre volte e mi ha invitato anche lei a tornare.

L’autobus finalmente si ferma. È il tempo della pausa caffè e toilette. Con 30 lek compro due bottiglie d’acqua e corro fuori dal negozio a respirare. Lei, Desara è in piedi, fuma una sigaretta. Ok mi dico, anch’io ho il tempo preciso per rullarmene una. Cerco l’accendino nello zaino ma non lo trovo, mi fermo, la guardo e valutando il suo sguardo accogliente diretto verso il mio le chiedo in inglese se mi fa accendere. Lei subito dall’accento intuisce che mi può parlare in italiano. Mi dice: sei italiana vero? Io parlo italiano perché avevo un fidanzato in Italia. Ho vissuto in Italia per un anno con lui, poi le cose non sono andate ed ora vivo a Durazzo; vicino a Durazzo, precisa, un paesino di campagna dove si vive bene in mezzo alla natura e si respira aria buona.

Sul braccio destro ha tatuata una chiave di sol. Non le domando nulla ma mi colpisce. Sto andando in Macedonia e poi in Bulgaria a raccogliere canti popolari delle tradizioni balcaniche e quel disegno tatuato sulla sua pelle non mi è indifferente. Lei mi chiede di sedersi accanto a me forse aveva già notato prima che il mio sedile era vuoto. Vado a Gostivar a cantare! Mi dice. E che canti? Faccio stupita! Risponde che canta canti popolari albanesi in un locale, così si guadagna la stagione estiva. Mi dice che vivere in Albania è dura, che non c’è lavoro e che è grasso che cola guadagnare 150 euro al mese lavorando duramente otto ore al giorno.

Sarebbe bello – mi dice – se riuscissi a lavorare luglio e agosto a Gostivar. Le chiedo perché proprio lì e nel frattempo nella mia mente cerco di rintracciare la cittadina macedone nella mappa geografica che mi sono disegnata in testa dopo averci vissuto un mese l’anno passato. Mi risponde che gli albanesi vanno in vacanza nella località montana di Gostivar e che proprio lì si ritrovano con i parenti e gli amici che ci vivono da generazioni.

Sento il fischio del vapore è il mio amore che va via… se ne è partito per l’Albaniiiiaaa chissà quando ritornerà?…” le canticchio io e a lei piace molto. Questo canto me lo ha cantato Stella per la prima volta, una signora molisana con una voce bellissima. Parla di una storia di amore e guerra, un canto rimasto nella memoria di tante persone… mi risponde con un canto albanese. Ha una voce bella e aperta verso il futuro. Mi dice che ha 25 anni e resta stupita quando le dico che ne ho 42.

Da lì a poco è tutto un canticchiare un piccolo concerto dentro l’autobus che non rimane indifferente alle voci desiderose di uscire dalle nostre bocche. Mentre le canto Jovano Jovanke (un canto antico macedone), una bambina si gira incuriosita, alla fine del viaggio scoprirò che è una bambina che con i suoi genitori sta andando a trovare i nonni a Kokino e che conosce bene questo canto. Desara mi chiede perché conosco bene i canti macedoni. Le rispondo che mi piacciono molto le storie, le sonorità e i ritmi di questa terra e per questo ne ho imparato i canti.

Nel canto macedone ritrovo un senso di appartenenza alle cose primitive dell’umano un po’ come nel canto sardo: la terra da lavorare, l’amore, la nostalgia, il dolore: sembrano così ben amalgamate assieme queste emozioni che nessuna prevarica l’altra in un equilibrio incredibile che mi stupisce e che è quello che cerco. Desara mi suggerisce un canto albanese: Serenata Korcare, lo anticipa con la sua voce giovane e ariosa pronta ad intraprendere due mesi estivi di canto. L’autobus prosegue il suo tragitto tra le strade rosse delle colline vicino a Ohrid e siamo quasi al confine. Io e Desara terminiamo il nostro repertorio canoro, ora siamo amiche anche se è così poco che ci conosciamo e vogliamo parlare di noi, dei nostri sogni, dei nostri progetti.

È incredibile quanto il viaggio insieme a qualcuno sia importante per alleggerire le ansie e le aspettative di una vita, tutto diventa più semplice, il racconto delle difficoltà quotidiane si snocciola lungo la strada e il panorama si trasforma velocemente e aiuta il pensiero a non fissarsi su qualcosa ma a snodarsi fluido sulle questioni dell’esistenza, le necessità, il guadagno, il lavoro anzi la mancanza di lavoro, il come vivere degnamente la propria vita.

Lei mi dice che se ne vuole andare da questa terra che non le offre niente. Ha un amico che esporta prodotti per le pulizie in tutta Europa e che potrebbe assumerla e portarla in Italia e magari in Svizzera. Mi dice che ha lavorato per tre anni in Olanda. Le domando perché non è rimasta su. Risponde che lavorava in nero ed alla fine l’hanno beccata senza permesso di soggiorno. Non chiedo altro. Siamo al confine. L’autobus sudato di gente si ferma, i poliziotti di frontiera fanno segno all’autista di dirigersi verso l’hangar.

Io lo conosco bene quel posto. È il luogo dove l’anno passato mi hanno perquisita da capo a piedi. Se faranno quanto hanno fatto con me l’anno scorso finiamo il controllo domani all’alba, penso. L’autobus fa retro marcia sull’asfalto rovente del piazzale di frontiera ed entra nel capannone salendo una rampa. Con una voce rabbiosa il poliziotto deputato al controllo ci intima di prendere i nostri bagagli e di poggiarli sul tavolo per permettere agli agenti di controllarli. Mi guardo intorno e d’un colpo faccio un salto nel passato di un anno preciso. Alle pareti dell’hangar la bandiera albanese con le teste fiere delle due aquile nere. L’aria è sudata e pesante, guardo Desara, lei annuisce. Fanno così le dico, anche l’anno scorso la stessa cosa. Lei sembra capire ma non parla.

Passa del tempo tra il disordine degli abiti estratti con quella stessa aggressività dell’anno passato dalle valigie dei passeggeri e i viaggiatori impazienti in attesa di risalire sull’autobus, passa del tempo nell’aria pesante della sera umida e calda d’inizio luglio. Chi ha già controllato risale dentro e si addormenta. Sono le 23.00; ed ancora siamo qui. Di questo passo arriverò a Skopje a tarda notte. Mi siedo sul mio sedile sudato dopo il controllo e scrivo un messaggio ad Ankica avvertendola del ritardo. Desara è accanto a me. Mi mostra un gioco sul suo smart phone. Si chiama… si lo conosco ci ho giocato con i miei cari amici a Roma… dai giochiamo!. Ci sto, anche se non ho una gran voglia a quell’ora. L’autobus è di nuovo al casello, stiamo per ripartire… Si apre ancora lo sportello ed entra di nuovo un poliziotto di frontiera albanese… Desara… pincopallo (non ricordo il cognome) la chiama ad alta voce, vogliono controllare ancora una volta il suo passaporto? Perché?

Ovviamente Desara fu bloccata alla frontiera albanese – macedone, non saprò mai se ha aspettato un’intera notte in quel posto di frontiera prima di riprendere il primo autobus che sarebbe passato all’alba del giorno seguente e non so più niente di lei, non abbiamo fatto in tempo a scambiarci il numero di telefono. Fatto sta che non risalì più nell’autobus sudato diretto a Gostivar e poi a Skopje e il mio sedile rimase vuoto fino a destinazione. Non ricordo nemmeno più il suo volto… ma canticchio ogni giorno Serenata Korcare che mi ero appuntata sul mio quaderno di canti e che ho trovato facilmente su youtube una volta a casa. La sto cercando di imparare; canzone bellissima, non so di cosa parla, sono sicura che qualcuno un giorno mi spiegherà il suo significato; ma ha una melodia bellissima ed è difficile cantarla, bisogna modulare la voce che passa da tonalità basse a toni altissimi e note affilate… e… mi ricordo la chiave di sol tatuata sul braccio destro di quella giovane donna e di quel bel momento di scambio di canti che scavalcano tutte le frontiere, noi due sospese tra le terre rosse di questo paese che tornerò a visitare presto.

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