In viaggio: la Jugoslavia nella Jugoslavia
E’ possibile fare turismo in Bosnia? Se la vacanza è ”vuoto”, da occupazioni e preoccupazioni, allora non si presta a tutto questo. Diverso se si vuole recuperare il profondo senso di viaggiare. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Vittorio Filippi*
E’ possibile oggi fare del turismo in Bosnia? Intendiamoci sui termini. In primo luogo la Bosnia, per la sua nota complessità storica e culturale, è stata una "Jugoslavia nella Jugoslavia", e il dissolversi della Federazione nei primi anni Novanta ha prodotto qui – di conseguenza – una esasperazione di lutti e drammi inenarrabili quanto indimenticabili. E comportando ulteriori complessità che Dayton ha solo anestetizzato (per quanto ancora?).
In secondo luogo il turismo, i turisti cercano notoriamente mondi incantati, mondi divertenti, spensierati, paesi dei balocchi in cui occorre sempre sentirsi un po’ come a casa propria. E’ la cosiddetta "bolla ambientale": anche nei paesi più esotici e lontani, il turista va rassicurato offrendogli cibi nazionali, facendogli vedere le tivù domestiche, interpellandolo con la sua lingua e così via.
D’altro canto la vacanza rimanda etimologicamente al vuoto (di occupazioni e di preoccupazioni) e quindi al disimpegno e al consumo di "cose per turisti" (l’espressione ha assunto perfino un significato ironico o negativo).
No, la Bosnia non si presta a tutto questo: è, forse, uno dei luoghi europei in cui anzi occorre un sovrappiù anche faticoso di comprensione, di cultura, di sensibilità. In Bosnia si recupera piuttosto il senso profondo del viaggiare, dell’essere in cammino, dell’affrontare incontri diversi, del pensare che partire sia un po’ capire. Credendo insomma, come Ulisse, che viaggiare significhi "divenir del mondo esperto" (Dante, Inferno XXVI).
Il nostro viaggio inizia il giorno di ferragosto, data che simboleggia il secondo "capodanno" della società del turismo di tutti e per tutti; dopo tale data si avvia infatti il rientro e una nuova fase lavorativa. Ma è anche un giorno di scarso traffico, per cui con facilità raggiungiamo Senj, cittadina sulla costa croata poco sotto Fiume. Lì il transito turistico è robusto, la costa dalmata attrae come non mai, e la Croazia si avvia a sfondare nel 2010 gli 11 milioni di presenze. Abbandoniamo Senj ed il sovrastante castello degli Uscocchi, i terribili pirati dell’Adriatico che Venezia fece disperdere all’interno, attuando ciò che oggi definiremmo come una specie di pulizia etnica. Per entrare in Bosnia si sfiorano i 16 laghi di Plitvice, una meraviglia naturale giustamente affollata di numerosi visitatori. Presi dall’incanto del luogo, ben pochi ricordano che la disintegrazione della Jugoslavia iniziò proprio lì.
Il 31 marzo 1991, domenica di Pasqua, un commando serbo bloccò le strade e mirò ai pullman; rispose la milizia croata, e così per un giorno e una notte. Il danno al turismo fu enorme e l’annuncio della guerra civile apparve evidente: i serbi infatti erano anche dentro la Croazia e ciò esasperò la complessità del conflitto ormai incipiente.
Dopo i laghi il confine con la Bosnia è vicinissimo, ma sulla strada che lo raggiunge il traffico è minimo e le targhe straniere inesistenti. Entriamo in Bosnia e già al confine la sua specificità appare: dei bianchissimi ed esili minareti contrastano con il verde intenso delle dolci colline, mentre un rumoroso corteo nuziale sventola orgogliosamente la bandiera a scacchi croata. Lo scrittore serbo Dobrica Cosìc, ispiratore di Milosevic, definì la Bosnia una entità spirituale e demoniaca al tempo stesso perché in essa convivevano ben quattro fedi religiose differenti. Di qui la tesi – tanto cara ai nazionalisti – che la Bosnia fosse una "naturale" terra di odi profondi e irrecuperabili. Prima tappa Bìhac, dominata dai resti di una fortezza turca che ci ricorda quanto lunga ma anche per certi versi illuminata fu la presenza della Sublime Porta in questo angolo dei Balcani. Anzi, dice lo scrittore croato-bosniaco Predrag Matvejevic, Balcani è la traduzione turca di "Vecchio Monte", così come gli slavi definivano l’area.
A Bihac si mescolano bandiere croate, la voce salmodiante del muezzin e la musica turbofolk serba sparata a tutto volume nei locali pubblici. Qui e lì edifici colpiti e sforacchiati, a ricordare il passaggio della guerra. L’onnipresenza di manifesti politici dell’HDZ, la Comunità democratica croata (il partito che fondò Tudjman) fa pensare ad una zona ormai croatizzata.
Da Bihac a Jajce il viaggio é lungo, ma facilitato dall’assenza di traffico e dalla dolcezza quasi svizzera del paesaggio verdissimo, dove di un verde intenso sono anche i numerosi corsi d’acqua. Si fora la parte serba – il cartello recita "Republika Srpska" in cirillico ed in inglese – dato che la Bosnia è una e bina: da una parte i serbi con capitale Banja Luka, dall’altra i musulmani e i croati con capitale Sarajevo (che é al tempo stesso la capitale unitaria).
Si incrociano mezzi di svariate organizzazioni internazionali e jeep dell’Eufor, mentre numerosi cartelli con le dodici stelle della UE ci ricordano che siamo in un paese artificioso, creato 11 anni fa a Dayton, senza moneta propria, con una architettura istituzionale farraginosa, sotto tutela internazionale, aiutato economicamente e "congelato" nelle sue divisioni etniche. Lungo la strada steli funerarie e segnali di terreni minati sono li a ricordare l’alito della morte.
Jajce non é solo baricentrica per la geografia della Bosnia, ma anche per la storia della seconda Jugoslavia, quella di Tito. Qui, nel novembre del 1943, si riunì il Consiglio antifascista di liberazione e si avviò la Repubblica federale socialista jugoslava. La storica sala, dove campeggia una grande statua di Tito pensoso e corrucciato, è stata notevolmente danneggiata dall’artiglieria leggera. Tito viene oggi o ignorato, o odiato dai nazionalisti, o rimpianto con accorata nostalgia. Sulle strade una scritta amara ed ironica: "compagno Tito, ritorna per favore"; ma la sua risposta è: "Fossi matto!".
Non lontano c’è la cittadina di Travnik, con il caratteristico quartiere turco: qui sorge, graziosa, la casa natale di Ivo Andric, l’unico Nobel jugoslavo con il famoso Ponte sulla Drina. Proprio perché raccontava della difficile ma possibile convivenza dei popoli nel crogiuolo bosniaco, il suo monumento nella vicina Visegrad venne fatto saltare dai nazionalisti.
Non é un caso che tutto ciò che ricorda la memoria comune – ponti e monumenti – sia stato preso di mira con scientifica violenza. Come fanno popoli così piccoli ad essere così cattivi tra loro, si chiedono amaramente i personaggi di Balcancan, il bel film del macedone Darko Mitrewski.
Sarajevo, stazione degli autobus: la toponomastica dei collegamenti rimanda alla geografia degli orrori: Doboj, Zenica, Srebrenica, Tuzla, Gorazde. La città appare affaccendata, vitale, la Bascarsjia, il bellissimo quartiere turco dalla profumata cucina orientale, è affollata e punteggiata di eleganti ragazze musulmane col velo. Eppure, dice una giovane musulmana, insegnante di francese, la situazione è ferma, con una economia che non va (la madre pensionata non ce la fa con i suoi 80 euro al mese), a parte coloro che fanno i soldi facili trafficando perfino con gli aiuti internazionali.
La stessa geografia della Bosnia continua ad essere ritagliata per etnia: si limita all’area serba nei libri di testo usati dai bambini della Republika Srpska, mentre si ferma puntigliosamente all’area croata nelle brochure che offrono gli alberghi dell’Erzegovina.
Nella vicina e martoriata Mostar si rivedono i turisti stranieri, specie gli italiani. Il ponte turco, ricostruito, sembra finto: troppo perfetto, troppo nuovo. D’altro canto la guerra ha prodotto anche una volgarizzazione architettonica: la ricostruzione é fatta con criteri e stili estranei e le periferie sono violate da centri commerciali prepotenti e da stazioni di rifornimento eccessive.
Sui muri scritte di mani non troppo ignote inneggiano al generale croato Ante Gotovina, definendolo eroe. Peccato che Gotovina sia invece un vero e proprio criminale di guerra, da poco arrestato (e trasferito all’Aja) per aver spazzato via i serbi della Krajina nel 1995 durante la cosiddetta operazione "Tempesta".
Uscendo dall’Erzegovina in direzione della costa adriatica una cubitale scritta informa che siamo nelle terre del generale Gotovina, raffigurato in una immagine marziale con tanto di berretto militare. D’altro canto l’Erzegovina ha prodotto gli elementi più intolleranti ed estremisti della Croazia di Tudjman, finanziando e ricattando politicamente lo stesso governo di Zagabria.
Il viaggio di ritorno è cominciato percorrendo la trafficatissima e stretta Jadranska magistrala che riporta i tanti turisti verso nord, a casa. A sinistra vedute mozzafiato di isole e mare; a destra – al di là delle aspre Alpi Dinariche – il sofferente mistero della Bosnia, geograficamente in Europa ma in realtà altrove. Come sintetizza il giovane scrittore saravejese Miljenko Jergovic in Le Marlboro di Sarajevo, la Bosnia è "un paese errabondo, un paese che si trova ora all’estremo oriente, ora all’estremo occidente, ora al centro del nulla".
Ecco, oggi è al centro del nulla: ha mutato – in peggio – ambiente, antropologia, economia, identità. E’ un "buco nero" senza un ragionevole futuro. Un turista certamente non la capirebbe, ma un viaggiatore aperto, paziente e responsabile può non solo apprezzare i suoi tesori artistici, paesaggistici, gastronomici e umani, ma anche aiutarla a ritrovare sé stessa.
*Vittorio Filippi insegna Sociologia del turismo presso l’Università di Venezia
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