Tipologia: Intervista

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In valigia un sogno

Parole come mattoni, silenzio e pietra, per costruire ponti che vadano nel tempo, attraverso luoghi, da un io a un tu, e viceversa. Se esistesse in letteratura la tradizione o la scuola dei costruttori di ponti Božidar Stanišić ne farebbe parte

08/05/2007, Redazione -

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Di Antonia Pezzani

Lo scorso 26 aprile si è tenuto a Trento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia l’incontro promosso dal SIR con lo scrittore Božidar Stanišić*. Un autore che di sé dice: A dire il vero io non sono autore per tutti i gusti ma non credo di voler far di meglio. E che raccontando un anedotto dice di come un suo amico alla vista del suo tavolo di lavoro gli abbia detto: Sembra il tavolo di un sarto. La sua scrittura, connubio di estetica ed etica, tende a sfuggire dalle caratterizzazioni di genere, prende spesso le strade della riflessione, del concetto e dell’esistenza, come se cercasse costantemente di superare se stessa in cerca di un’immagine più vera.
In che rapporto sono fatto e finzione in ciò che scrivi? Da dove parte la tua scrittura? Si può scrivere senza tener conto della realtà?
Penso sia difficile scappare dalla realtà. Perché io credo che in questa unica vita che abbiamo innanzitutto dobbiamo incontrare ciò che chiamiamo la nostra coscienza e l’immagine che spesso ci costringe a vederla come tale. Le circostanze in cui viviamo sono piene di sfide, di problematiche di livello talmente alto e drammatico – che chiamo sempre la storia in movimento – che la fuga è impossibile.
‘Storia in movimento’ è un’espressione che usi spesso. Che cosa intendi?
Intendo soprattutto ciò che falsamente ci pare sfuggire dal nostro orizzonte. E invece è talmente presente che io credo che basti fermarsi e capire la realtà delle circostanze. Io ho visto dal vivo il processo di, non so come dire, di un disfacimento segnato soprattutto da una mancanza di qualsiasi aspetto umano e perciò devo raccontarlo in modo da attualizzarlo anche come monito restando perciò sempre sulle tracce della letteratura come necessità di posizione artistica …. troppo complicato?
No, però penso che sia un concetto difficile in sé. Io sono arrivata a pensare anche che questa storia in movimento potesse essere talmente soggettiva e particolare da essere anche qualcosa di non vero, un’illusione.
Non lo è. Io credo che anche se spesso ci sfugge e ci inganna, non è un fenomeno sovrumano anche se spesso i mezzi prodotti nella storia diventano sovrumani o disumani, come già abbiamo visto succedere e ne siamo testimoni.
Però se ad esempio noi nella storia indichiamo fenomeni come i poteri, la ricchezza insensata, la disgrazia di due terzi dell’umanità etc. io penso che sia un processo semplice, che ciascuno di noi può cogliere.
Lo scrittore si distingue dagli altri per quel poco di talento nel saper raccontare. Perciò dico che la letteratura a mio avviso deve uscire dalle proprie cornici e compiere questo passo verso una realtà e la realtà è quella che non dovrebbe ingannarci. Anche se spesso se ne vedono soltanto una o due dimensioni e invece è sempre tridimensionale.
Un’ altra cosa di cui scrivi spesso è la neve. Da cosa deriva questo fascino? Che cosa rappresenta per te?
Io credo che la natura e con la natura insieme l’intero universo, sia un dono di cui non siamo consapevoli. Non siamo consapevoli né che è un grande dono, né della sua bellezza. Oltre al fatto che ci nutre e riesce ancora a farlo. Per me la neve non è soltanto un coperchio bianco che dopo che è scesa sulle cose, diventano più belle, ma in realtà è anche un riflesso di quella possibilità di diventare diversi. Non è solo la gioia per gli occhi dei bambini, ma è anche una provocazione. Per me è una provocazione continua.
Ti trovi meglio a scrivere non-poesia, teatro o narrativa?
Ma io mi trovo sempre male a scrivere. Lo dico con un po’ d’ironia e un po’ di verità. Perché spesso penso con il passare degli anni che mi affligga una sorta di maledizione: nella vita si possono fare credo anche delle cose più utili, soprattutto per gli altri. Ma c’è un invito interno a cui è dififcile resistere. Quando c’è qualcosa da esprimere io mi fermo e si ferma anche la quotidianità che vivo e finché non metto in piedi un frutto non mi muovo. Ma attualmente mi sono ritrovato di nuovo nei testi per il teatro volendo attualizzare un teatro che ci aiuti a riflettere. A riflettere su tutto.
Spesso la narrazione dei tuoi racconti è un narrare di voci: si muove attraverso il dialogo come in Bon voyage o Rapimento. Qual è il ruolo del dialogo?
Mi è già stato chiesto, un po’ per scherzo un po’ sul serio, dove avevo trovato quel treno in cui tanta gente parla. Io ho messo sul treno (di Bon voyage) tutti i dialoghi possibili che avevo sentito, modificandoli e sintetizzandoli, su tutto ciò che per me è stato un non-incontro dell’Europa con la propria memoria. Non solo dell’Europa, ma anche del mondo più ricco. Perché io credo, e nel prossimo testo teatrale voglio affermare quest’idea, che per quanto male porti la povertà, anche il benessere porta i suoi drammi. Drammi spesso invisibili, non toccabili da molte persone che ci circondano. Ma in realtà il benessere spesso scioglie quello che io chiamo il resto dell’umanità. Ecco perché riaffermo un’idea del dialogo su tutto ciò che potrebbero essere temi forti – anche poco osservati, anche poco popolari – a dire il vero io non sono autore per tutti i gusti ma non credo di voler far di meglio.
Alcuni personaggi dei tuoi racconti, mi riferisco soprattutto a Neven/Virgin de Il giardino australiano, scelgono di coltivare il ‘giardino dell’oblio’ anche se sono quasi perseguitati dalla propria memoria. Cos’è che li tiene in balia della ‘maledizione della lontananza’, perché non possono ricordare, né tornare?
Il probelma della non-memoria è molto profondo. Ho creato questo personaggio ad esempio usando molte immagini di personaggi ancora vivi, miei contatti con persone in pelle e ossa: ho fatto una sintesi. Volevo evocare anche la questione della non-memoria come una delle malattie invisibili.
Perché noi non possiamo permetterci di dimenticare. L’umanità stessa non può dimenticare i suoi punti cruciali.
Quando parlo di una persona dei Balcani parlo anche di una dell’Italia, dell’America, della Russia. Come può accadere ad esempio ai gironi nostri che se si parla dell’89 molti ti chiedano cosa sia successo nell’89? Nell’89 si diceva: Mai più le guerre. Però oggi siamo di nuovo immersi nelle guerre. Parlando di memoria e non-memoria spesso siamo proprio nel centro di ciò che è anche la natura di ciò che dicevo: storia come divenire. La storia che continua e che però non vogliamo percepire.
Restando sul racconto Il giardino australiano viene evocata la figura di Eduard Munch. Le è servito per rappresentare l’immagine di un’epoca, di una cultura europea, ma forse ancora di una cultura ‘occidentale’?

Much è innocente. Munch per me era un artista proprio coerente con la propria visione, non come certi artisti di oggi che si svendono anche per ragioni materialistiche. Però ho messo in questione un intero mondo, dell’immagine, dell’apparenza che spesso si appoggia all’arte sfruttandola e volgarizzandola non chiedendosi nulla della drammaticità dell’atto. Perché ad esempio il personaggio che ho creato è basato anche sull’uso banale dell’eredità artistica. Perché la banalità mi interessa molto, quanto la noia che produce realtà di cui molto spesso siamo inconsapevoli, di quella drammaticità che la banalità può creare. Spesso sia l’immagine profonda che quella superficiale ci sfuggono. La banalità è una delle grandi malattie che abbiamo prodotto.

*Božidar Stanišić (Visoko, Bosnia,1956) già professore di lettere a Maglaj (località a nord di Sarajevo), dal 1992 vive con la sua famiglia in Friuli, a Zugliano. Oltre a offrire il suo contributo letterario, pubblicistico ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili dei rifugiati e degli stranieri, Stanišić ha sempre collaborato alle iniziative culturali dell’Associazione – Centro di accoglienza "E. Balducci", con cui ha già pubblicato tre raccolte poetiche: "Primavera a Zugliano", "Non-poesie" e "Metamorfosi di finestre". Diverse di queste liriche sono state incluse nelle raccolte Quaderno Balcanico, Cittadini della poesia, collana diretta da M. Lecomte (1998), Conflitti – Poesie delle molte guerre, a cura di I. Landolfi (2001) e Ai confini del verso, a cura di M. Lecomte (2006), pubblicata anche in inglese, negli USA. In prosa, oltre a numerosi contributi letterari e saggistici in riviste e quotidiani, ha pubblicato la raccolta di racconti I buchi neri di Sarajevo (1993),Tre racconti (1998), Bon voyage (2003). Ha pubblicato anche un testo teatrale: Il sogno di Orlando (2006). Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti anche in sloveno, inglese, francese, albanese e giapponese. Scrive nella sua lingua madre.

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