In Karabakh si inizia nell’88
I motti della perestrojka, la speranza, la guerra. Le difficoltà e i piccoli vantaggi nel creare istituzioni democratiche in un territorio non riconosciuto internazionalmente. Vent’anni di cambiamenti vissuti da Stepanakert
Nella storia recente del Nagorno-Karabakh, il 1988 funge da spartiacque: la storia si divide in due parti, il Prima e il Dopo. Gli abitanti del Karabakh ricordano il "Prima" con fastidio. Gli armeni, che costituivano la netta maggioranza della popolazione della Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan, si sentivano oppressi dalla minoranza azera.
Secondo le battute in voga a quei tempi, era vietato dormire con il viso rivolto verso l’Armenia e chi aveva conseguito gli studi in Armenia era sicuro che non avrebbe mai trovato una porta aperta per fare carriera. Nonostante il fatto che i dirigenti della Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh fossero "armeni". "Armeni", tra virgolette, perché si trattava di emissari di Baku, educati o rieducati in questa città, forgiati doverosamente nelle fucine della scuola di partito locale. E altrettanto doverosamente , con la terminazione del cognome in "-ov" piuttosto che in quella armena "-yan". Si racconta che all’epoca il celebre maresciallo Bagramyan era arrivato da Mosca a Stepanakert. Gli era andata incontro l’élite locale e avevano iniziato a presentarsi: Kevorkov, Aslanov, Samvelov… "Beh? Non siamo ancora arrivati in Karabakh?" si era indignato l’illustre comandante armeno.
In quegli anni studiavo a Stepanakert all’Istituto Pedagogico dedicato ai 60 anni della nascita dell’Azerbaijan Sovietico; studiavo lingua e letteratura armena, ma l’insegnamento di storia armena era proibito. È come formare insegnanti di letteratura italiana proibendo loro di studiare storia italiana.
Eppure, prima della perestrojka di Gorbachev, era così. E all’improvviso, perestrojka, uskorenie, glasnost’…gli abitanti del Karabakh avevano atteso a lungo queste parole, e per primi ci hanno creduto, esprimendo apertamente la proprie aspirazioni e le proprie pene. Miatsum era lo slogan in risposta, ovvero l’unificazione con la madre Armenia. Ma il Cremlino reagì duramente, rendendo evidente che a Mosca non vi erano solo progressisti che usavano il motto "Lenin, partito, Gorbachev" ma anche conservatori, che preferivano la linea "Stalin, Beria, Ligachev".
Perestrojka, uskorenie, glasnost erano slogan molto popolari all’inizio del movimento per la liberazione del Karabakh, ma presto si diffuse la convinzione che erano solo belle parole e nulla più. Era un tentativo di lifting dell’impero. Solo che il sistema, marcio, non lo resse e lo rigettò.
L’URSS crollò, e in quel caos l’Azerbaijan decise di soffocare con l’uso della forza le aspirazioni degli armeni del Karabakh. Questi ultimi, dopo una difficile guerra, proclamarono l’indipendenza e iniziarono ad edificare il proprio stato.
Le prime impressioni per noi armeni del Karabakh furono semplicemente entusiasmanti: un proprio esercito, una propria polizia, i propri simboli – quelli armeni – i propri funzionari al posto di emissari, bandiera, inno e stemma. L’entusiasmo non si smorzò neanche dopo che i diritti dei cittadini iniziarono ad essere calpestati dai novelli funzionari locali, quando a suonartele era la "tua" polizia, quando nei contenziosi giudiziari comunque non ti veniva resa giustizia nei "tuoi" tribunali, quando iniziarono ad apparire i primi palazzi dei "nostri" uomini d’affari.
Un mio conoscente, scherzando, aveva detto: "Il popolo ha ottenuto gli attributi dell’indipendenza: bandiera, stemma, inno; i burocrati, invece, tutti i benefici."
Tuttavia, lasciandosi man mano la guerra alle spalle, gli armeni del Karabakh hanno iniziato a preoccuparsi non solo del pane quotidiano, ma anche delle proprie libertà, e quindi a lottare per ottenerle. Avendo combattuto per i propri diritti contro un avversario esterno, dovevano superare una barriera "psicologica" e "combattere" anche contro le proprie autorità. Non era semplice, ma la lotta cominciò. Con esiti alterni. Nel 2004 l’opposizione vinse alle elezioni municipali, e il leader dell’opposizione divenne sindaco di Stepanakert. Vennero poi due disfatte cocenti, alle parlamentari e alle presidenziali, rispettivamente nel 2005 e nel 2007. Ora la situazione è in stand by, in attesa delle prossime elezioni.
Oggi gli armeni del Karabakh cercano di costruire la propria democrazia in condizioni molto difficili: non sono riconosciuti a livello internazionale, ed incombe sempre la minaccia militare esterna da parte dell’Azerbaijan.
La situazione non è affatto facile, ma, per quanto paradossale possa sembrare, vi è anche qualche vantaggio. Vi è una evidente carenza di nuovi quadri anche a causa dell’isolamento e di risorse scarse, e ad una prima occhiata mancano importanti presupposti per dare vita a partiti, media e ONG indipendenti. Ma, d’altro canto, la società del Karabakh è più compatta e flessibile, data la scarsa popolosità della regione, e, in un certo senso grazie alla guerra, può vantare un precedente di sopravvivenza collettiva, è meno disgregata, più tradizionale, e di conseguenza ha maggiori capacità di autogestione. Non è una società viziata da fondi e sussidi, il ché ha anche aspetti positivi.
Un ulteriore beneficio del mancato riconoscimento può essere individuato nell’assenza della forzata accelerazione del processo di trasformazione democratica, perché tale artificiosità, paradossalmente, può provocare un effetto opposto, conducendo all’impoverimento dei principi democratici. Il Karabakh non è membro del Consiglio d’Europa e delle altre strutture internazionali, di conseguenza non è costretto a forzare gli eventi e non è soggetto ad obblighi indilazionabili. In un certo senso, quindi, pare che da noi tutto segua un percorso più naturale.
È ovvio, la gente si rende conto che in caso di risoluzione della questione del Karabakh ci saranno maggiori possibilità di sviluppo, tuttavia, come dice un mio amico, nel mondo c’è di peggio che un mancato riconoscimento: AIDS, terremoti, il buco dell’ozono e via dicendo. Gli armeni del Karabakh considerano la possibilità di conservare la propria identità nazionale come il risultato più importante. Non è facile, certo, ma se non altro si respira liberamente.
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