Il Tribunale dell’Aja ed i crimini di guerra nella ex Jugoslavia
Il Tribunale dell’Aja, una novità assoluta nel panorama internazionale. Martino Lombezzi ne indaga la genesi e l’operare, con passione e competenza. Pubblichiamo l’introduzione della ricerca ed alleghiamo il pdf del testo integrale
Di Martino Lombezzi
Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per la Ex Jugoslavia, costituito all’inizio del 1993 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come risposta giuridica ai crimini della guerra di Bosnia, rappresenta una novità assoluta nel panorama internazionale.
Sebbene molte volte auspicato, mai era stato creato dall’ONU un organismo sovranazionale incaricato di punire i responsabili delle violenze di un conflitto. Non era nemmeno mai successo che un procuratore si trovasse ad indagare sugli eventi di una guerra nel pieno corso del loro svolgimento. Il Consiglio di Sicurezza nello stabilire questo Tribunale (e quello suo gemello per il Ruanda) ha creato un organismo finora inedito, dotato di un’autorità propria e di funzioni che esso stesso non possiede. Se i suoi poteri sono limitati nello spazio (il territorio della ex Jugoslavia) e nel tempo (persegue i crimini commessi a partire dal ’91), essi scavalcano la giurisdizione nazionale degli stati a cui si rivolgono, e non sono formalmente soggetti al controllo né di altri stati né dello stesso Consiglio di Sicurezza.
Esso è un organo "which operates entirely outside the control of the constituents of the legal system which it addresses" (che opera in piena autonomia dai costituenti il sistema giuridio al quale si riferisce). Se dal punto di vista giuridico ci troviamo quindi di fronte a qualcosa di molto avanzato sulla strada di un nuovo ordinamento internazionale, basato sulla legalità e sulla giustizia, sul rule of law, ripercorrere la storia della creazione del Tribunale dell’Aja porta a valutare questa esperienza in termini più contraddittori.
L’esigenza di riparare in qualche misura ai torti della guerra è stata avvertita fortemente, e lo è tutt’ora, sia dalle società colpite dalla violenza che dall’opinione pubblica internazionale. A guerra in corso, tuttavia, la costituzione di un tribunale appare essere stata più un palliativo, sostituto di un’azione più decisa e potenzialmente rischiosa da parte della comunità internazionale. La scelta di costituire il Tribunale dell’Aja sembra
collocarsi nel solco della modalità ineffettiva e retorica, fondata più su posizioni di principio che sull’analisi degli avvenimenti con cui l’ONU ha affrontato il conflitto bosniaco. Condannando senza saper intervenire, facendo azione di presenza sul campo salvo poi ritrovarsi ostaggio di questa stessa politica al momento di effettuare scelte diverse o cambiamenti di strategia, ergendosi a protezione di una popolazione che non era poi in grado di difendere, l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha raggiunto in quell’occasione uno dei punti più bassi della sua storia.
Nel 1993 il Tribunale dell’Aja "era nato da una reazione di panico dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza"3 (Lawrence Wesclher, "Il diritto internazionale umanitario. Una panoramica", in Roy Gutman, e David Rieff, (a cura di), Crimini di guerra. Quello che tutti dovrebbero sapere, Contrasto- Internazionale, 1999) ; la sensazione è che dietro una decisione di tale portata storica ci sia stato da parte degli stati europei molto più calcolo politico, scarsa lungimiranza e una buona dose di cattiva coscienza, che non l’urgenza morale di fronte alle violenze in corso. Ciò nonostante, l’istituzione in sé si è emancipata dall’essere uno spauracchio agitato da mediatori impotenti. Nel corso degli anni si è sviluppata, fino ad arrivare ad essere pienamente operativa nel ’95-’96. E’ diventata un attore politico presente sul campo e percepito come tale quando con l’incriminazione di Karadzic e Mladic li ha resi inaccettabili come interlocutori ai colloqui di pace, quando le truppe SFOR hanno portato a termine i primi arresti di accusati in Bosnia, ma soprattutto con la crisi del Kosovo: allora le sue azioni sono state proiettate sulla scena internazionale, diventando determinanti per il corso degli eventi. Non c’è più stato in seguito un momento di ribalta politica e mediatica di tale rilevanza come quando nel maggio ’99, nel mezzo dei bombardamenti NATO, Milosevic è stato accusato di crimini contro l’umanità.
Adesso che anche sull’arresto del leader serbo e sul suo trasferimento all’Aja si sono spenti i riflettori, il Tribunale continua il suo lavoro in silenzio. Esso da manipolo di giudici senza stipendio è oggi diventato un gigante, con un centinaio di atti d’accusa pubblici e almeno altrettanti segreti, più di mille impiegati e un centinaio di migliaia di dollari all’anno di bilancio.
Pensando a questa istituzione, si tendono a prendere in considerazione più le altisonanti ed astratte norme giuridiche del diritto umanitario, la prospettiva di una Corte Penale Internazionale, il mito di un mondo governato in base a principi di giustizia, che non i crimini commessi pochi anni or sono in un vicino angolo del nostro continente. Si fatica ad accostare l’atmosfera sonnacchiosa di un tranquillo borgo olandese con le valli aspre e boscose della Bosnia, o con le alte montagne che circondano il Kosovo. Si immagina il Tribunale dell’Aja come un’entità vagamente asettica, un organismo che incarna una giustizia assoluta, perdendo così di vista il suo
concreto oggetto di indagine. Nelle aule del Tribunale sembrano incontrarsi due mondi lontani: la raffinata cultura giuridica della civile Europa deve fare i conti con la barbarie balcanica. Le sue categorie interpretative devono dare un senso all’irrazionalità della violenza interetnica. Suggestionati da questa visione, ci si dimentica che l’Aja e Sarajevo, Belgrado, Pristina sono sullo stesso continente, distanti poche centinaia di chilometri. Si fatica ad accettare che la pulizia etnica nei Balcani è frutto di idee politiche moderne tanto quanto i principi alla base della giustizia internazionale. Dal
lavoro dei procuratori invece emerge proprio la modernità di quanto accaduto oltre Adriatico, e la razionalità con cui gli obbiettivi politici dei nazionalisti sono stati perseguiti.
Percorrere la storia ancora in divenire del Tribunale dell’Aja significa in primo
luogo confrontarsi con atrocità che in Europa non accadevano da cinquant’anni. Ascoltarne il racconto minuzioso, attraverso le parole delle vittime e le confessioni degli aguzzini, conoscere la descrizione dei luoghi dove si è imprigionato, torturato, stuprato ed ucciso per quattro anni, guardare dentro le innumerevoli fosse comuni sparse sul territorio della ex Jugoslavia. Significa capire da dove arrivavano gli ordini e quali percorsi seguivano, chi li eseguiva e chi li emanava, come le decisioni venivano prese, a che punto è il confine tra omissione e intenzionalità. Vuol dire anche indagare le responsabilità politiche che stanno dietro alla scelta della violenza come mezzo di risoluzione della crisi, al perseguimento dell’omogeneizzazione etnica come progetto politico, alla guerra come strumento di mantenimento e riorganizzazione del potere.
In questo senso il Tribunale in quanto tale è preso in considerazione come istituzione burocratica, soggetto attivo nel raccogliere enormi quantità di documenti e produrre atti nei quali si ricostruiscono ed analizzano molti episodi delle guerre che hanno accompagnato la disgregazione della Jugoslavia. Non si può sottovalutare l’importanza di questo materiale come fonte di studi. Esso è raccolto col rigore proprio del referto giuridico, e costituisce un archivio di grande importanza. E’ possibile quindi analizzare il lavoro del Tribunale attraverso il suo operato documentario, per studiare le modalità con le quali la violenza è stata sviluppata nel corso della guerra. Di essa vengono messi sotto il microscopio singoli frammenti, che possono però aiutare a comprendere meglio il fenomeno generale.
Accanto a questo, un altro percorso è possibile. Il Tribunale può infatti essere l’oggetto di uno studio volto alla ricostruzione del suo sviluppo e del suo operato. In questo caso sotto esame è un’istituzione internazionale, inedita e giovane; la sua genesi attraverso le dinamiche tortuose e spesso contraddittorie della diplomazia, i primi difficili passi nel ’93-’94, il suo rapporto con la politica e con l’opinione pubblica, la parte avuta dai diversi procuratori e dai giudici nel metterla in piedi e farla funzionare, l’impatto del suo operato nella regione e infine le critiche che gli vengono mosse da più
parti.
Nello studio del Tribunale dell’Aja convergono quindi tematiche e ambiti di studi abbastanza differenti. Esso implica tenere in considerazione in parallelo lo sviluppo della situazione sul terreno, le principali iniziative diplomatiche dei vari attori internazionali e i loro differenti approcci alla crisi jugoslava, e il processo di creazione del Tribunale. Porre in relazione questi tre livelli è utile, anche se si mettono in gioco un numero elevato di fattori. All’inizio l’impressione è che la sua storia corra parallela a quella della guerra in Jugoslavia, senza incrociarla. Il Tribunale si limita a registrare ciò che accade, ma non interagisce con gli eventi e, soprattutto, non ne modifica il corso.
Dare di essi una sommaria narrazione può però rendere almeno in parte l’idea della concomitanza dei due processi, quello della disgregazione di uno stato attraverso la guerra e quello della formazione dell’istituzione che questa guerra è chiamata a giudicare. Il conflitto ha suoi sviluppi interni e altri invece più legati all’azione diplomatica: questa a sua volta si muove in rapporto agli accadimenti sul terreno, ma anche in base a considerazioni legate a equilibri di potere tra gli stati e ad esigenze di politica interna. A un contesto politico così fluido ed eterogeneo, questa giustizia, che si forma strada facendo, oppone la forza della legge, per sua natura istanza rigida e non suscettibile di accomodamenti e correzioni di tiro. La contraddizione tra politica e giustizia costituisce la chiave di lettura più appropriata per interpretare la storia del Tribunale dell’Aja.
La scelta di questo argomento nasce dalla curiosità verso un’istituzione che spesso si sente nominare ma della quale in realtà si sa poco. Deriva inoltre
dal riconoscimento di una situazione particolare, inedita: un tribunale che giudica una guerra mentre essa è in corso. Studiare questo tribunale oggi, con una prospettiva storica, presenta alcuni problemi. In primo luogo esso non ha ancora esaurito il suo lavoro, che anzi è in pieno corso. All’Aja ogni mattina, all’apertura delle aule, si traccia il resoconto della morte violenta di un paese su degli atti giudiziari, sia attraverso le parole di coloro che l’hanno
voluta sia di chi l’ha soltanto subita sulla propria pelle. Nuovi tasselli si aggiungono così alla storia dei Balcani negli ultimi dieci anni. Tutti i giorni ci sono sviluppi nei processi e nell’azione investigativa, mentre la politica degli stati della regione è molto spesso influenzata dalle richieste che arrivano dal Tribunale, e scossa dalle sue sentenze.
La difficoltà più evidente nell’affrontare questo argomento è quindi il suo essere materia viva: le stesse guerre che il Tribunale deve giudicare si sono da poco concluse, e gli enormi problemi che hanno sollevato sono sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di passare un weekend in questo angolo di Europa. Bastano poche ore di macchina per vedere i segni materiali della violenta dissoluzione della Jugoslavia, e poche parole per percepire nell’animo delle persone lo sconvolgimento portato dalla guerra. Sono avvenimenti che sicuramente chiunque fra noi ricorda direttamente, perlomeno attraverso le immagini passate per anni in televisione. La recente guerra in Kosovo è stata poi occasione di mobilitazione politica e attivismo umanitario per molti giovani, che attraverso essa hanno scoperto la realtà affascinante e complessa che sta oltre l’Adriatico.
Sulla guerra in Croazia e Bosnia è ormai possibile leggere un buon numero di testi autorevoli e documentati, che contribuiscono a formare una visione abbastanza chiara dei fatti e fanno luce su quali siano stati i passaggi cruciali. Non si può dire lo stesso del conflitto in Kosovo: su di esso, a causa della minor distanza che ci separa da quegli avvenimenti, esistono dati meno certi, e il coinvolgimento diretto dell’occidente e del nostro paese in particolare fa sì che lo stesso approccio all’argomento risenta dell’emozione ancora viva di quei giorni. Nell’osservare lo sviluppo di un organismo come il Tribunale dell’Aja e dell’effetto che esso ha avuto e ha tutt’oggi sui Balcani ci troviamo quindi di fronte a una storia quanto mai in divenire, che sconfina inevitabilmente nell’attualità quotidiana in cui noi stessi siamo immersi. Il lavoro di analisi e valutazione di qualcosa di questo genere, un magma ancora fluido, avrà necessariamente un carattere di provvisorietà.
A questo si aggiunge il problema delle fonti. Dice Hobsbawm che "nei nostri tempi, illimitatamente burocratizzati, documentati e illimitatamente indagatori, il problema fondamentale è quello di una quantità ingovernabile di fonti primarie, non di una loro penuria". Con lo sviluppo di Internet, il problema si è ingigantito ancor di più. Informazioni di ogni tipo sono diventate sicuramente più accessibili, ma nello stesso tempo sembrano essere infinite, si fatica a vagliarle tutte e a selezionare quelle più rilevanti e significative. Il vantaggio maggiore per lo studio del Tribunale è proprio che tutto il materiale da esso prodotto è disponibile su Internet. Uno dei suoi scopi è rendere accessibile a tutti il suo lavoro, permettere a quante più persone, nei Balcani e nel mondo, di assistere in diretta alla sua ricerca di verità. Il Tribunale rende pubblico attraverso il suo sito ogni aspetto dei procedimenti penali, nonché tutti i documenti ufficiali attraverso i quali esso "si racconta".
Si possono leggere gli atti d’accusa agli imputati, le sentenze di condanna, rapporti sulle attività dell’ufficio del procuratore, brevi resoconti dei processi ma anche le loro trascrizioni parola per parola. Sono poi disponibili tutti i rapporti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, resoconti in cui il Tribunale, di anno in anno e in maniera dettagliata, descrive il proprio lavoro e i progressi ottenuti, sia nel campo investigativo che in quello processuale. La sua opera rappresenta sotto questo punto di vista uno sforzo di memoria senza precedenti: viene creato un enorme archivio delle atrocità che hanno sconvolto i Balcani per dieci anni, in cui spesso sono i protagonisti che parlano, e che ogni giorno cresce, aspettando solo di essere studiato. Ovviamente in questo caso è l’istituzione che parla di sé: bisogna quindi, se si indaga sull’istituzione stessa, non accontentarsi di sentire solo la sua voce, ma cercare più a fondo i retroscena o altri punti di vista sul suo operato.
In questo senso esiste sul Tribunale una grande produzione di testi giuridici, che trattano sia questioni tecniche più specifiche, che argomenti
legali di più ampia portata, ma al contrario pochi testi, soprattutto in italiano, che permettano di indagare il lato "politico" di questa istituzione. Bisogna quindi fare riferimento a fonti giornalistiche, numerose ma inevitabilmente più frammentarie e difficili da comporre in un quadro più ampio. E’ appunto su Internet che articoli e commenti di ogni tipo sono presenti in grande numero. Di notevole importanza è il lavoro svolto dall’"Institute for War and Peace Reporting" di Londra, uno dei più autorevoli media elettronici indipendenti. Esso produce fin dal ’96 un approfondito servizio informazioni settimanale di aggiornamento sul Tribunale, in inglese, serbocroato e albanese, attento sia agli aspetti processuali che alle ripercussioni delle sue attività nei paesi balcanici. Altri siti hanno eccellenti archivi di articoli e reportages sull’area, sia redatti da propri corrispondenti che tradotti da quotidiani e riviste locali.
Il presente lavoro è suddiviso in cinque capitoli. Nel primo si ricostruisce brevemente la storia del Tribunale di Norimberga, tracciando un paragone tra questo e quello dell’Aja per cercare di capire in che misura e sotto quali aspetti le due istituzioni si somiglino o invece siano due esperienze differenti. Si tratteggia anche il giudizio odierno su quel tribunale, giudizio che non è univoco e tocca temi in parte comuni alle critiche mosse oggi al Tribunale dell’Aja.
Il secondo capitolo è dedicato alla ricostruzione degli eventi che hanno portato i grandi stati occidentali all’idea di costituire un tribunale come risposta alla prima guerra sul continente europeo dopo cinquant’anni. Esso racconta in parallelo i primi esitanti passi di questo organismo, i cui rappresentanti si trovano a dover intraprendere un lavoro pionieristico di progettazione istituzionale e giuridica, e i sanguinosi eventi che si susseguono nel frattempo sul terreno in Bosnia, sui quali i giudici saranno chiamati a pronunciarsi. Vengono sottolineate le contraddizioni che fin dall’inizio rendono il suo stabilirsi difficile e travagliato, stretto tra due istanze che in quel momento sono incompatibili: l’esigenza di giustizia e gli sforzi per arrivare alla pace.
Oggetto del terzo capitolo è la situazione della Bosnia Erzegovina dopo gli
accordi di Dayton e il ruolo che in essa ha il lavoro del Tribunale dell’Aja. Alla
sostanziale incapacità di trovare uno spazio a conflitto in corso, segue dopo la guerra una maggiore attività nel perseguire i criminali. Nonostante la sua operatività sia aumentata, i risultati del Tribunale sono viziati dall’impossibilità politica di perseguire i maggiori responsabili dei crimini, che sono al tempo stesso partner indispensabili per il mantenimento della pace. All’inizio i giudici ripongono molta fiducia nella presenza delle truppe multinazionali, ritenendo di avere finalmente a disposizione una forza di
polizia giudiziaria che permetta di svolgere i mandati di cattura. Il loro ottimismo viene presto frustrato dalla difficoltà di un’azione decisa nei confronti dei responsabili di crimini, che conservano intatto il loro potere in uno stato fondato sulla pulizia etnica. Si prende poi in considerazione l’atteggiamento di Serbia e Croazia nei confronti del Tribunale, mostrando come esso sia un fattore importante nella politica interna di questi
stati, col quale Milosevic e Tudjman devono fare i conti. Da un’analisi di come le due leadership nazionaliste si rapportano alle richieste del procuratore emerge la loro difficoltà nel sostenere una politica di collaborazione, necessaria per potersi avvicinare ai privilegi economici dell’Europa, senza intaccare nel contempo la propria base di consenso interna.
Il deterioramento della situazione in Kosovo e l’internazionalizzazione della
questione albanese all’interno della Federazione Yugoslava sono trattati in maniera sintetica all’inizio del quarto capitolo. L’intervento dell’Alleanza Atlantica e le sue modalità hanno sollevato un dibattito molto acceso su questioni sia giuridiche che etiche, al quale si accenna brevemente. Lo scoppio della guerra corrisponde a una terza fase nella storia del Tribunale, in cui esso diventa a tutti gli effetti un attore politico di primo piano. Prima il coinvolgimento diretto del procuratore sul campo, poi la sua incriminazione a Milosevic hanno una ricaduta immediata sia sotto il profilo mediatico
che nelle dinamiche politiche. L’atto d’accusa a Milosevic segna una svolta nella conduzione della guerra e contribuisce a riorientarne gli obbiettivi, e ha quindi un notevole valore strategico. Ci si trova qui di fronte in maniera evidente alla tensione tra le istanze della politica e l’esigenza di giustizia. Questi due elementi, la cui convivenza sembrava impossibile nella sistemazione della Bosnia di Dayton, convergono in questo momento in quello che sembra essere l’atto finale di una tragedia, a lungo rimandato.
Da questa convergenza emerge anche quale sia il reale spazio di manovra del Tribunale.
Il quinto capitolo è dedicato alla pulizia etnica, parola che riassume in sè tutti i crimini commessi durante le guerre jugoslave ed essa stessa caratteristica principale di queste guerre. Nella prima parte del capitolo si analizza questo concetto, identificando la sua rilevanza all’interno della storia del ventesimo secolo. Viene sottolineato il suo rapporto con quello di genocidio, anche in relazione alle interpretazioni del Tribunale.
Si passa poi ai due atti d’accusa a Milosevic, quello riguardante la Croazia e la Bosnia e quello riguardante il Kosovo. Viene analizzato il concetto di impresa criminale (joint criminal enterprise), usato dai procuratori per dimostrare la colpevolezza dell’ex leader serbo. Il contenuto dei due documenti viene riassunto, sottolineando la differenze nella strategia accusatoria adottata dall’accusa nei due casi. Si evidenzia come da essi emerga un’interpretazione particolare degli eventi, e quali affinità questa può avere con quella storica. La lettura di questi documenti, in particolare di quello riguardante Croazia e Bosnia, permette di comprendere in che modo Milosevic ha usato le strutture dello stato, serbo e federale, per un’impresa criminale.
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