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Il Tribunale dell’Aja e la riconciliazione nei Balcani – II

Più di dieci anni dopo le guerre in Bosnia e in Croazia, IWPR si chiede in questo lungo dossier se la giustizia dispensata dall’Aja possa aiutare le comunità divise dei Balcani a procedere sulla strada della riconciliazione. La seconda di tre parti

17/08/2006, Redazione -

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A cura dello staff di IWPR* all’Aja, Sarajevo, Ahmici e Londra, 21 luglio 2006, International War and Peace Report, IWPR (titolo originale: "Special Report: The Hague Tribunal and Balkan Reconciliation"). Traduzione di Carlo Dall’Asta per Osservatorio sui Balcani.

Giustizia, verità e riconciliazione

Comunque si presenti la situazione attuale, e in qualsiasi accezione noi usiamo il termine "riconciliazione", sono in pochi a credere che essa possa essere efficacemente raggiunta nel lungo termine ignorando gli errori del passato. Ed è ampiamente condivisa l’idea che le corti penali come il TPI hanno un ruolo importante da giocare.

Questo ruolo include l’essere di aiuto nel consolidare la stabilità e nel creare un ambiente politico sano, in un’area in cui il conflitto ha disgregato queste cose. "È molto difficile costruire una democrazia che rispetti la legalità quando persone che hanno commesso crimini di massa non vengono punite, e gli si permette anzi di mostrarsi alla luce del sole", ha spiegato Reed Brody, avvocato consulente di Human Rights Watch.

Peraltro nel suo discorso del 2001 lo stesso giudice Jorda sostenne che il TPI poteva essere d’aiuto, se riusciva a "neutralizzare" i principali criminali di guerra e ad impedirgli di fare altri danni.

Elaborando il discorso, suggerì anche che il Tibunale poteva trasformare le responsabilità per i crimini di guerra in responsabilità "personali", evitando la stigmatizzazione di interi gruppi etnici, nel cui nome quei crimini erano stati commessi. E poteva tentare di alleviare il dolore delle vittime dando loro una collocazione "istituzionale, solenne, ma pubblica".

Un altro compito a cui il giudice Jorda fece riferimento, e che secondo molti esperti è centrale per il processo di riconciliazione, è quello di stabilire un’accurata ricostruzione storica degli eventi che hanno portato alla disgregazione un’intera società.

Naturalmente la questione della verità in questo contesto è complessa, e sarebbe ingenuo aspettarsi che tutte le parti coinvolte nei conflitti nei Balcani arrivino rapidamente ad un consenso su cosa esattamente avvenne. "Quando ci si trova in una situazione di guerra civile, in particolare se c’è una lunga storia alle spalle… ogni comunità sente di essere vittima, e diventa sempre più impossibile stabilire una verità condivisa", ha dichiarato Bloomfield a IWPR.

Ma Pierre Hazan, docente universitario all’Istituto per la Pace degli Stati Uniti, nonché autore di "Giustizia in tempo di guerra: la vera storia dietro il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia", suggerisce che è ancora possibile ed auspicabile almeno "restringere il campo delle menzogne che è possibile dire".

"Se si riesce a far questo, forse si avranno differenti resoconti che possono convivere pacificamente" ha detto Hazan a IWPR. "Arrivare a questo punto è già qualcosa di significativo, anche prima di raggiungere nel lungo termine un qualche tipo di storia condivisa".

Alcuni ritengono che i tribunali penali soffrono di gravi limitazioni quando si tratta di scoprire la verità sui conflitti, il che rende più adatte a questo scopo istituzioni come le commissioni sulla verità. Le indagini e la valutazione delle prove che avvengono sotto il controllo di una corte di giustizia, per esempio, si devono incentrare sulle accuse formulate in atti d’accusa strettamente separati, riguardanti singoli individui.

Helena Cobban, commentatrice dell’Osservatorio scientifico cristiano che si è spesso occupata di argomenti riguardanti la giustizia transizionale, sostiene che il processo penale, inoltre, tende naturalmente a "spingere le persone ad arroccarsi in difesa", ponendole in una situazione in cui rivelare o confermare la verità potrebbe risolversi per loro in una punizione.

Allo stesso tempo però le corti hanno chiari, peculiari vantaggi quando si tratta di scoprire la verità sui conflitti ed i crimini di guerra.

I giudizi penali che provengono da un’istituzione autorevole, per esempio, si basano su prove vagliate attentamente e riguardano fatti la cui veridicità è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio.

E, se da un lato le corti tendono a focalizzare i loro sforzi sui presunti autori dei crimini, esse – fa notare Hazan – evitano il problema con cui si sono scontrate molte commissioni sulla verità, che "hanno raccolto molti dati sulle violenze e sulle vittime, senza però fare un adeguato lavoro per scoprire chi fossero i carnefici".

Infine, qualsiasi debolezza intrinseca il TPI possa avere rispetto al poter fare una mappatura storica delle guerre nei Balcani, resta il fatto che per molto tempo esso è stato una delle pochissime istituzioni a condurre un simile lavoro su così vasta scala.

In Bosnia, per esempio, sono state istituite commissioni locali per indagare su cosa successe in famigerate zone di guerra come Srebrenica, e ci si è mossi per creare progetti simili da altre parti. Ma finora le iniziative a livello statale per istituire una commissione sulla verità non hanno portato a nulla.

Inevitabili limitazioni alle potenzialità del Tribunale

La capacità del Tribunale di condurre il lavoro di accusare, giudicare e punire gli individui – e, possibilmente, di contribuire in questo modo alla riconciliazione – è naturalmente limitata alle risorse di cui dispone.

Da che la corte fu istituita, nel 1993, i suoi procuratori hanno incriminato più di 160 individui. Ma coll’avvicinarsi del termine del suo mandato, non saranno emessi ulteriori atti d’accusa per crimini di guerra. E nella sola Bosnia, secondo i procuratori locali ci sono atti giudiziari riguardanti molte migliaia di sospetti criminali di guerra.

Ne è un esempio il caso del massacro di Srebrenica, il peggiore episodio singolo di atrocità del conflitto in Bosnia, nel corso del quale l’invasore esercito serbo trucidò nella cittadina migliaia di uomini e ragazzi musulmani, nell’unico caso ufficialmente riconosciuto di "genocidio" sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale. Fino ad ora il TPI ha processato e condannato solo sei persone per la loro partecipazione a questa atrocità. Questo mese inizierà formalmente un ulteriore procedimento penale contro un settimo uomo, anch’esso accusato di essere coinvolto. Si tratta del più grande numero di processi interrelati mai visto al Tribunale.

Questo moltiplicarsi di processi contrasta nettamente con la situazione che si vive in Bosnia. Nell’ottobre 2004 le autorità della Republika Srpska – pressate dalla comunità internazionale – hanno pubblicato un documento in cui veniva ammesso che i serbi si erano resi colpevoli dell’uccisione dei prigionieri di Srebrenica. Nei media locali è stato largamente riportato che esisterebbe una versione completa dei questo documento, contenente i nomi di oltre 20.000 persone direttamente o indirettamente implicate nelle atrocità.

Allo stesso tempo la camera della Corte di Stato bosniaca specializzata in crimini di guerra, che è aperta solo da un breve periodo, è già ad un buon punto col processo a 11 uomini incriminati in relazione al massacro – quasi il doppio del numero di quelli che sono stati condannati dal TPI in tutti gli anni della sua esistenza.

Lo scopo dichiarato del tribunale dell’Aja è sempre stato quello di concentrare le sue limitate risorse nel processare i più importanti tra i responsabili dei crimini compiuti durante le guerre nei Balcani, e quelli implicati nelle atrocità più gravi. Ma questa, naturalmente, è solo la punta dell’iceberg.

"Tutti parlano di Karadzic e di Mladic," ha detto Hatidza Mehmedovic, una residente musulmana di Srebrenica. "Ma l’intera valle della Drina è piena di "karadzic" e "mladic" tuttora in libertà, che non sono neppure mai stati incriminati per i crimini che hanno commesso".

Non sempre sono del resto i principali responsabili dei crimini ad interessare principalmente quelli che durante i conflitti ne sono stati vittime. "Per me, chi ha organizzato questi crimini è molto meno responsabile di chi li ha eseguiti materialmente", ha detto Bilic (un sopravvissuto all’attacco di Ahmici, NdT) a IWPR. "Si possono dare tutti gli ordini che si vuole, ma è inutile se non c’è nessuno disposto ad eseguirli".

Su questo fronte, la soluzione proposta è che le corti locali raccolgano il testimone e coninuino il lavoro da dove il TPI lo interromperà. A questo fine il TPI è tra gli attori internazionali impegnati nel lavoro di formazione delle competenze dei sistemi giudiziari nazionali nella regione, che include il supporto e la stretta cooperazione con la camera per i crimini di guerra della Corte di Stato bosniaca.

Confessioni

Nonostante le risorse limitate del tribunale, un aspetto dell’attività dell’Aja che molti speravano potesse essere un punto di forza nel favorire la riconciliazione nei Balcani è stata la decisione di un certo numero di ex ufficiali e soldati di ammettere il loro coinvolgimento nelle atrocità.

Inevitabilmente, però, la realtà di queste confessioni è complessa.

Molti hanno in un primo momento visto come un punto di svolta il momento in cui Biljana Plavsic, un’importante esponente politica serba durante la guerra in Bosnia, nel 2002 si dichiarò colpevole della persecuzione dei non serbi. In cambio, i procuratori lasciarono cadere altre accuse a suo carico, inclusa quella di genocidio.

Un rapporto del Centro internazionale per la giustizia transizionale, ICTJ, sosteneva nell’ottobre 2004 che "le sue espressioni di rimorso durante e dopo l’udienza, unitamente alla sua decisione di non fare appello contro la condanna ad 11 anni, possono aver contribuito al processo di giustizia e riconciliazione".

Ma gli autori del rapporto notarono anche che la riluttanza della Plavsic a fornire informazioni dettagliate, o a testimoniare sul ruolo di altri importanti ufficiali serbi "limitava il valore legale e morale del suo gesto". Quando la Plavsic ha fatto, nel luglio di quest’anno, la sua prima riapparizione all’Aja per testimoniare al processo del suo ex collega politico Momcilo Krajisnik, ha chiarito abbondantemente che si trovava lì solo dietro coercizione.

"Dopo aver sentito la confessione di Biljana Plavsic, io dissi che speravo che fosse sincera. Ma, come è risultato in seguito evidente, non lo era", ha detto Tokaca, uno degli autori del rapporto dell’ICTJ, a IWPR. Facendo notare che la sua opinione in parte è stata modificata dai contenuti di un libro che la Plavsic ha pubblicato dopo essere stata condannata, ha aggiunto: "Ora mi sembra che lei lo fece solo per ottenere una condanna meno dura".

"Io non penso che abbia dato prova di un vero rimorso", concorda Edina Becirevic, ricercatrice alla facoltà di Scienze giuridiche penali a Sarajevo, "e l’intero discorso in cui ammetteva la sua colpa era rivolto ai serbi bosniaci".

"A me sembrò che il suo intento principale fosse quello di alleviare il fardello della colpa collettiva. A causa di ciò, le vittime pensarono che si trattava solo di una farsa, e non ebbe un vero effetto sul processo di riconciliazione".

L’anno scorso, quando l’ex combattente croato Bralo ammise di aver commesso crimini che comprendevano l’avere ucciso, l’aver bruciato case e violentato una donna durante la guerra in Bosnia, a molti sembrò ancora una volta che un’importante pietra miliare fosse stata superata.

I procuratori dissero di essere convinti che Bralo provava un rimorso sincero. E lo stesso imputato disse: "Io incoraggio chiunque ne sia in grado a farsi avanti, parlare coi suoi vicini, parlare in tribunale e iniziare a fare la pace".

Becirevic ha detto a IWPR che la dichiarazione di colpevolezza di Bralo "sembrava molto più onesta".

Eppure sarebbe troppo semplice aspettarsi che una sia pure sincera pubblica ammenda possa ottenere un perdono immediato da parte di chi sopravvisse all’attacco di Ahmici.

"Ogni volta che qualcuno si dichiara colpevole, per me è molto importante", ha detto Bilic, che a quanto sostiene conosceva personalmente Bralo, prima della guerra. "Ma il fatto che egli abbia confessato i crimini non vuole dire che debba essere assolto dalle sue responsabilità. Forse ha confessato gli omicidi che ha commesso per mettersi a posto la coscienza, ma deve comunque affrontare le conseguenze delle sue azioni".

La pena è proporzionata al crimine?

Uno dei punti più controversi riguardo alle dichiarazioni di colpevolezza al TPI è la questione della gravità delle condanne comminate a chi confessa i propri crimini.

Alla richiesta se la condanna a 20 anni ricevuta da Bralo gli sembrava adeguata, Bilic è stato inflessibile. "No", ha detto. "Per crimini come l’uccisione di civili innocenti, incluse donne e bambini, qualsiasi condanna che non sia l’ergastolo è troppo lieve. Quando si uccide qualcuno in un incidente automobilistico si prendono dai cinque ai sette anni di prigione. Come potrebbe essere abbastanza 20 anni per l’omicidio deliberato di così tanti civili?"

Tokaca ammette che le dichiarazioni di colpevolezza del tipo di quelle rese da Bralo e dalla Plavsic – in cui l’accusato ammette alcuni crimini in cambio del ritiro di altri capi d’imputazione, o nella speranza di condanne più lievi – sono un "problema". "Le ammissioni di colpa sono importanti, ma non sono così importanti per il processo di riconciliazione quanto si potrebbe pensare", ha detto. "Quello che davvero ferisce le vittime più d’ogni altra cosa è quando i criminali ottengono condanne molto lievi dopo aver confessato. Per le vittime questo è quasi un insulto".

Cita come esempio il caso di Drazen Erdemovic, che ottenne una condanna a cinque anni per aver fucilato i prigionieri durante il massacro di Srebrenica.

Erdemovic, che al tempo delle atrocità era molto giovane, di fronte alla corte crollò e disse ai giudici che egli stesso sarebbe stato ucciso se non avesse preso parte alle esecuzioni. Ma Bilic, da parte sua, descrive la condanna ricevuta da Erdemovic come "oltraggiosa". "Conosco un uomo che lavorava a una locale stazione petrolifera e fu condannato a 11 anni per aver sparato ad un intruso che aveva cercato di derubarlo mentre era al lavoro", dice. "Dove sta la giustizia?"

In effetti, la politica del TPI riguardo alle condanne è uno dei principali motivi di discussione in generale, non solo in quelle situazioni specifiche in cui vi sono ammissioni di colpa.

"Ci sono stati troppi casi in cui i giudici del TPI hanno emesso condanne molto lievi", ha detto la Becirevic a IWPR, dando voce ad un sentimento già sentito esprimere da molte parti. Ha aggiunto che dal suo punto di vista, le sembrava che lo avessero fatto "per risparmiare tempo, soldi e risorse".

"Secondo me", ha detto, "è in questo che il Tribunale ha fallito maggiormente."

(Fine della seconda parte – continua)

*Questo dossier è frutto del lavoro di ricerca e compilazione di Merdijana Sadovic, corrispondente di IWPR da Sarajevo ed Ahmici; Michael Farquhar, giornalista di IWPR a Londra; Caroline Tosh, collaboratore di IWPR da Londra; e Janet Anderson, direttrice del Programma di giustizia internazionale di IWPR all’Aja.

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