Il tempo dei kombinat
Dal socialismo alla guerra, dalla guerra al mercato. La transizione in Bosnia Erzegovina nella storia di un gigantesco kombinat industriale, la Krivaja di Zavidovići. I vincitori e i perdenti delle privatizzazioni, 15 anni dopo
Tra Žepće e Maglaj la strada e la ferrovia si dividono. La statale che da Sarajevo porta a Slavonski Brod entra in un tunnel, e corre verso nord. La ferrovia invece segue il grande fiume, la Bosna, e prosegue un po’ più a est verso Zavidovići, la “città del legno”. Alla fine dell’ottocento qui, nella Bosnia centrale, gli Asburgo avviarono lo sfruttamento delle enormi foreste del bacino della Krivaja. Eissler, Ortlieb, Majer, ma anche gli italiani Morpurgo e Parente cominciarono a tagliare tronchi d’albero per le necessità dell’Impero. Nacque una prima segheria, la “Krivaja”, cresciuta fino a diventare un gigantesco kombinat nel periodo jugoslavo. Negli anni ’80 aveva più di 12.000 tra operai e impiegati, con succursali negli Stati Uniti, Germania, Francia e Algeria. Produceva mobili, utensili, progettava opere ingegneristiche, aveva una propria linea commerciale, di trasporti e ristorazione. I figli dei suoi lavoratori andavano alle colonie Krivaja a Makarska, in Croazia. Nel ’76, dopo il terremoto in Italia, mandò in Friuli le sue casette di legno prefabbricate, ancora oggi uno dei fiori all’occhiello dell’azienda. Ha resistito anche alle guerre degli anni ’90, che avevano come obiettivo le case, non le fabbriche. Non è mai stata bombardata, tranne la Mobili 4, uno dei suoi molti reparti. Gli operai hanno continuato a lavorare, anche con i cecchini. Quello a cui la Krivaja non ha resistito è stato il dopoguerra.
Un lungo processo di degrado
Per 15 anni il kombinat ha continuato a vivere come un’impresa socialista, senza il socialismo. Il problema principale, mi spiega Džeraldina Miličević, assessore all’Economia del Comune di Zavidovići, è che “nessuno sapeva come privatizzarla. Secondo alcuni bisognava dividere la fabbrica in unità tecnologiche, altri volevano cercare di venderla in un blocco unico. Poi c’era il problema delle alternative. Noi non avevamo alcuna altra esperienza lavorativa, non abbiamo fatto altro che lavorare in Krivaja. Per generazioni sapevi che, una volta terminati gli studi, saresti stato assunto dalla Krivaja. Altri comuni di questa regione, come Tešanj, Žepče o Živinice, hanno saputo adattarsi più rapidamente alla nuova situazione. Non avevano grande industria, questa è stata la loro fortuna dopo la guerra. Noi invece avevamo la Krivaja, che era la fonte del benessere della nostra comunità. Poi è diventata la nostra maledizione.”
Mentre si cercavano inutilmente compratori, il valore della Krivaja continuava a scendere, e i debiti a salire. Dopo la vendita di alcune unità più piccole, nel marzo 2008 l’Agenzia per la Privatizzazione della Federazione – che nel frattempo era subentrata nella proprietà al cantone di Zenica-Doboj – organizzò infine una gara d’appalto internazionale. Si presentò un solo compratore: la ditta Ferimpex, proprio di Zavidovići, dei fratelli Ismet, Ferid e Ibrahim Mujanović. In assenza di concorrenti, si aggiudicò l’appalto. Il governo obbligò la Ferimpex a mantenere al lavoro tutti gli operai del kombinat. I lavoratori Krivaja però, erano drasticamente diminuiti rispetto ai 12.000 di prima della guerra. La stragrande maggioranza erano emigrati, morti, o avevano raggiunto i termini della pensione: “Non abbiamo dovuto fare una grande ristrutturazione, la ristrutturazione è stata la guerra”, mi spiega Ismet Mujanović, 58 anni, mentre mi accoglie nell’antica villa padronale della fabbrica, uno dei simboli di Zavidovići. “Quando abbiamo acquisito la fabbrica, i lavoratori rimasti erano circa 2.000. 1.634 hanno deciso di restare con noi, e abbiamo assunto obblighi per altri 300. 172, invece, hanno deciso di non entrare nella nuova gestione.” Il nuovo proprietario non rivela le cifre dell’attuale fatturato della Krivaja, né quanto la Ferimpex ha pagato per comprarla. Mi conferma, però, di essere riuscito a riportare alla Krivaja alcuni tra i maggiori compratori europei. Incluso il colosso svedese della distribuzione, Ikea: “Due anni fa è venuto in visita qui, a Zavidovići, l’amministratore delegato dell’Ikea. Abbiamo avviato un rapporto di partenariato per la produzione di elementi di mobili che, secondo il nostro piano, arriverà a produrre un valore di 40 milioni di euro all’anno entro il quinto anno. Ci interessano però anche altri mercati, a partire da quello statunitense.”
Krivaja 1884
Dopo aver vinto la gara d’appalto, nell’agosto del 2008 la Ferimpex ha stretto un accordo di joint venture con il governo della Federazione, creando una nuova società, la “Krivaja 1884”. La privatizzazione è dunque stata perfezionata solo in parte, e lo Stato è ancora responsabile di una parte della fabbrica, e dei suoi debiti. A Sarajevo Senad Makić, dell’Agenzia Federale per la Privatizzazione, mi illustra i termini dell’accordo: “Il capitale della nuova compagnia è stato conferito per il 30% dalla Federazione, per un valore di 4,5 milioni di marchi convertibili (km, 1 km = 0,51 €). Ferimpex ha invece pagato 10 milioni di km per acquisirne il restante 70%. Inoltre ha assunto debiti pregressi della compagnia per un valore di 26 milioni, e si è obbligata a investire altri 20 milioni in 4 anni. Resta un’ulteriore parte di debito da saldare, che è a carico della Federazione.”
Tra i debiti della compagnia c’erano molti anni di stipendi e contributi non pagati. Per essere assunti nella nuova società, i lavoratori hanno dovuto firmare una dichiarazione in cui si impegnano a non fare causa alla ditta. “Noi avevamo posto tre condizioni per la vendita – spiega Vehbija Aličić, presidente dei sindacati Krivaja: che tutti gli operai venissero mantenuti nelle loro funzioni; che i loro contributi, che non erano stati versati per 7 anni, venissero pagati, insieme a tutti gli stipendi che mancavano. La nuova proprietà ha accettato, a patto che gli operai firmassero quella dichiarazione. Tra i lavoratori ci sono state discussioni feroci. In alcune famiglie la moglie ha firmato e il marito no, o viceversa. Alla fine tutti hanno firmato tranne un gruppo di 172. Non si fidavano.” Mustafa Ordagić è uno dei 172: “Non è giusto lavorare ad ogni costo, mi spiega. Dall’accordo con i sindacati mancano 12 anni, che vanno dal 1996, subito dopo la guerra, alla privatizzazione (2008), in cui siamo stati pagati con stipendi inferiori a quelli previsti dal contratto collettivo. In tutto ci spettavano circa 60.000 marchi. Ci hanno licenziato, ma abbiamo fatto causa, e il giudice ci ha dato ragione.”
Il contenzioso è durato due anni, durante i quali la nuova ditta non poteva essere ufficialmente registrata. Poco prima delle elezioni del 3 ottobre scorso, la Camera dei Popoli del Parlamento Federale ha infine approvato con procedura d’urgenza un emendamento, di modifica alla legge sulle imprese. A seguito delle nuove disposizioni, la Corte di Zenica ha approvato la registrazione della società “Krivaja 1884”. A dicembre 2010, decorsi i termini di legge, la registrazione dovrebbe diventare definitiva, le passività pagate e l’attività riprendere in maniera ufficiale. Molti aspettano con ansia la soluzione della vicenda. Pur avendo lavorato 40 anni, infatti, ci sono diversi operai che non possono andare in pensione, fino a quando non verrà regolarizzata la loro posizione contributiva. In città si respira un’aria di attesa. Dopo 15 anni la Krivaja, forse, riparte.
Schiavi moderni
Nessuno sa esattamente quante persone vivano oggi a Zavidovići, come del resto in tutto il Paese. L’ultimo censimento, infatti, è quello del 1991. Secondo le stime che mi fornisce il Comune, oggi Zavidovići avrebbe tra i 43.000 e i 46.000 abitanti. Come in molti altri centri piccoli e medi della Bosnia Erzegovina, la popolazione è molto diminuita rispetto al censimento di vent’anni fa, che registrava quasi 60.000 abitanti. Lo stipendio medio di chi lavora in Krivaja non è molto alto. Anzi. Si viaggia sui 420, 450 marchi al mese, poco più di 200 euro. Circa la metà di quello che, secondo le statistiche ufficiali, è il salario medio nel Paese. Vivere in Bosnia Erzegovina, oggi, con 200 euro, vuol dire essere sotto la soglia di povertà. Eppure il posto di lavoro alla Krivaja è molto ambito.
“La disoccupazione in città è intorno al 50%, mi dice
Hazim Ahmić, direttore dell’Ufficio di Collocamento locale. I disoccupati attualmente iscritti alle nostre liste sono 6.921. A questi aggiungiamo una stima di circa 200 persone che, per motivi diversi, non si sono iscritte. In totale abbiamo oltre 7.000 disoccupati, una cifra che coincide con quella degli occupati, anche loro intorno alle 7.000 unità.”
I dati di questa cittadina del Cantone di Zenica-Doboj, a metà strada tra Sarajevo e Tuzla, sono in sintonia con la media nazionale. Secondo Ismet Bajramović però, presidente della Confederazione dei sindacati indipendenti della Bosnia Erzegovina (220.000 iscritti), le percentuali non spiegano lo stato reale del Paese: “Secondo le statistiche ufficiali, il tasso di disoccupazione in Bosnia Erzegovina è intorno al 42%. In realtà, anche sulla base dei dati forniti dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, noi pensiamo che sia più realistica una stima del 25%. In altre parole, oltre il 15% di quei disoccupati in realtà lavora, ma in nero. Sono schiavi, schiavi moderni. Lavorano tutti i giorni, non hanno né ferie, né contributi, né un salario decente. Il livello della disoccupazione, tuttavia, è tale, che i nuovi capitalisti possono fare quello che vogliono. Dopo la guerra abbiamo cercato di opporci alle privatizzazioni, ma eravamo consapevoli che senza investimenti sarebbe crollato tutto. Inoltre la Banca Mondiale e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo avevano detto che non avrebbero investito in fabbriche non privatizzate. Siamo riusciti a far mantenere la proprietà pubblica solo sulla Telecom, la Energoinvest e alcune produzioni militari di interesse strategico. Queste sono ancora a maggioranza pubblica, e vogliamo che restino così.”
I pezzi migliori della (ex) gioielleria bosniaca, in effetti, devono ancora essere venduti. “Finora nella Federazione è stato privatizzato meno del 50% del capitale statale – dichiara Nermina Kapić, dell’Agenzia Federale per la Privatizzazione. Il 73,3% delle aziende statali sono state vendute, ma le poche compagnie che restano presentano un capitale molto rilevante. Ci sono la BH Telecom, Elektroprivreda e alcune grandi compagnie commerciali. In cifre, il capitale ancora da privatizzare è di 7,9 miliardi di km su un totale di 13,5 miliardi.”
Sindacati e governo la pensano in modo diverso sul destino delle aziende ancora in vendita. Il tempo dei kombinat, in Bosnia, è finito violentemente. Il tempo dei mercanti è iniziato in maniera incerta.
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