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Il secolo di Bogdanović (IV)

Incontro con Bogdan Bogdanović. Quarta parte: la seconda guerra mondiale, la resistenza e l’episodio di Srebrenica

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Bogdan Bogdanović, architetto, urbanista, sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, è una delle figure più eminenti della cultura jugoslava del ‘900. Nato a Belgrado nel 1922, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione nazionale progetta e dirige la costruzione di oltre 20 memoriali sulla seconda guerra mondiale. Negli anni ’80 rinuncia al proprio posto nell’Accademia delle Scienze della Serbia e scrive una lettera aperta a Milosevic (1987) di carattere antinazionalista e antimilitarista. La campagna di diffamazione conseguentemente avviata contro di lui lo costringe infine all’esilio a Vienna, città dove risiede ancor oggi.
Ha scritto tra l’altro "La città e la morte", "Architettura della memoria", "La città e il futuro", "La felicità nelle città", "L’architetto maledetto". Nessuna delle sue opere è stata tradotta in italiano.
Questa è la quarta parte dell’intervista realizzata a Vienna il 16 e 17 marzo scorsi.

Lei è stato un partigiano. Quando era in guerra, sapeva dell’esistenza di Jasenovac?

Ancora non lo sapevamo. Cioè noi non lo sapevamo, mentre immagino che i partigiani più decentrati lo sapessero eccome. Io ho visto Jasenovac solo quando sono stato chiamato a partecipare al concorso e a progettare il monumento. Mi ricordo che sono arrivato in autunno inoltrato, con la notte che calava molto presto. Sono arrivato nel pomeriggio, poco prima di sera, e il luogo del lager, dove oggi c’è il monumento, era già diventato un bosco. Era tutto inselvatichito e c’era un sottobosco molto fitto, mischiato con fango e acqua. Avevo addosso una specie di cappotto nero, non era una pelliccia, forse era un pellicciotto di poco valore, e indossavo un berretto di pelliccia da contadino, e da giovane quale ero neanche ben rasato. E così mi aggiravo in mezzo all’acqua… Mi sono alla fine arrampicato di nuovo su per l’argine dove c’era una strada. Lungo l’argine arrivava un carretto guidato da un uomo… Quando sono sbucato lui ha lanciato un urlo "Haaah!" e ha cominciato a frustrare il cavallo e a scappare. Pensava che fossi una specie di fantasma. Il luogo era considerato maledetto da tutti, tutti scappavano da lì. Il paese di Jasenovac era stato costretto a sfollare dagli ustascia, qui c’erano solo i militari. Dopo, gli abitanti sono tornati a viverci ma il luogo li perseguitava, sebbene non avessero avuto alcun legame con le violenze. Ma mi hanno raccontato che li perseguitava… Quando dicevano, ad esempio all’università, che erano nati a Jasenovac, rimanevano tutti costernati, si spaventavano. E quando gli abitanti di Jasenovac sono ritornati nel loro villaggio la superstizione li spingeva a non uscire di casa la notte, per paura dei fantasmi. Sapevano cosa era successo lì…

Quando ha deciso di unirsi al movimento partigiano e dove ha combattuto?

Io sono andato con i partigiani relativamente tardi, all’incirca nella primavera del 1944, e ci sono arrivato senza preparazione militare… Devo dire però che molto velocemente, forse questo noi serbi ce l’abbiamo nel sangue, sono diventato un buon soldato. Nel lavoro illegale avevo molta paura e non ero bravo. Quando è cominciata l’occupazione della Serbia e di Belgrado, nel 1941, collaboravo con molti altri giovani alle prime azioni antifasciste. Volantinaggi, portavo in giro cose importanti, documenti, ma mi sentivo molto a disagio… Ero spaventato, probabilmente ho anche fatto degli errori. C’erano invece persone che avevano le capacità, conoscevano, diciamo, la cultura del lavoro illegale. Quando poi sono entrato nei partigiani però sono diventato un buon soldato, forse a causa delle vecchie tradizioni serbe… Non appena mi hanno dato l’uniforme sono diventato un soldato, e sono stato un ottimo soldato. Anche se quando sono stato ferito è stato per colpa mia.

Come è successo e dove?

Volevo ad ogni costo guardare e valutare le postazioni tedesche, purtroppo mi hanno visto e sono stato colpito da un proiettile. Era febbraio, un giorno bellissimo di sole, con la neve. I miei amici, compagni, tre partigiani giovanissimi, mi hanno trasportato tutta notte attraverso il fronte, eravamo nella zona di Srebrenica. Alla fine sono riusciti in qualche maniera a portarmi fino a una postazione partigiana. Io ero terrorizzato dall’idea di essere catturato, non ero in grado di muovermi e quei tre ragazzi, più giovani di me, due mi trasportavano e uno faceva la guardia, erano esausti. Si erano talmente stancati per avermi trasportato tutto il giorno che ogni volta che si fermavano, e mi mollavano giù, si addormentava prima uno poi l’altro. Allora toccavo uno e cercavo di scrollarlo, poi l’altro, per svegliarli, perché avevo paura che saremmo rimasti lì e che ci avrebbero catturato. Intanto si continuavano a sentire gli spari, non si vedeva il fronte ma era evidente che ci trovavamo in mezzo alla battaglia. E poi si sa che Srebrenica è stato un luogo tremendo, il che significa che un luogo strategico, importante e che quindi qui… Questi tre giovani mi hanno portato fino ad una stazione partigiana di rifornimento che era già collegata con Tuzla, con la zona libera di Tuzla. Alla fine sono riusciti a fermare un camion di feriti che andava verso la Drina, dove trasferivano i feriti gravi, oltre la Drina in Serbia. Mi hanno caricato su questa massa di feriti… La situazione era tale… Io pregavo tutto il tempo uno dicendogli: "Compagno ti prego non farlo…", ma lui continuava a cascarmi addosso, e io di nuovo gli dicevo: "Ti prego compagno non farlo, mi fa male". Era morto. Io avevo continuato tutto il tempo a parlare con un morto.

Alla mattina, mattina presto, siamo arrivati alla Drina per il trasbordo a Banja Koviljaca, in territorio serbo. Qui ho assistito ad una scena terribile. Mentre aspettavamo la chiatta c’erano tutt’intorno decine e decine di cadaveri di partigiani che erano stati feriti, avevano aspettato e aspettato e alla fine erano morti. Ce n’erano anche con le mostrine da ufficiali… Questa chiatta funzionava come una piccola zattera, con sopra una corda tesa da un lato all’altro del fiume. Quando arrivava la chiatta, i feriti più forti si buttavano a capofitto… Io ero stato caricato con un gruppo di feriti di Tuzla, partigiani bosniaci, che andavano verso la Serbia, per cui quello che accompagnava questo gruppo non mi aveva nella lista. Quando è arrivato il mattino, lui ha raccolto i suoi uomini, ce n’erano un certo numero che durante la notte erano morti in una casetta del paese.

Sono rimasto da solo, ho cominciato ad urlare, a chiamare qualcuno. E’ apparsa una ragazzina, una ragazza molto giovane, musulmana:
– Ma tu sei vivo!
Pensavano che fossi già spirato. Lei si è messa a correre verso la stradina del villaggio, li ha fermati:
– Compagni, uno dei vostri è qui! Uno dei vostri è qui!
Alla fine si sono precipitati dicendo:
– Sei qui tu!
Dalla intonazione capisco che sono i miei serbi:
– Sei qui! Cosa ci fai qui? Andiamo!
E mi hanno tirato su… Ferito com’ero, per tutta la notte non avevo urinato…
– Aspettate, aspettate! Io devo…
Gli ho detto che dovevo pisciare.
– E piscia qui! Non uscire
Mi hanno tirato, io ho urinato e urinato, e poi mi hanno buttato su un carro che mi ha portato fino alla Drina e quindi in Serbia. Ho capito che il conduttore del carro era un serbo ferito anche lui, arruolato con carro e cavallo. Anche qui mi hanno caricato assieme ad altri due, tre, di cui uno di nuovo mi si appoggiava di continuo… Anche lui alla fine è morto. Il conduttore, con il carro, ci portava verso la Drina, verso il confine. Il mio serbo ha cominciato a parlarmi:
– Ehi senti (bre), tu di dove sei?
– Di Belgrado. E tu?
– Anch’io sono dei dintorni di Belgrado.
I "dintorni" in realtà erano Niš. Va bene, non c’è problema. Continuiamo a parlare, parliamo in serbo.
– Ehi (bre) voglio abbandonare carro e cavallo e scappare, dai aiutami. Intendeva abbandonare carro e cavallo, passare la Drina e andare nella parte serba, a fare cosa erano affari suoi. Voleva che io… eh adesso! Per passare il confine, oltre la Drina, come vi ho già detto, c’erano moltissimi cadaveri, arrivava la chiatta e chi era più forte e ferito in maniera più leggera, si alzava e si buttava a capofitto… C’era un partigiano minuto, con un certo grado e un fucile in mano, cercava di mantenere l’ordine, che non si accalcassero. E così il mio compaesano, dei dintorni di Niš, mi dice:
– Ora ti porto io di là.
Mi tira su e comincia a urlare
– Mio fratello sta morendo, mio fratello sta morendo! Lasciatemi passare!
Colpendo di qua è di là con gambe e braccia, riesce a caricarmi sulla chiatta e io… Abbiamo passato la Drina… Lui dopo mi ha anche salutato:
– Grazie grazie! Ho abbandonato carro e cavallo… A cosa mi servono, voglio solo salvare la pelle.
Lui ringraziava me perché gli avevo permesso di far la parte del fratello, e passare al di là del fiume…

A questo punto ho perso i sensi. Sono rinvenuto solo quando mi son reso conto, forse dopo una mezz’ora, che mi trovavo su un altro carro, non ricordo se trainato da mucche o cavalli. Avevo capito che ero in territorio serbo e quindi mi sentivo più sollevato. Per il resto, mi sono trovato su questo carro senza niente, niente di caldo addosso, ed era inverno, la ferita aveva cominciato a farmi molto male mentre fino ad allora non mi aveva fatto soffrire molto. Ero congelato, tutto il sangue addosso congelato, pieno di ghiaccio… Nel carro mi sono ritrovato con una specie di coperta, e accanto a me guardo e cos’è… una bottiglia di grappa, era stata una qualche contadina a lasciarla! Loro, le donne, che avevano i figli al fronte, o i mariti, aspettavano i feriti e donavano queste cose. Per cui a questo punto mi sento davvero sollevato, mi sento meglio, non c’era più il rischio di essere catturato, ero in territorio serbo. Arrivato a Banja Koviljača mi hanno messo in un salone, un posto per i balli, per gli ospiti di riguardo, strapieno di feriti. Qui ho passato tutta la notte, si sentivano solo i lamenti: "Aaah", "Oooh"… Lamenti e lamenti. Credo di aver perso di nuovo i sensi. Alla mattina arriva un gruppo, capisco che sono medici, guardano uno, poi l’altro, ma ci sono talmente tanti di quei feriti che non possono visitarne neanche uno, e non so nemmeno cosa guardassero. Mi si avvicinano e dandomi del lei mi chiedono:
– Chi è lei?
– Sono uno studente.
– Dai, tirate su questo studente e trasferitelo all’ospedale…
Insomma, che mi salvassero la vita. Mi prendono, mi caricano su una specie di barella e mi portano a Banja Koviljača. E qui è cominciato il rituale… Tutti gli abiti venivano bolliti, avevamo le pulci, le toglievamo così, a manciate…

Mi hanno disinfettato e poi trasferito in una sala delle terme, per la prima volta su un letto con le lenzuola. Avevo capito che il primo pericolo era sventato, ma anche che ero stato dimenticato. Lavoravano in base a delle liste. C’erano medicine, non avevamo la penicillina ma c’era un medicinale, "Prontosil", una specie di precursore della penicillina, erano delle pillole rosse. Ho chiamato un’infermiera minuta:
-Sorella guarda un po’ se ci sono quelle piccole pagnottine. Ci sono delle pagnottelle rosse?
– Sì, ce n’è
– Portamene
– Te ne porto una
– Non me ne portare una, portamene di più…
Me ne ha portata un’intera manciata. Così ho cominciato a prenderne una ogni ora… Ma non veniva ancora nessuno a visitarmi. Dopo è entrato … mi rendo conto che sembra un film… E’ entrato un tedesco, un prigioniero, medico, che si curava dei feriti. E’ stato lui che mi ha salvato la pelle, gli altri non mi avevano nemmeno guardato. Ho cominciato a parlargli, allora masticavo il tedesco, avevamo subito quattro anni di occupazione. Sento che poi va nel salone, a metterli in allarme, comincia a urlare… Arrivano i medici, mi portano sul tavolo operatorio. La sala era dedicata alle cure termali, e in alto tra le pareti e il soffitto c’erano appoggiate delle candele, perché continuava ad andare via l’energia elettrica, e capitava che i medici cominciassero l’operazione, poi la luce saltava e accendevano le candele per continuare.

I medici erano stravolti dalla stanchezza. Appena mi hanno sistemato sul tavolo, grazie al mio "crucco", con cui avevo fatto amicizia, senza chiedermi nulla mi hanno narcotizzato e, nelle condizioni in cui ero, spossato, malato, e oltretutto non abituato alla narcosi, ho perso i sensi molto velocemente. Quando mi sono svegliato ho visto che avevano fatto una drastica pulizia della ferita, che si era allargata. Mentre ero sotto narcotico sognavo che attorno… forse anche a causa del tedesco che mi aveva portato lì… che attorno me c’erano medici tedeschi e sotto ai loro camici bianchi vedevo le uniformi tedesche. E nella pazzia, nel panico, urlavo: "Io sono un partigiano! Vi massacrerò tutti! Haw haw haw…"

Alla fine mi son reso conto che la prima fase era conclusa, non c’era più pericolo immediato. Sono stato trasportato a Belgrado e da lì a Niš. Fino alla fine della guerra sono rimasto in ospedale, la ferita era estesa e ho subito altre operazioni, anche dopo la guerra. Di vario tipo, tanto che nemmeno oggi la mia anca è integra. La cosa più incredibile è che oggi sono più forte su questa gamba indica quella operata, ndr che non su quest’altra. Sapete perché? Perché per tutta la vita ho cercato di proteggerla. Stavo attento, se saltavo giù dal tram non saltavo con la gamba sinistra ma con la destra, quella sana. Tutte le funzioni le caricavo su questa, e forse è degenerata proprio per l’eccesso d’uso…

Questa è stata la mia storia, sono storie di guerra, ma questi sono i nostri destini. Anche mio padre era stato soldato durante la prima guerra mondiale e ferito gravemente, trasferito in Albania durante la ritirata dell’esercito. In qualche maniera ce l’avevamo nel sangue… E comunque come soldato mi sono sentito molto più al sicuro rispetto al periodo di attività illegale. Qui invece sapevo cos’era un soldato, e così è stato. Come disse Slobodan Milošević: "Non ce ne intendiamo di lavoro, ma ce ne intendiamo di guerra". Alla fine si è visto che non ce ne intendevamo tanto neanche di quello… ride, ndr… Grazie a Dio è andata così. Va beh, ma questa è un’altra storia. (4 – continua)

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