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Il ruolo di ONG e società civile nell’integrazione europea

L’integrazione europea non è un affare solo di governi e stati. E’ una sfida che appartiene a tutte le forze sociali, perché è in gioco il futuro stesso di tutta l’Europa e del Mediterraneo.

07/01/2002, Claudio Bazzocchi -

Continuiamo nella pubblicazione di estratti dalla ricerca "I Balcani e l’Unione Europea: a che punto è l’integrazione?". Claudio Bazzocchi propone uno sguardo non istituzionale sull’integrazione, analizzando il ruolo della società civile. E richiamandosi al dovere di partecipare e fare sentire la propria voce a favore di un’integrazione solidale e dal basso, richiamando anche l’Appello L’Europa oltre il confine lanciato dall’Osservatorio assieme all’ICS.
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Capovolgendo il giudizio di Marx potremmo affermare assieme a Shalini Randena che molte parti del "Terzo Mondo" odierno mettono davanti agli occhi dell’Europa il suo proprio futuro. Tra gli aspetti positivi potremmo citare lo sviluppo delle società multireligiose, multietniche e multiculturali, i modelli interculturali e la tolleranza della differenza culturale, il pluralismo legale osservabile su vari livelli e la moltiplicazione delle sovranità. Tra gli aspetti negativi si potrebbero additare la diffusione del settore informale e la flessibilizzazione del lavoro, la deregolamentazione legale di vaste aree dell’economia e dei rapporti lavorativi, la perdita di legittimità dello stato, I’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, I’intervento sempre più energico delle società multinazionali e l’alto tasso di violenza e crimine ordinari. Tutti questi aspetti, insieme ai quesiti e ai dibattiti che ne conseguono, implicano che, se vogliamo comprendere le dinamiche e le contraddizioni della seconda modernità, dobbiamo trovare un nuovo quadro di riferimento per la società globale del rischio (che comprende i paesi non occidentali) in cui ci troviamo a vivere (U. BECK, Il manifesto cosmopolitico, pag. 7, Centro di politica estera. Osservatorio sulla Globalizzazione, Asterios 2000).

1. Integrazione europea, società civile e ONG: alcuni temi di riflessione

Come si sa la guerra fredda, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, impose limiti molto precisi al processo di integrazione europea. La "cortina di ferro" fece sì che l’integrazione fosse limitata alla sola Europa occidentale e capitalistica, tanto che ancora oggi nell’immaginario di milioni di europei il concetto di Europa è divenuto sinonimo di «Europa occidentale» e di «occidente» tout-court.
L’occidentalizzazione dell’Europa ebbe come risultato il fatto che il modello di sviluppo economico prevalente fosse quello di Germania, Francia e Regno Unito. Questo altresì significò che i paesi dell’Unione, a sud e a nord-est, fossero sempre visti solo come zona di frontiera del confine orientale e meridionale della Comunità.
Oggi allora vediamo che nei paesi del Mediterraneo confinanti con l’Unione Europea a sud-est i rapporti commerciali si dirigono esclusivamente verso il nord, verso i mercati ricchi dell’UE. Ciò significa che l’interscambio fra i paesi del Mediterraneo è basso e che il mercato interno di questi paesi è stagnante, dal momento che si limitano ad essere produttori a basso costo per i paesi più ricchi. In sostanza i paesi più poveri del Mediterraneo tendono a rincorrere il modello di sviluppo dei paesi più ricchi rinunciando alle proprie vocazioni produttive, ai propri stili di vita e ad un sistema economico che riesca a mantenere commisurate le colture alle culture.
Qui sta uno dei nodi dell’attuale processo di integrazione europea. È infatti evidente che i paesi candidati e quelli formalmente associati all’UE, per non parlare di quelli che vorrebbero esserlo, sono troppo distanti, economicamente e socialmente, dai paesi che oggi fanno parte dell’UE. L’allargamento a est, dopo l’entusiasmo iniziale, sta così creando timori e preoccupazioni nelle cancellerie europee e presso le opinioni pubbliche occidentali. La prima paura è quella di un aumento spropositato dei flussi migratori dall’est verso i paesi più ricchi dell’Unione. In Spagna si teme inoltre che l’entrata nell’Unione di paesi con un reddito pro-capite molto più basso significhi la perdita dei fondi strutturali ad essa destinati. In Germania si sta pensando di limitare l’accesso al welfare per i cittadini che dovessero trasferirsi dall’est.
Vi sono poi i rischi e timori, ben più motivati, legati ai rapporti dell’UE con l’esterno. Vi è il rischio che si creino nuove divisioni ai confini della UE allargata: nei confronti dell’area ex-sovietica e nei confronti del sud del Mediterraneo e del Medio-Oriente. Questi rischi portano necessariamente a riflettere su un altro problema che a questo punto si pone: quali sono i confini dell’Unione Europea, e come sarà vista dai confinanti? Come un vero e proprio stato federale, quindi scomodo e potente, o come un soggetto ibrido, più integrato di un’organizzazione internazionale classica, ma meno sovrano di uno stato (sui rischi e le paure legate all’allargamento si vedano due saggi nel numero 5/2001 de il Mulino: F. ANDREATTA, L’Unione allargata come attore internazionale; T. BOERI, Scenari economici della prossima Europa.)?
Tutti i problemi fin qui elencati, che riguardano le riforme istituzionali dell’Unione, una seria politica europea dell’immigrazione, la questione dei confini e del rapporto con il sud del Mediterraneo e l’est ex-sovietico, assieme al ripensamento del modello di sviluppo industriale nord-occidentale, presentano più di un terreno d’azione per le organizzazioni della società civile europea.
Per quanto riguarda la riforma istituzionale dell’UE, quanto mai necessaria a seguito dell’allargamento o del «mutamento» – secondo quanto sta scritto nel documento programmatico della presidenza di turno belga del secondo semestre 2001 – è chiaro che la conferenza intergovernativa, prevista nel 2003-2004, non potrà più essere organizzata con comitati preparatori sul modello di quelli che hanno lavorato prima di Amsterdam e Nizza. Le organizzazioni europee della società civile devono premere affinché nasca una Convenzione che possa coinvolgere non solo i governi, la Commissione europea, i parlamenti nazionali e il parlamento europeo, ma anche le realtà associative dell’Unione e dei paesi candidati.
Sulle questioni legate all’immigrazione dovranno essere coinvolte tutte quelle ONG e associazioni che si occupano della tutela dei migranti, e che sul tema sono in grado di elaborare politiche serie e documentate. La questione dei migranti in Europa è per tutte le ONG fondamentale, per un’Unione che si configuri come rispettosa dei diritti umani, non solo dei più deboli, ma per estensione di tutti i cittadini e le cittadine europee che aspirano a progettare percorsi di vita autonoma dal punto di vista sociale. Alle stesse ONG spetta il compito di contestare le dirigenze politiche dell’UE, che in modo ideologico e strumentale già ora agitano lo spauracchio dei flussi migratori ingestibili dall’est. In realtà i dati di previsione, infatti, ricavati su base scientifica econometrica, non prospettano alcuna incontenibile fiumana di uomini e donne dall’est all’ovest dell’Unione. Dovranno quindi le ONG denunciare l’uso strumentale che la classe politica europea fa del problema immigrazione per attrarre consenso sul modello della "fortezza Europea", che si chiude in se stessa a difesa degli interessi dei paesi più ricchi, anche a scapito dei nuovi entrati.
Il ripensamento del modello di sviluppo, nel momento in cui entrano nell’Unione paesi con una storia economica e sociale diversa, dovrà essere sollecitato da quelle ONG che da anni fanno cooperazione con i paesi del Mediterraneo e dell’area balcanica. In Italia dobbiamo ricordare la base di riflessione rappresentata dai Rapporti sul Mediterraneo, editi dal CNEL dal 1993 al 1999 e curati da Bruno Amoroso. Il modello dei quattro anelli della solidarietà, proposto in quei rapporti e nei vari studi di Amoroso, per un’Europa fondata sulla cooperazione solidale fra le aree che la compongono, piuttosto che sulla competizione, dovrà essere preso in seria considerazione dalle ONG che praticano la cooperazione allo sviluppo nel Mediterraneo:
"L’Europa policentrica si deve raccordare alle quattro più importanti meso-regioni che la circondano – il Baltico, l’Europa centrale, il Mediterraneo e l’Europa occidentale. Questa forma deve sostituire la strategia d’integrazione basata sul progressivo ampliamento del cerchio esistente dell’Unione Europea (l’Europa dei «cerchi concentrici», secondo l’espressione coniata da J. Delors) con quella basata sull’immagine dei cerchi olimpici, autonomi, in parte sovrapposti ed agganciati tra loro (i «quattro anelli della solidarietà»).
Si tratta di un modello di solidarietà (del co-sviluppo per restare nel linguaggio dell’Unione Europea) che fornisce uno strumento più appropriato di quello dell’integrazione al risveglio delle comunità e dei paesi. L’obiettivo è la conservazione e valorizzazione delle differenze, in opposizione a quello dell’integrazione che persegue la standardizzazione dell’economia, delle istituzioni e delle stesse culture. Diverse proposte ed iniziative politiche, soprattutto nel Baltico e nel Mediterraneo, hanno indicato il ruolo particolare che spetta alle aree situate tra le meso-regioni, nella zona di sovrapposizione degli anelli….Le diversità dell’Europa del sud e della Scandinavia potrebbero precipitare nella marginalizzazione economica e nella destabilizzazione sociale qualora «l’ordinarietà» europea divenisse quella prodotta dalla globalizzazione triadica. Oppure queste due aree dell’Unione potrebbero essere riabilitate mediante la loro trasformazione in due poli di un risveglio policentrico e potrebbero costituire importanti cerniere tra l’Unione Europea e le regioni circostanti. La nuova posizione dei paesi scandinavi – che dall’essere linea di frontiera dell’Unione Europea e fianco nord della NATO si troverebbero a divenire cerniera tra l’Unione stessa e l’intera Regione Baltica – trasformerebbe la diversità della Scandinavia in un fattore di stabilizzazione e di sviluppo, con una forte influenza anche sull’Europa centrale. La nuova posizione dell’Europa del sud – che da periferia dell’Unione Europea e braccio della NATO sul Mediterraneo diverrebbe il centro della regione più grande della grande Europa – trasformerebbe la diversità dell’Europa del sud in una forza al servizio di un processo reale di sviluppo europeo, con effetti positivi sul mondo arabo e sulla Regione del Mar Nero.
In un contesto così ampio, aggravato dalle forti asimmetrie esistenti tra paesi, aree e regioni nel livello di sviluppo, è molto importante superare la centralità dell’Unione Europea, con il vecchio schema centro-periferia a questa funzionale, sul quale si sono basate tutte le politiche economiche dagli anni sessanta in poi. L’alternativa va cercata nell’affermazione di un sistema policentrico di sviluppo europeo basato sulla cooperazione invece che sulla competizione, sulla solidarietà invece che sul conflitto (B. AMOROSO, Europea e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo 2001, pagg. 17-24 )."
Le considerazioni di Amoroso sono quanto mai attuali e, suo malgrado, profetiche, in quanto scritte prima dell’11 settembre. La guerra scatenata in Afghanistan anche dall’Italia, così come da gran parte dei paesi dell’Unione hanno purtroppo riportato in auge il concetto di Occidente ed Europa occidentale. Alla società civile, alle organizzazioni non governative europee dell’est e dell’ovest, del sud e del nord, spetta il compito di pensare la pace e la cooperazione nel Mediterraneo e nel Baltico per un’integrazione europea che sappia contemplare le differenze ed essere veramente solidale.
ICS e Osservatorio sui Balcani pensano di lanciare la campagna Europe from below, affinché si crei un network di organizzazioni europee della società civile impegnate a favore dei diritti umani e della pace, della cittadinanza attiva e della solidarietà, dello sviluppo e della cooperazione, che aspirano perciò ad un’Europa oltre i confini – che abbatta definitivamente i muri che ancora esistono tra Est e Ovest – fondata sui valori per cui si impegnano.
L’impegno dovrà essere allora quello di costruire "dal basso" – attraverso la cooperazione, la collaborazione, il dialogo – una rete di organizzazioni della società civile, della cittadinanza e delle comunità locali al fine di favorire:

– iniziative comuni di cooperazione, scambio, formazione e di sensibilizzazione – tra organizzazioni della società civile e reti delle comunità locali – sull’idea di "un’Europa dal basso" che vogliamo contribuire a costruire;
– iniziative – di monitoraggio delle politiche, di lobby e di confronto – con le istituzioni europee con cui vogliamo interloquire: Unione e Commissione Europea, Consiglio d’Europa, Osce, Ebrd, ecc.
– la costituzione di un osservatorio europeo con un rapporto biennale sulle esperienze concrete di "integrazione dal basso" e un "libro bianco" sulle politiche europee rispetto ai temi e ai valori di integrazione, democrazia, pace, cittadinanza e diritti umani che rivendichiamo con questo appello;
– la costituzione di alcuni strumenti di lavoro quali: una newsletter periodica di contatto con informazioni, opinioni, approfondimenti, dibattito tra le organizzazioni appartenenti alla rete; un sito internet, con informazioni, approfondimenti, ecc.; un convegno internazionale ogni due anni aperto ai rappresentanti delle istituzioni europee.

2. Alcuni strumenti di lavoro nell’ambito delle politiche di integrazione regionale
L’Iniziativa Centro-europea e quella Adriatico-ionica chiamano in causa la dimensione culturale all’interno dei programmi di cooperazione regionale. Emergono allora due punti che sono importanti anche per le ONG nell’ottica del contributo che esse possono dare all’integrazione del sud-est europeo: l’approccio regionale nei progetti di cooperazione e l’importanza della dimensione culturale.
Approccio regionale sta a significare che i progetti regionali di cooperazione devono sempre prevedere il coinvolgimento di più paesi all’interno dell’area balcanica. È evidente infatti che la sicurezza e la pace nei Balcani non sono solo un problema albanese, o macedone, piuttosto che serbo o bosniaco. In un contesto culturalmente misto la costruzione della sicurezza non si può fare costruendo fortezze e creando nuovi stati: «ogni gruppo può illudersi di chiudersi in se stesso, ma più si chiude, più diventa fattore di minaccia o viene percepito come minaccia dal vicino». Nei Balcani c’è bisogno di costruire una politica della sicurezza che si fondi sulla inclusione e sulla cooperazione regionale. Nel dire questo dobbiamo renderci conto che qui ci troviamo di fronte ad uno dei nodi delle società postmoderne, a est come e ovest: il problema della convivenza fra le differenze in società sempre più complesse e articolate o disarticolare, oltre le vecchie appartenenze di campo della modernità. Per dirla con lo storico Stefano Bianchini:

"…Bisogna anche rendersi conto che le culture politiche sono trasversali. Non è vero che ci sia il nazionalismo buono occidentale e il nazionalismo cattivo balcanico, europeo-orientale. Non è vero che qua sia un campo protetto e dall’altra parte vi sia invece un campo che non riesce a trovare una soluzione al convivere. Basti pensare che un paese di grandi tradizioni democratiche come la Gran Bretagna non riesce ancora a trovare una soluzione a un problema come quello dell’Irlanda del Nord. Il problema dell’Irlanda del Nord non è sostanzialmente diverso dal problema delle relazioni tra serbi e croati, che sostanzialmente parlano la stessa lingua e che se hanno un elemento culturale diverso è la religione. Quindi i problemi che riguardano l’area balcanica sono problemi che ci riguardano; e le culture che si determinano nei Balcani, quelle democratiche, quelle antidemocratiche, quelle dei movimenti femminili, quelle dei movimenti della società civile, quelle razziste, autoritarie, sono culture che ritroviamo tranquillamente nelle nostre società. Sono magari i rapporti e le proporzioni, l’uso politico che ne viene fatto, che di volta in volta varia, ma esse sono trasversalmente presenti. Questo dunque vuol dire che dobbiamo abituarci a ragionare davvero in termini postcomunisti: non abbiamo più i campi, noi siamo tutti entro un unico contesto; che dialoga interagisce e subisce le reciproche influenze. E dunque è importante, anche quando discutiamo delle differenze, poiché questo è un problema che ci riguarda, come Europa occidentale, dal momento che le differenze esistono anche da noi ed esiste una forte intolleranza anche nelle nostre società contro le differenze, comprendere che la differenze non sono semplicemente qualcosa che ci divide un campo dall’altro, ma sono trasversali, passano attraverso gli individui ed i gruppi (intervento introduttivo a "Verso una conferenza della società civile per la pace, la democrazia, la cooperazione nei Balcani", Ancona, 21-22 settembre 1999, organizzata dal Consorzio Italiano di Solidarietà)".
Questo è un punto fondamentale per riflettere sugli interventi che le ONG effettuano nei Balcani. Si tratta di operare per l’integrazione politica di quelle terre contro il nazionalismo, per una grande contaminazione culturale reciproca che ci aiuti a ripensare tutti assieme al concetto di stato, la cui crisi drammatica sta alla base della guerra nella ex-Jugoslavia e sta minando anche i fondamenti del vivere civile nelle società dell’Europa occidentale. Le ONG devono incoraggiare il nostro e gli altri governi europei a definire strategie di sostegno alla democrazia attraverso l’integrazione politica e la contaminazione culturale, perché queste sono le frontiere delle vere politiche di sicurezza e di pace.
Sono allora tre i filoni programmatici che possono vedere impegnate le ONG dell’Unione assieme a quelle dei paesi dell’Europa sud-orientale:
– programmi a forte valenza regionale, che vedano impegnati più paesi e organizzazioni dell’area balcanica;
– scambi fra giovani e fra esperienze di centri sociali e giovanili;
– creazione di network della società civile per la promozione di una comune cittadinanza sociale.

3. Programmi a forte valenza regionale

Le ONG straniere, impegnate in più paesi balcanici con progetti simili, devono lavorare affinché i partner locali dei progetti si incontrino periodicamente per scambiarsi i risultati e le esperienze, creando così pezzi di rete di società civile a livello regionale; è fondamentale poi che le ONG europee coinvolgano sempre più parti delle proprie società civili perché si attui una vera e propria cooperazione decentrata fra realtà omologhe, che possa essere certamente pratica e di intervento, ma allo stesso tempo abbia in sé la dimensione culturale e di riflessione comune sui problemi della sicurezza e della convivenza ai tempi della globalizzazione, a est come a ovest.
Nei programmi di ricostruzione si deve inoltre tenere sempre presente che la riabilitazione di strutture e infrastrutture nell’area del sud-est europeo ha sempre una valenza regionale. Prendiamo il caso della ricostruzione delle infrastrutture sul Danubio. Tali interventi non costituiscono solo un problema serbo. È infatti un problema che riguarda la Croazia, l’Ungheria, l’Austria, la Slovacchia, la Romania, la Bulgaria. È un problema regionale. Alle ONG eventualmente impegnate in progetti di questo tipo spetta il compito di coinvolgere anche le altre ONG o gli altri soggetti governativi impegnati in progetti analoghi in paesi diversi dell’area, in modo che interventi di ricostruzione separati in una stessa area possano acquistare comunque una valenza di carattere regionale. Sarebbe inoltre importante che già dall’inizio le varie ONG europee si consorziassero al fine di presentare progetti di riabilitazione complessivi a forte valenza regionale, che "costringano" i vari soggetti locali a cooperare per risolvere problemi comuni. La ricostruzione delle infrastrutture sul Danubio o il problema del risanamento ambientale del Danubio stesso non possono prescindere dalla cooperazione fra governi, tecnici, e ONG dei vari paesi dell’area. Soprattutto i giovani, se opportunamente formati, sono in grado di capire la dimensione regionale dei problemi dei paesi a cui appartengono, siano essi la Bosnia, la Serbia, la Croazia o la Bulgaria…

4. Gli scambi giovanili
I giovani sono fondamentali per cambiare la cultura dello stato-fortezza all’interno dei propri stati e imporre con convinzione la dimensione regionale dei problemi economici, sociali, politici e ambientali, nell’Europa dell’ovest, così come in quella dell’est. Le ONG europee possono così contribuire in modo determinante nel propagare la cultura della cooperazione regionale con l’attuazione di programmi di scambio giovanile.
La Commissione europea finanzia da tempo agli scambi giovanili con il Programma Gioventù della Direzione generale dell’Istruzione e della cultura. Il programma «intende contribuire al processo educativo dei giovani, in particolare attraverso la realizzazione di attività di scambio e del servizio volontario europeo (EVS), sia nell’ambito dell’Unione Europea che con i paesi terzi. Esso si prefigge di favorire l’emergenza e/o il consolidamento del lavoro intrapreso a favore della gioventù a livello locale, pur facilitando l’accesso dei giovani svantaggiati alle attività del programma» (direzione generale dell’istruzione della cultura, Guida dei programmi e delle azioni. Istruzione e cultura, Commissione Europea, 2001).

5. Creazione di network della società civile per la promozione di una comune cittadinanza sociale

La globalizzazione neoliberista chiama in causa sempre più la società civile e la sua capacità di agire da vettore e catalizzatore delle istanze di giustizia sociale, che ormai devono essere poste su base transnazionale. A livello europeo le ONG devono sempre più, nei programmi che intervengono sullo stato sociale (per esempio nei progetti a favore delle fasce deboli nei vari paesi), lavorare per la creazione di reti di società civile che pongano come obiettivo fondamentale la promozione di una comune e autonoma cultura della cittadinanza sociale, che sia in grado di contrastare i brutali processi di ristrutturazione neoliberista della società.
Segnaliamo qui una linea di finanziamento della Commissione europea che sostiene i progetti volti alla promozione dei diritti politici, civili, economici, sociali e culturali nei paesi terzi. Il programma, denominato European Initiative for Democracy and Human Rights (EIHDR), si rivolge principalmente alle ONG che vogliono proporre progetti per le fasce vulnerabili della popolazione nei paesi terzi. Le quattro priorità tematiche indicate dalla commissione per il programma EIHDR nel 2002 e nel medio termine sono le seguenti:
1. Supporto al rafforzamento della democratizzazione, della "good governance" e dello stato di diritto;
2. Attività a supporto dell’abolizione della pena di morte;
3. Supporto alla lotta contro la tortura e per i tribunali internazionali;
4. Combattere il razzismo e la xenofobia e le discriminazioni contro le minoranze e le popolazioni autoctone.

6. Democrazia cosmopolitica e integrazione europea nella seconda modernità: il ruolo della società civile

La crisi della modernità industriale, così come l’abbiamo conosciuta fino agli anni Settanta, mette in crisi a sua volta lo stato e la politica, ma dischiude, grazie agli strumenti di una possibile globalizzazione dal basso, la potenzialità per ogni individuo di creare percorsi di vita autonomi, non più imprigionati dagli schemi imposti dall’appartenenza di classe, di genere o di tradizione culturale. La possibilità di costruire una propria biografia sociale richiama sempre e comunque la difesa della possibilità altrui: nel momento in cui vengono meno i doveri standardizzati di un determinato gruppo sociale di appartenenza, l’individuo si apre agli altri consapevole del fatto che sono proprio gli altri che contribuiscono all’individualizzazione del singolo. Come ha scritto recentemente Ulrich Beck, l’individuo che progetto la propria autonomia «sviluppa una forte sensibilità per i contesti sociali e percepisce l’individualizzazione come la costrizione, la necessità, il compito, l’avventura di reinventare e riarmonizzare il sociale» (U. BECK, Libertà o capitalismo? Varcare la soglia della modernità, pag. 63, Carocci 2001). La sfida per una globalizzazione responsabile e dal basso passa proprio per l’impegno di tutti coloro che lottano per la propria autonomia sociale e in base a questo sono disposti a unirsi agli altri per una nuova democrazia cosmopolitica che affronti il mare aperto del rischio insito nella nostra società, dai pericoli delle catastrofi ambientali a quelli delle catastrofi economiche globali.
Pare convincente la riflessione del sociologo francese Alain Touraine, quando cerca di rispondere alla domanda sulla capacità di poter vivere assieme e comunicare nelle società ipermoderne e neoliberiste, in cui gli individui sono lacerati fra partecipazione all’economia mondializzata e ritorno all’integrazione comunitaria (Si veda A. TOURAINE, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere assieme?, Il Saggiatore 1998).
La risposta di Touraine sta nella difesa e proposizione del Soggetto, che si manifesta con la resistenza alla lacerazione fra mercato e comunità e con il desiderio di individualità, di potere, cioè, dispiegare autonomamente un proprio e autonomo progetto di vita, cercando una sintesi, mai dialettica e sempre un po’ precaria (quasi un bricolage, direbbe Touraine), fra strumenti tecnologici e risorse culturali. Il Soggetto non è però quello teorizzato dai filosofi postmoderni, che si sente libero nel consumo sfrenato o nello zapping televisivo e culturale. Il Soggetto che sta a cuore è quello che ancora coniuga la vita reale dei sentimenti e della sofferenza con la propria cultura e il proprio lavoro. Questo significa aprire la propria comunità e cultura alle nuove possibilità della tecnica, affinché il proprio lavoro acquisti senso e incida sul mondo della politica. È allora chiaro che diventa impossibile costruire il Soggetto senza rifarsi all’azione collettiva, e senza la costruzione di veri e propri movimenti di società civile organizzata.
La sfida attuale è proprio quella di attuare una vasta opera di informazione sui temi dello sviluppo e della solidarietà in tutto il bacino del Mediterraneo, di cui si deve far carico la società civile dei vari paesi interessati. Pensiamo così ai piccoli imprenditori, spesso minacciati dall’attuale modello di sviluppo competitivo, alle organizzazione sindacali, alle ONG che da anni lavorano nel Mediterraneo, ai vari movimenti di massa che si occupano di ambiente e qualità della vita e infine ai ricercatori, alle università e ai vari intellettuali che ancora esercitano una vera e propria funzione critica e di disvelamento della realtà e dei rapporti di forza.

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