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Il ruolo delle ONG nel decentramento albanese

Si è tenuto a Roma il 25 gennaio, organizzato dal CeSPI, un seminario su "Decentramento e ricostruzione in Albania". Hanno partecipato i rappresentanti di Enti Locali, ONG, del Ministero Affari Esteri e dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni

01/02/2002, Claudio Bazzocchi -

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Abbiamo già pubblicato un breve resoconto della giornata di lavoro. Qui riportiamo invece l’intervento di Claudio Bazzocchi che affronta il tema del ruolo delle ONG nel decentramento albanese. Ricordiamo inoltre che le analisi sul processo di decentramento albanese, sulla cooperazione decentrata italiana, sui programmi europei e della Banca Mondiale, sul ruolo delle ONG, sono raccolte nel Dossier ASCOD scaricabile dal sito del CeSPI.
Il titolo della mia comunicazione è Riflessioni sul ruolo delle ONG nel decentramento albanese. Bene, se parliamo di ONG italiane dico subito che le ONG non dovrebbero avere nessun ruolo. È perlomeno poco rispettoso della democrazia e delle istituzioni di un paese sovrano pensare che delle ONG straniere possano essere parte in causa e addirittura insegnare qualcosa rispetto ai processi di decentramento.
Purtroppo questa non è cosa scontata. Troppe volte in questi anni abbiamo visto grandi ONG internazionali, ma anche piccole, assumersi il compito di insegnare ai governi e alle istituzioni politiche sociali, istituzionali ecc… Col paradosso che molte di queste ONG avevano operatori che guadagnavano quanto dieci ministri, oppure avevano bilanci superiori a quello di qualsiasi ministero.
Questo, evidentemente, non è il modo migliore per cooperare che, come si sa, significa operare assieme. Non voglio comunque fermarmi a questo tipo di considerazioni moralistiche. Spesso infatti la mancanza di rispetto si accompagna, in molte ONG, all’arrogante presunzione di poter imporre un modello valido per ogni paese considerato in transizione, dove per transizione si intende il passaggio dal comunismo alle magnifiche sorti e progressive della liberaldemocrazia e del capitalismo. Sulla transizione mi fermo, per motivi di brevità, anche se potremmo stare a parlare per giorni, come già del resto il Cespi fa ottimamente.

Cambia il discorso se pensiamo che debbano essere le ONG albanesi ad avere un ruolo nelle politiche di decentramento del loro paese. Dirò quindi che le ONG devono avere un ruolo importante. Ma quale?
Beh, allora dobbiamo intenderci sul significato della parola decentramento. Se per decentramento intendiamo una perdita progressiva di potere da parte dello stato nel campo, per esempio dei servizi sociali, e un affidamento di questi ai provati sul territorio, allora le ONG assumeranno il ruolo di distributrici di servizi, andando a creare una sorta di classe media di professionisti dell’assistenza, che nulla a che fare con l’idea di associazionismo orientato alla trasformazione sociale, che ancora oggi in Italia cerchiamo di difendere come uno dei patrimoni migliori della nostra tradizione democratica.
Badate, questo fenomeno è già in atto in Albania. Molte ONG sono nate infatti solamente sulla spinta dell’enorme afflusso di denaro che è entrato in quei paesi a seguito dei rivolgimenti politici, ad opera dei grandi donatori internazionali. Le attività di molte ONG non partono da un reale radicamento sul territorio, né da una profonda elaborazione a partire dai bisogni del tessuto sociale in cui operano. Molti interventi vengono inoltre imposti dai donatori internazionali, soprattutto anglosassoni, spesso caratterizzati da scarsa attenzione alle tematiche sociali genericamente orientate ad una superficiale enunciazione di principio sui diritti umani e sull’informazione rispetto a determinati temi (educazione sessuale e sanitaria, convivenza multietnica, multilinguismo ecc…). Chi venisse in contatto con la maggior parte delle associazioni albanesi può sentirsi rispondere spesso che il loro maggior vanto è quello di non essere legate a nessuno schieramento politico e soprattutto di non avere nessuna preferenza politica. Questo potrebbe sembrare ad un osservatore disattento un indice di autonomia, proprio delle buone espressioni di società civile. In realtà possiamo affermare che nella maggioranza dei casi ci troviamo di fronte ad associazioni che si dichiarano impolitiche per il fatto molto più semplice di non avere nessuna idea di cambiamento e di progresso rispetto alla società in cui vivono. L’associazionismo si configura quindi come un’occasione di lavoro nel mercato dell’assistenza sociale, che anche in Albania, come in altri paesi dei Balcani e dell’est europeo, sta creando un funzionariato del welfare che si rapporta col potere politico locale non in base ad un progetto di trasformazione sociale, ma in funzione lobbistica, per ottenere favori, finanziamenti e sponsorship nei confronti dei grandi donatori internazionali.
Tale impoliticità, inoltre, nasconde un preciso progetto politico da parte dei donatori internazionali che finanziano le ONG e le associazioni albanesi. È evidente che essa piace ai donatori internazionali (prevalentemente anglosassoni) che possono imporre così il loro modello assistenziale privatistico. Le ONG ricevono milioni di dollari di finanziamento per attività in campo sociale e sanitario e sono così in grado di competere con il sistema pubblico, dando però un servizio peggiore, dal momento che il più delle volte si avvalgono di giovani scarsamente preparati ma pagati molto di più dei professionisti che operano nel pubblico statale.
Se invece pensiamo al decentramento come ad una politica che valorizzi i tessuti sociali, culturali ed economici di ogni territorio, e quindi la partecipazione dei cittadini, allora le ONG diventano, non più dispensatrici di servizi, ma agenti della partecipazione e della trasformazione sociale. Le ONG non solo allora quelle che sottraggono potere e competenze allo stato, secondo una vulgata liberaldemocratica che vorrebbe la società civile sempre buona qualunque cosa essa faccia, appropriandosi della gestione dei servizi. Sarebbero invece quei soggetti politici che si fanno carico dei problemi delle fasce più deboli della società, non in termini meramente assistenziali, ma di difesa dei diritti sociali e politici che le istituzioni devono garantire. Questo può poi avvenire in un sistema misto in cui sia in vigore il principio della sussidiarietà, ma ciò non toglie che le ONG debbano effettivamente essere radicate sul territorio ed espressione delle istanze sociali di quello.
Qui diventa importante il ruolo delle ONG italiane, nella proposizione di un modello associativo che privilegi il coinvolgimento diretto dei cittadini e delle cittadine e dei beneficiari stessi, per creare legame sociale e proporre forme di partecipazione democratica dal basso. In sostanza si tratta di un modello imperniato sulla conquista dell’autonomia da parte delle associazioni e delle ONG attraverso la conoscenza del territorio e la conseguente pratica di riappropriazione del territorio stesso, attraverso la creazione di spazi sociali di discussione, proposizione e creazione culturale ed economica.

Avere ONG che conoscono il territorio, i problemi sociali e le potenzialità del territorio stesso, che siano in grado di dialogare con i poteri locali, che siano capaci di formare cartelli su campagne specifiche, è sicuramente un contributo maggiore alla democrazia e al decentramento albanese, piuttosto che una miriade di ONG che competono sul mercato degli aiuti umanitari e di cooperazione internazionali o nazionali. E questo lo dico da italiano che più che non sente di avere qualcosa da insegnare agli albanesi, ma è invece consapevole del fatto che anche in Italia il modello dell’associazionismo radicato sul territorio e orientato socialmente è in pericolo e rischia di essere coinvolto nella competizione in uno stato sociale e assistenziale essenzialmente privatistico. ONG con una forte coscienza sociale e politica, e radicate sul territorio (gli inglesi direbbero grassroot) sono una risorsa per la democrazia nell’epoca della globalizzazione in Italia come in Albania, nell’Europa occidentale come nei Balcani. E quindi le ONG italiane dovrebbero sentire il bisogno di cooperare con quelle albanesi, nella consapevolezza che i processi di cooperazione sono sempre biunivoci e rafforzano reciprocamente i soggetti che li praticano.
Il Consorzio Italiano di Solidarietà è capofila di un progetto che ha visto la costituzione di 11 centri giovanili in Albania, finanziato dal Dipartimento Affari Sociali presso la Presidenza del Consiglio, ora Ministero del Welfare.
I centri giovanili rappresentano per i giovani albanesi un luogo in cui produrre socializzazione e riflessione sulla società albanese e sulle città in cui vivono. Nei centri i giovani scoprono che è possibile smontare il modello culturale dominante, quello della ricchezza ostentata e della volgarità. I centri diventano così il luogo della denuncia e della produzione di cultura fondata sui valori della responsabilità e della speranza per i giovani che vogliono crescere consapevolmente e senza scorciatoie. Nei centri sono quindi stati organizzati dibattiti sull’emigrazione, sulle piramidi finanziarie, sullo scempio edilizio delle città e della costa albanese, sulla prostituzione, sull’imprenditoria giovanile e sulle politiche del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale per l’Albania… Stanno nascendo nei centri giovanili dei veri e propri operatori sociali che stanno a contatto con il territorio, sanno interpretarlo e in questo modo riescono a costruire un’identità realmente consapevole, perché il problema sociale non è mai un’emergenza oggettiva, ma essenzialmente un oggetto che si costruisce a partire dall’analisi di tutto il contesto sociale e dalla conoscenza/interpretazione dello stesso.

Uno degli obiettivi del progetto è anche quello di institutional building rispetto alle politiche giovanili nei confronti dell’AGASS, il corrispondente del nostro ex Dipartimento Affari Sociali. Ho detto all’inizio che le ONG straniere non dovrebbero avere ruolo nell’institutional building, e lo confermo. Nel caso dei centri giovanili non deve essere l’ICS a rapportarsi con l’AGASS. All’ICS dovrebbe spettare il ruolo di far sì che siano le ONG e i soggetti dei centri giovanili a diventare interlocutori del loro governo. Sono le ONG albanese a dover essere protagoniste del decentramento nel loro paese.
Vedete, spesso si lamenta una difficoltà di rapporto fra ONG italiane e istituzioni locali albanesi. Voglio dire chiaramente che capisco il risentimento degli amministratori albanesi quando giovani cooperanti catapultati dalla ricca Italia in Albania, con lauti stipendi e senza sapere nulla di quel paese, vogliono insegnare ad un sindaco come amministrare la propria città. (parentesi sulla questione stipendi).
Le ONG italiane devono invece lavorare assieme alle ONG albanesi per rafforzare ovunque in Albania i luoghi di socialità. L’Albania è quella parte marginalizzata del sud europeo che sta fuori da tutti i meccanismi che producono ricchezza. Il problema non è solo quello di dare dell’Albania un’immagine migliore in Italia, è quello di saldare l’impegno di tutti i sud europei per uno sviluppo nel Mediterraneo alternativo a quello della globalizzazione che lascia alle aree marginalizzate le briciole della beneficenza. Le ONG, sia internazionali sia albanesi, devono pretendere di non svolgere l’azione di dispensatrici della beneficenza. Occorre porre il problema dello sviluppo per il Mediterraneo all’interno di un quadro cooperativo di mercato non sottomesso al controllo delle imprese transnazionali.
E’ necessario costruire allora in Albania luoghi di riflessione su queste tematiche per le associazioni e le ONG. Luoghi in cui le risorse culturali, sociali, produttive e istituzionali possano incontrarsi e progettare, a partire proprio dai giovani, percorsi autonomi di sviluppo. In Albania, culture e colture devono tornare a intrecciarsi ed i sistemi produttivi radicarsi al territorio ed alle popolazioni che vi abitano.

Per concludere vorrei segnalare che in questi anni, soprattutto grazie al grande sforzo del Dipartimento Affari Sociali, in Albania si sono costruiti molti luoghi di aggregazione sociale: i centri donna, i centri giovanili, le case famiglia ecc… Cominciamo a pensare che anche quelli sono luoghi del decentramento, in cui le ONG albanesi, a partire dall’esperienza concreta sul campo possano diventare interlocutori delle istituzioni e delle altre risorse culturali ed economiche sul territorio. Hanno già le sedi in cui convocare gli amministratori locali, gli intellettuali, gli imprenditori, le scuole per impostare un modello istituzionale, magari ancora informale, in cui i vari soggetti di una determinata città possono incontrarsi e pensare assieme al proprio futuro e alla propria democrazia, aldilà dei ricatti dei grandi donatori, delle grandi agenzie economiche.

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