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Il programma dei vincitori

Concluso lo spoglio delle schede elettorali, il dibattito politico in Bosnia Erzegovina si concentra sulle possibili alleanze per dare vita al nuovo governo

31/10/2014, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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I conteggi e riconteggi delle schede depositate nelle urne dai cittadini bosniaci lo scorso 12 ottobre sono continuati per tutto il mese, tra accuse di brogli e inchieste su possibili frodi elettorali. La lentezza nella definizione dei risultati ufficiali ha scatenato l’ironia di alcuni commentatori locali, che hanno fatto un paragone impietoso con le presidenziali in Brasile, calcolando che gli scrutatori bosniaci sono stati 8.500 volte più lenti dei colleghi brasiliani. I nuovi risultati tuttavia, comprensivi dello scrutinio dei voti depositati all’estero dalla diaspora nelle sedi diplomatiche e consolari, non hanno evidenziato drastici cambiamenti rispetto a quanto emerso nei primi giorni dopo le elezioni. I nuovi presidenti della Bosnia Erzegovina saranno Bakir Izetbegović (bosgnacco), Dragan Čović (croato) e Mladen Ivanić (serbo). In Republika Srpska, Milorad Dodik ha vinto di misura contro l’avversario dell’Alleanza per il Cambiamento, Ognjen Tadić, e rimarrà alla presidenza dell’entità per i prossimi 4 anni. Nella Federacija BiH, il Partito di Azione Democratica (SDA) di Izetbegović è il chiaro vincitore delle elezioni, risultando il primo partito in tutti i cantoni con una maggioranza bosniaco musulmana. L’SDA ottiene anche il maggior numero di seggi (29 su 98) nel parlamento federale. La recente morte di Sulejman Tihić sposta verosimilmente il baricentro del partito verso destra – per quanto queste categorie possano valere nella politica bosniaca – nel quadro di una progressiva identificazione della vittoriosa forza politica con il suo leader, Bakir Izetbegović. L’SDA ha infine il più alto numero di rappresentanti anche nel parlamento dello Stato (9 su 42), seguito da SNSD (6), Fronte Democratico e SDS, entrambi con 5 e a seguire dagli altri.

I risultati definitivi confermano dunque in larga parte il successo dei partiti che, con qualche parentesi, hanno dominato la scena politica bosniaca dagli anni ’90 ad oggi. Più che partiti nazionalisti, come vengono usualmente definiti, andrebbero forse catalogati ormai come partiti “conservatori”, per la loro vocazione a conservare il sistema etno-politico di Dayton che li legittima e in qualche modo ne garantisce la riproduzione. Particolarmente in sintonia, nella prima fase dei colloqui preliminari alla formazione dei nuovi governi, sono l’SNSD di Milorad Dodik e l’HDZ di Dragan Čović, che si sono incontrati giovedì scorso a Mostar e hanno invitato l’SDA a unirsi a loro per dare vita ai nuovi esecutivi.

Il crac

Uno dei dati su cui maggiormente riflettono i commentatori è tuttavia il crollo del partito Socialdemocratico (SDP), secondo alcuni il risultato più rilevante di queste elezioni. I socialdemocratici perdono praticamente due terzi dei voti rispetto al 2010, hanno solo 3 rappresentanti al parlamento dello Stato e 13 in quello della Federazione, dove ne perdono 15. La sconfitta è resa più amara dal naufragio nelle roccaforti del partito, come a Tuzla, tradizionale feudo socialdemocratico, dove precipitano al 13%, mentre l’SDA schizza al 32%.

In questi giorni sui media locali si sono susseguite le analisi sulle ragioni della sconfitta del maggiore partito dichiaratamente multietnico nella Bosnia post Dayton. Le spiegazioni si concentrano sugli eccessivi tatticismi del leader, episodi di corruzione, in generale sull’incapacità di una forza che si definisce di sinistra di fornire una vera alternativa al modello politico ed economico dominante.

Selim Bešlagić, ex sindaco di Tuzla e ancor oggi uno dei più popolari politici socialdemocratici, ha elencato tra le ragioni della sconfitta la “perdita del contatto con la base” e l’eccessivo personalismo del leader. Se la base del partito sono (erano?) gli operai e i cittadini dei maggiori centri urbani della Federazione, questi erano rimasti chiaramente delusi dall’atteggiamento tenuto dall’SDP dopo le recenti rivolte della primavera, quando il partito era apparso più vicino all’establishment che alla richiesta di cambiamento.

Quasi tutti i commentatori in ogni caso concordano sul fatto che queste elezioni decretano la fine dell’era Lagumdžija, uno dei politici bosniaci più longevi, alla guida dell’SDP dal 1997. Il congresso del partito è stato convocato per il prossimo 6 dicembre e avrà verosimilmente come priorità, oltre al rinnovo della leadership, la discussione sulla necessaria ristrutturazione (democratizzazione) interna.

La sconfitta socialdemocratica, secondo alcuni, era segnata, dopo la decisione di Željko Komšić, rappresentante croato della presidenza eletto nelle liste del partito, di lasciare l’SDP in polemica con Lagumdžija per dare vita ad una nuova formazione civica e multietnica, il Fronte Democratico (DF). È vero che gran parte dei voti persi dall’SDP sono probabilmente andati al DF (che ottiene 14 parlamentari nella Federazione), ma è anche vero che i voti socialdemocratici più quelli del Fronte Democratico non fanno i voti raccolti dall’SDP nel 2010, segnalando che parte dell’elettorato orientato verso scelte civiche e non nazionali ha semplicemente deciso di non votare. Il risultato di Naša Stranka, che ottiene un parlamentare alla Federazione, nonostante l’entusiasmo generato tra i sostenitori, non modifica il quadro complessivo.

Le nebbie autunnali

Contatti e discussioni tra i partiti vincitori delle elezioni proseguono nelle “nebbie autunnali”, come le ha definite ieri su Oslobodjenje il commentore Gojko Berić. L’oggetto delle discussioni è stato malignamente stigmatizzato dal leader del Fronte Democratico, Komšić, che ha dichiarato di non voler trattare “per essere al governo a tutti i costi, così da poter decidere a chi va la dirigenza della Telekom, a chi la Elektroprivreda, a chi la direzione di strade e autostrade”.

Il punto è capire se i vincitori delle recenti elezioni saranno in grado di superare i vizi intrinseci al quadro politico post Dayton, dando vita a governi in grado di governare. In un recente intervento su Balkan Insight , il professor Florian Bieber ha sostenuto che “le linee che distinguono governo e opposizione [in Bosnia Erzegovina] sono divenute così sfumate che la combinazione di molteplici livelli di amministrazione, grandi coalizioni e maggioranze instabili produce una dinamica per cui nessuno è al potere e nessuno è responsabile.” Su questa linea anche il noto analista sarajevese Srećko Latal, che ha pubblicato un editoriale estremamente pessimista sul futuro della Bosnia Erzegovina. Secondo Latal, “ritardi nella formazione dei governi potrebbero avere effetti devastanti su di un paese già impoverito da anni di crisi politica, economica e sociale, e ulteriormente segnato dalle catastrofiche alluvioni del maggio e agosto di quest’anno”.

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