“Il Paese che non c’è”: la Bosnia Erzegovina tra transizione, contraddizioni e diritti negati
Il libro di Simona Silvestri, per i tipi di Infinito edizioni, traccia un quadro plurale e complesso delle sfide che affronta la Bosnia Erzegovina oggi: tra eredità del conflitto e situazioni comuni al resto d’Europa
Si è scritto molto – e si continua a farlo – sulla guerra in Bosnia Erzegovina: se la pubblicistica sugli anni del conflitto è infatti più che fiorente, resta ancora molto da scrivere e comprendere sugli oltre vent’anni successivi. Proprio sul dopoguerra e sulle conseguenze prodotte da uno dei conflitti più drammatici della seconda metà del Novecento si concentra il libro di Simona Silvestri, “Il Paese che non c’è” (Infinito edizioni, 2017).
Racconto corale
Diritti negati, crisi economica e sociale, corruzione, jugonostalgia sono alcuni dei temi che l’autrice approfondisce in questo suo reportage attraverso le tante contraddizioni e sfumature del paese, in una carrellata di ritratti di personaggi che contribuiscono ad appassionare il lettore e a coinvolgerlo nella lettura. Importanti personalità, come il generale Jovan Divjak o Kemal Kurspahić, direttore del quotidiano Oslobodjenje durante l’assedio di Sarajevo, si affiancano a persone comuni – attivisti, volontari impegnati nell’inclusione dei rom, giovani giornalisti, operai – per raccontare la complessità di un paese.
Le diverse storie di persone e luoghi forniscono il pretesto per raccontare le macro tematiche che interessano la Bosnia Erzegovina: una riconciliazione ancora irrisolta, le tensioni sociali e i diritti negati alle minoranze; le divisioni tra gruppi nazionali, favorite da una politica avida che trasforma tutto in terreno di scontro, anche la riapertura della Biblioteca di Sarajevo; il tentativo di Srebrenica di tornare a vivere dopo il genocidio.
Ed è proprio questo doppio registro tra storie “comuni” e questioni più ampie a rendere il libro di facile comprensione anche per chi non è dentro le questioni balcaniche: a chi continua a disegnare questo Paese in preda al fondamentalismo islamico oppure a odi atavici, destinati a durare per i secoli dei secoli, vengono contrapposte le storie di Irvin, tornato a Srebrenica per aprire un’attività di promozione turistica nel nome della conciliazione, o quella degli operai della Dita di Tuzla, vittime delle privatizzazioni e impegnati a lottare per i loro diritti.
Sono tanti gli argomenti toccati, come i diritti il più delle volte negati della minoranza rom e Lgbti; le rivendicazioni sindacali e sociali dei lavoratori colpiti dalle privatizzazioni; la crisi economica che colpisce duramente soprattutto le giovani generazioni; le mille problematiche legate alla libertà di stampa o la mancanza di un’educazione e, soprattutto, di una memoria condivise.
La Bosnia Erzegovina come paradigma
Tanti tasselli che contribuiscono a restituire l’affresco di un paese che, nella sua complessità, viene considerato dall’autrice come un punto di osservazione privilegiato, soprattutto in un tempo in cui i nazionalismi segnano sempre più forte la loro avanzata e la religione diventa terreno di scontro per emarginare le minoranze, un laboratorio dove analizzare tendenze e fenomeni politici e sociali accaduti qui prima che altrove. Come si legge nell’introduzione al libro, “nel suo piccolo la storia della Bosnia è un paradigma di quella del vecchio continente: un’entità in crisi, divisa in blocchi, sociali, economici e culturali. Così come l’Unione europea sembra oggi incapace di trovare un’identità comune assorbendo le divisioni sociali, economiche e culturali di cui ciascuno stato membro è portatore, così la Bosnia appare divisa e incapace di unificare le medesime istanze di maggiore giustizia sociale”.
Il libro di Simona Silvestri – arricchito dalla prefazione della giornalista e scrittrice bosniaca Azra Nuhefendić e da un contributo del musicista e scrittore Massimo Zamboni, che ricorda il concerto dei Csi a Mostar nel 1998, oltre alla testimonianza di Andrea Cortesi, direttore di Iscos Emilia-Romagna – ha il pregio di offrire un quadro lucido e non partigiano di una ‘nazione non nazione’, ancora sospesa, come recita lo stesso sottotitolo, tra contraddizioni, transizione e diritti negati e crisi sociale, incapace di trovare un’identità unitaria a seguito (o a causa) delle decisioni prese a Dayton nel 1995.
Un paese che non c’è, secondo le parole ironiche dell’autrice, e che pur esistendo come entità politica e geografica, deve ancora iniziare a lavorare sulla costruzione di un senso di comune appartenenza. Come all’indomani dell’unificazione, l’imperativo era fare gli italiani, allo stesso modo, chiudendo il libro, verrebbe da dire che, disfatta la Jugoslavia, occorrerebbe ricostruire quel concetto di unità e fratellanza che è stato gravemente compromesso con la guerra.
Resta da capire se c’è davvero qualcuno ancora interessato a farlo.
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