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Il negoziatore

Note a margine della riapertura del processo Karadžić. La strategia dell’imputato e quella del Tribunale, il percorso tortuoso della giustizia per i crimini contro l’umanità commessi negli anni ’90 in Europa

01/03/2010, Andrea Oskari Rossini -

Il-negoziatore

Questa mattina alle 9.00, nell’aula 1 del Tribunale Penale dell’Aja per la ex Jugoslavia (TPI), riprende il processo contro Radovan Karadžić. Il procedimento era iniziato il 26 ottobre scorso, ma si era subito interrotto. L’ex presidente dei serbi di Bosnia, che ha scelto di difendersi da solo, aveva infatti disertato le udienze successive alla prima (27 ottobre e 2 novembre) sostenendo di aver bisogno di più tempo per prepararsi. I giudici hanno accolto la sua richiesta, assegnandogli però allo stesso tempo un avvocato. Se l’imputato sceglierà nuovamente di non presentarsi, il processo andrà avanti senza di lui.

Karadžić aveva chiesto un rinvio di dieci mesi. Ne ha guadagnati quattro. E’ un buon negoziatore. Lo ha già dimostrato in un periodo non troppo lontano della nostra storia (1992-95) prendendo in giro per anni la diplomazia europea ed internazionale. Ora, nell’arena del TPI, sembra avviato a confermare le sue capacità.

L’ex capo politico dei serbi di Bosnia è stato arrestato su un autobus di Belgrado il 21 luglio 2008, dopo 13 anni di latitanza. Karadžić è accusato, tra l’altro, di genocidio (Srebrenica), crimini contro l’umanità, della campagna di bombardamenti condotta contro la città di Sarajevo e di violazione delle leggi e delle usanze di guerra.

Il 20 novembre scorso il Tribunale ha deciso di assegnare alla sua difesa l’avvocato inglese Richard Harvey, per rappresentare l’imputato nel caso che quest’ultimo disertasse nuovamente l’aula. Questo non preclude la possibilità per Karadžić di continuare a difendersi da solo.

Il primo febbraio, però, Karadžić ha contestato questa decisione chiedendo un ulteriore rinvio, e sostenendo di essere stato privato del diritto alla difesa. L’imputato è inoltre ricorso contro la quantità di risorse "troppo scarsa" destinata dal TPI alla sua difesa. Patrick Robinson, presidente del TPI, ha accolto quest’ultima richiesta, finanziando ulteriori 1.200 ore lavorative per le 8 persone che lo assistono. La nuova richiesta di rinvio è stata però respinta.

Nell’imminenza della riapertura del processo, Karadžić si è infine rivolto a diversi Stati, chiedendo loro di fornire documentazione sulla guerra in Bosnia Erzegovina. Il 15 febbraio, nel corso di una sessione organizzata dal Tribunale per decidere su queste richieste, Karadžić si è appellato al governo francese perché presenti le prove su "come i musulmani hanno ucciso la propria gente a Sarajevo … Qui, in quest’aula, si vedrà che nulla era così come sembrava. Tutto era diverso" (V. BIRN, Balkan Investigative Reporting Network, Justice Report, 15 febbraio 2010).

L’ex presidente della RS ha poi chiesto a Germania, Croazia, Bosnia Erzegovina e Iran di presentare la documentazione relativa alla violazione dell’embargo di armi in vigore durante la guerra in Bosnia Erzegovina.

Il fattore tempo

La scelta di Karadžić di basarsi sull’autodifesa rende molto difficile fare delle previsioni sulla durata del processo. Il Tribunale però non ha molto tempo a disposizione. Ogni sei mesi il suo presidente invia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un rapporto chiedendo un prolungamento del mandato della Corte. Per quanto riguarda il processo Karadžić, l’ultimo grande processo avviato all’Aja, Robinson ritiene di poter terminare il primo grado entro la fine del 2012 e l’appello entro febbraio 2014. Due ricercati, Mladić e Hadžić, restano latitanti.

Già nel 2004, però, il Consiglio di Sicurezza aveva chiesto al TPI (creato nel 1993) di concludere tutti i processi di primo grado entro il 2008 e di chiudere i lavori entro il 2010.

Il 3 dicembre scorso il Consiglio ha ridiscusso queste scadenze. I pareri sono discordi. Secondo il rappresentante della Federazione Russa, la missione del TPI (e del Tribunale per il Rwanda) "è giunta alla fine" sia sotto il profilo giuridico che politico. Non c’è "alcuna giustificazione per privare del loro diritto sovrano Stati il cui sistema giudiziario è ormai indipendente".

Diritto all’autodifesa

Prima di Karadžić, già Slobodan Milošević e Vojislav Šešelj avevano scelto di difendersi da soli, rifiutando l’assistenza degli avvocati. Il primo è morto per arresto cardiaco nella sua cella, quattro anni dopo l’inizio di un processo che era ancora ben lungi dal concludersi. Il procedimento contro Šešelj, trasferito all’Aja il 26 febbraio 2003, è iniziato solo il 27 novembre 2006, dopo lunghe schermaglie procedurali. Non si è ancora concluso.

All’inizio Šešelj, come ora Karadžić, ha boicottato le udienze non presentandosi e richiedendo il diritto a difendersi da solo.

Quando infine gli è stato imposto un legale, l’imputato ha rifiutato di collaborare con la Corte insultando ripetutamente i giudici. In una seduta ha addirittura dichiarato che i rappresentanti del Tribunale potevano solo succhiargli il c…. Alla fine della diatriba gli è stato confermato il diritto ad auto-rappresentarsi.

Difendersi da soli è infatti un diritto degli imputati dell’Aja. La norma è riconosciuta dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 (art. 14 par. 3) ed è accolta nello Statuto del Tribunale.

Le regole del TPI, tuttavia, chiariscono che il diritto all’autodifesa non è assoluto, e che la Corte può "se decide che questo è negli interessi della giustizia, chiedere alla Cancelleria l’assegnazione di un consulente legale per rappresentare gli interessi dell’accusato" (v. Simon Jennings, Self-representation under scrutiny, Institute for War and Peace Reporting, Tribunal Update n. 623, 6.11.2009).

Secondo l’analisi di diversi giuristi, la strategia autodifensiva degli imputati, in tutti e tre i casi, è sembrata orientarsi a dilatare i tempi del dibattimento, trasformando un procedimento giudiziario in un dibattito politico.

E’ naturale che i processi all’Aja abbiano una dimensione politica. Gli imputati però sono accusati di reati concreti. Karadžić deve rispondere di undici capi di imputazione. Perché la guerra è iniziata, di chi sono le responsabilità, se Holbrooke nel 1996 ha fatto un patto con lui oppure no (questione che ha occupato gran parte dei dibattiti preliminari) non dovrebbe essere materia che interessa il dibattimento. Fucilare in massa dei prigionieri, civili o militari, e poi nasconderli in fosse comuni, dovrebbe essere un reato giudicato a prescindere dal contesto politico regionale od internazionale. Il fatto che alcuni Paesi abbiano violato l’embargo in vigore verso la ex Jugoslavia può risultare causa attenuante rispetto a crimini come lo sparare sulla gente per strada?

I giudici devono bilanciare esigenze diverse. L’accertamento della verità, il diritto delle vittime ad un risarcimento, il diritto dell’imputato al giusto processo. E’ un equilibrio delicato. Se la Corte decidesse di non tergiversare a fronte di continue richieste di rinvio, e l’imputato non si presentasse più in aula, il processo risulterebbe depotenziato. Molti interrogativi cui Karadžić potrebbe rispondere resterebbero senza risposta.

La credibilità del Tribunale

L’autorità del TPI nei Balcani è stata recentemente minata da due avvenimenti: la condanna della giornalista francese Florence Hartmann e il rilascio dell’ex vice di Karadžić, Biljana Plavšić.

La Hartmann è stata condannata per aver parlato nel suo libro "Paix et châtiment" e in un articolo per il Bosnian Institute di una decisione dei giudici del TPI. Il caso riguardava materiale documentale che il TPI avrebbe potuto inviare alla Corte Internazionale di Giustizia impegnata a deliberare sul caso Bosnia Erzegovina contro Serbia per violazione della convenzione sul crimine di genocidio.

La condanna della giornalista è stata stigmatizzata da numerose associazioni di vittime, media e rappresentanti della società civile, come un pessimo segnale di censura del lavoro di operatori dell’informazione (quand’anche ex funzionari della stessa istituzione). La vicenda ha proiettato un’ombra sul lavoro del Tribunale e sul suo rapporto con altre istanze giuridiche internazionali.

E’ stata la liberazione di Biljana Plavšić, però, a gettare nello sconcerto le vittime e le loro associazioni.

La Plavšić si era consegnata alla giustizia nel 2001, patteggiando l’accusa di genocidio e crimini di guerra commessi quando era la vice di Radovan Karadžić. Il 27 febbraio 2003 era stata condannata a 11 anni di carcere per crimini contro l’umanità. In cambio dell’ammissione di colpa, e del patteggiamento, le accuse più gravi, inclusa quella di genocidio, erano state ritirate. La sentenza finale, particolarmente lieve, era stata motivata dal fatto che l’imputata si era consegnata spontaneamente e aveva espresso il proprio pentimento. Dopo 7 anni trascorsi in un carcere svedese, è stata liberata.

Le modalità del suo ritorno hanno rinfocolato le polemiche che avevano già accompagnato la sentenza. In particolare una: è possibile patteggiare un crimine come quello di genocidio? Ora il clima si è arroventato per elementi ulteriori, meno attinenti alla tecnica giuridica. La Plavšić è stata accolta a Belgrado come un’eroina. Non dal governo, ma solo "perché questo ne avrebbe danneggiato la reputazione internazionale" (v. la dichiarazione del ministro per gli Affari Sociali Rasim Ljajić, cit. in RFE, A Land Where War Criminals Are Heroes, di Nenad Pejić, 31 ottobre 2009). Il Primo ministro della Republika Srpska, Milorad Dodik, l’ha abbracciata, accogliendola in pompa magna al suo ritorno nell’entità serba di Bosnia.

Ex professoressa di biologia all’Università di Sarajevo, la Plavšić era nota per aver dichiarato che i musulmani erano un "difetto genetico del corpo serbo". Aveva definito la pulizia etnica dei non serbi come un "fenomeno naturale", non un crimine. I media avevano pubblicato sue foto mentre abbracciava il paramilitare serbo Željko Raznatović Arkan dopo la "conquista" di Bijeljina, con sullo sfondo i corpi dei civili uccisi.

Plavšić è stata liberata dopo aver scontato i due terzi della pena. Interpellato in merito al possibile rilascio, nel settembre scorso il TPI aveva acconsentito, per l’età dell’imputata e la buona condotta mostrata in carcere ("ha partecipato alle passeggiate organizzate dal penitenziario e si è occupata molto di cucina").

Nel 2005, però, la detenuta aveva affermato dal carcere a media serbi e svedesi di aver ammesso la propria colpa solo per ottenere una sentenza più lieve, e di aver mentito (!) nella sua dichiarazione di pentimento. La sua confessione, aveva dichiarato la ex presidente della Republika Srpska ai media, era stata solo "una farsa" (v. Walking and Baking for War Criminals, di Anes Alić, ISN Security Watch, 10.11.2009).

Giustizia per le vittime

Le vittime hanno bisogno di risarcimento, non di teatro. Hanno bisogno di capire quello che viene fatto dalla giustizia internazionale e perché. Sotto questo profilo, quello della comunicazione, l’azione del TPI è stata finora ampiamente deficitaria. Il processo Karadžić rappresenta una nuova occasione. Se si trascinerà in un lungo negoziato, in una battaglia legale dai contorni sfumati, l’autorità del Tribunale potrebbe subire un nuovo colpo. Nonostante gli importantissimi risultati sin qui raggiunti.

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