Il nazionalismo uccide
“Il nazionalismo uccide e le uccisioni commesse in suo nome nazionalizzano” così il celebre etnologo serbo Ivan Čolović sintetizza i pericoli del nazionalismo e in particolare di quella sua forma ben nota di nazionalismo etnico
(Originariamente pubblicato da Peščanik, il 24 dicembre 2021, poi ripreso dal portale Buka, il 4 gennaio 2022)
Sono ormai anni che scrivo e parlo di temi quali riconciliazione, confronto con il passato, linguaggio d’odio e nazionalismo, e ora che sto per trattare nuovamente questi argomenti temo di ripetermi, potrebbe sembrare che io percepisca le cose allo stesso modo in cui le percepivo dieci o vent’anni fa, senza accorgermi che la situazione è cambiata.
Per quanto riguarda la riconciliazione, oggi la situazione è forse persino peggiore rispetto al passato. Perché il processo di riconciliazione si è interrotto. Sempre più spesso ci si chiede se nei Balcani stia per scoppiare una nuova guerra, l’estrema destra militante è cresciuta, compaiono nuovi partiti, movimenti e gruppi che non solo rifiutano l’idea di una riconciliazione basata sulla necessità di prendere le distanze dai crimini commessi durante le guerre degli anni Novanta, ma addirittura glorificano i criminali di guerra condannati, considerandoli eroi nazionali. Lo dimostra il caso di un murales raffigurante Ratko Mladić a Belgrado, ma anche l’atteggiamento del ministro [dell’Interno serbo] Vulin, il quale ha dichiarato che tiene più a Ratko Mladić che a Nataša Kandić.
I fenomeni di cui sopra ci pongono di fronte ad una domanda: stiamo assistendo alla rinascita del fascismo? Anzi, di fronte a due domande interconnesse tra loro. Ci si chiede innanzitutto se abbia ragione chi interpreta i crimini commessi durante le guerre jugoslave degli anni Novanta come espressione del fascismo. Questa prima domanda ne solleva un’altra: i fenomeni a cui assistiamo oggi, ossia il rifiuto di riconoscere i crimini compiuti negli anni Novanta e la glorificazione dei criminali di guerra come eroi, dovrebbero essere interpretati in un’ottica di continuità, attribuendoli al persistere dell’ideologia fascista?
Si tratta di domande importanti e io – come farebbe ogni persona che non sopravvaluta le proprie capacità – cercherò di fornire solo alcuni elementi di una possibile risposta. Innanzitutto non vi è dubbio che nella propaganda delle guerre degli anni Novanta, così come nell’attuale tendenza a esaltare i perpetratori dei crimini commessi in quelle guerre come se fossero eroi, è possibile riconoscere una matrice fascista, e persino alcune somiglianze e analogie con il fascismo storico. Richiamare l’attenzione sull’esistenza di tale matrice è molto importante, ma non basta. Negli anni Novanta del XX secolo nell’ex Jugoslavia non c’era bisogno di promulgare le leggi razziali e di instaurare uno stato fascista affinché venissero commessi i peggiori crimini possibili, la pulizia etnica e il genocidio, e oggi in Serbia questi crimini vengono glorificati come atti eroici anche se non si tratta di un paese fascista. Affinché si verificassero entrambi i fenomeni, ossia il compimento e la glorificazione dei crimini, era, ed è tuttora necessaria la presenza di un altro elemento che non viene indicato con un termine così terrificante come fascismo o nazismo, bensì con un’espressione che non è appesantita da connotazioni legate ai crimini: nazionalismo etnico.
Tuttavia, il nazionalismo etnico ha il potenziale sufficiente per sfociare in crimini, quando se ne presenta l’occasione, come quella presentatatsi da noi negli anni Novanta, un’occasione che il nazionalismo etnico seppe sfruttare al massimo. Pertanto credo che l’Associazione per la ricerca sociale e la comunicazione di Brčko, fondata da Edvin Kanka Čudić, abbia scelto un motto del tutto appropriato: il nazionalismo uccide!
Le guerre jugoslave degli anni Novanta non vennero combattute in nome della razza – anche se non mancarono elementi razzisti [1] – bensì in nome della cultura e dell’identità. L’idea di base era quella secondo cui per garantire la sopravvivenza di una cultura e di un’identità nazionale sarebbe stata necessaria una radicale demarcazione etnica, permettendo così ad ogni popolo di avere un suo spazio esclusivo, un proprio stato, un mondo basato sulle caratteristiche razziali del popolo che lo abita, sul carattere razziale di questo popolo, ovvero – come si dice oggi – sulla sua cultura e l’identità nazionale.
L’attuazione di questo progetto durante le guerre combattute negli anni Novanta in ex Jugoslavia ha portato al rafforzamento della consapevolezza dell’importanza fondamentale che rivestirebbe l’appartenenza etnica e nazionale, un fenomeno che ha coinvolto anche le persone che in precedenza non avevano tale consapevolezza, o non le prestavano grande attenzione. Mi pare quindi valida l’idea secondo cui il nazionalismo non è solo la causa, ma anche l’effetto dei crimini di guerra. Il nazionalismo uccide e le uccisioni commesse in suo nome nazionalizzano [2].
“Ma di cosa stiamo parlando?”, dirà qualcuno a cui l’osservazione secondo cui le cause ideologiche dei crimini perpetrati durante gli anni Novanta risiedono nel fenomeno dell’etnonazionalismo potrebbe sembrare una pignoleria accademica che tende a relativizzare i pericoli attuali legati al fascismo e a rimpiazzare l’azione antifascista con un dibattito terminologico. Il problema è che il rischio di nuovi conflitti e di nuovi crimini spesso si nasconde dietro a cose apparentemente innocue. Non è sempre immediatamente evidente che dopo la scomparsa degli stati fascisti la matrice fascista continua a vivere nell’etnonazionalismo, nel culto dell’identità etnica.
Quelli che si dichiarano apertamente seguaci del fascismo, disegnando svastiche sui muri e urlando “Heil Hitler”, “Per la patria pronti” o “Coltello, filo spinato, Srebrenica”, rappresentano un pericolo minore per la pace rispetto a quelli che dichiaratamente condannano il fascismo e lo riconoscono negli atteggiamenti altrui, al contempo però continuando a lottare contro le presunte minacce all’identità, alla cultura, alla lingua e all’alfabeto nazionale, per la difesa della cosiddetta essenza del popolo, della sua particolare spiritualità e di altri valori apparentemente indiscutibili, accettabili e antifascisti.
Occorre inoltre sottolineare che il nazionalismo etnico è nato prima del fascismo e del nazismo, rappresentando – come hanno osservato alcuni studiosi – la tradizione politica da cui traevano ispirazione i fautori di suddette ideologie totalitarie e degli stati fondati su queste ideologie. Nel fascismo e nel nazismo ci sono vari elementi che non possono essere ricondotti al nazionalismo, ma ve ne sono anche tanti altri che queste due ideologie hanno preso in prestito dal nazionalismo, adattandoli poi ai propri bisogni.
Nel 1998, parlando del libro I volonterosi carnefici di Hitler di Daniel Goldhagen, Jürgen Habermas aveva sottolineato quanto per le nuove generazioni di tedeschi fosse importante “raggiungere una certa chiarezza per quanto riguarda la matrice culturale del fardello ereditato” e individuare “ciò che appartiene alle tradizioni che hanno plasmato questo retroterra catastrofico” [3].
Habermas si riferisce, almeno io lo intendo così, innanzitutto a quella matrice culturale, a quella tradizione culturale fatta di idee e rappresentazioni collettive riguardanti il popolo, lo spirito del popolo, la patria, la cultura e l’anima popolare, quindi una tradizione potenzialmente pericolosa dal punto di vista politico. Spesso si tratta di rappresentazioni e idee collettive che a primo acchito sembrano completamente innocue, espressioni legittime dell’attaccamento al proprio popolo, alla sua cultura e al suo passato glorioso.
Non so se Habermas abbia letto il libro Volkskunde di Hermann Bausinger in cui l’autore si è sforzato di individuare e analizzare alcuni aspetti della matrice culturale in cui affonda le sue radici quell’eredità pesante che il nazionalsocialismo ha lasciato ai tedeschi e al resto del mondo. Bausinger ha dimostrato come il nazionalsocialismo aveva preso in prestito e utilizzato alcune idee, all’epoca ampiamente accettate e diffuse, sulla cultura popolare, ossia alcuni termini etnologici apparentemente neutri – quali continuità culturale, tribù, mito germanico, costumi popolari, terra natia, anima popolare – proposti dagli etnologi tedeschi della seconda metà del XIX e della prima metà del XX secolo.
Bausinger non ha chiesto che questi termini venissero banditi, bensì che ci si sforzasse di riconoscere in essi elementi esplosivi e pericolosi sfruttati per compiere e giustificare i crimini più terrificanti.Bausinger ha dimostrato, citando tutta una serie di esempi, come dalla glorificazione dell’"anima popolare tedesca" e delle "tribù tedesche" si fosse arrivati al nazionalsocialismo, spiegando "quel piano ideologico inclinato che da un semplice amore verso la patria ha portato ad un fanatismo radicale, passando per un vago entusiasmo per tutto ciò che ha a che fare con il popolo" [4]. “Uno sguardo rivolto all’ideologia nell’ambito dell’etnologia ci porta dritti al cuore della concezione nazional-socialista del mondo”, ha concluso Bausinger.[5]
Anche uno sguardo all’ideologia che ha predominato e continua a predominare non solo nelle nostre etnologie balcaniche, ma anche nella percezione prevalente – “protetta” all’interno dei programmi scolastici – della cultura popolare e nazionale, ci permette di vedere chiaramente che questa ideologia è più o meno uguale a quella che – come ha dimostrato Bausinger – ha dominato l’etnologia tedesca del XIX e dei primi decenni del XX secolo, ossia l’ideologia del nazionalismo etnico. Nel nostro scenario balcanico, pur non essendo stata trasformata in nazismo o fascismo, questa ideologia si è concretizzata negli anni Novanta del XX secolo in un programma capace di spingere i protagonisti dei conflitti e delle guerre combattute in quegli anni a commettere i peggiori crimini, riuscendo a convincerli che proprio grazie a tali crimini diventeranno eroi nazionali.
I crimini commessi in nome di questo programma non hanno però messo a repentaglio il nazionalismo etnico. Questo per vari motivi, tra cui la mancanza di un contesto internazionale, soprattutto di un contesto europeo in cui il nazionalismo delle élite balcaniche potesse essere riconosciuto come un pericolo comune, o almeno come una minaccia alla pace e all’unità europea. Nel momento in cui nella nostra regione l’etnonazionalismo ha mostrato il suo volto criminale, in Europa era in corso il processo di integrazione europea degli ex paesi comunisti, e quindi il nazionalismo post-comunista è stato accettato come un’alternativa liberatoria. In questo atteggiamento nei confronti del nazionalismo risiede il motivo per cui le guerre combattute in ex Jugoslavia negli anni Novanta sono state perlopiù interpretate come l’espressione di un atavismo balcanico, come un massacro selvaggio e tribale, e non come l’esempio di ciò che il nazionalismo è in grado di fare.
Tuttavia, le nuove e sempre più frequenti istanze nazionaliste e i tentativi di negare i valori comuni europei a cui si assiste in alcuni stati membri dell’UE hanno dato il via ad un dibattito sull’ascesa dell’estrema destra in Europa, un dibattito dal quale è emerso anche il fatto che oggi la destra si richiama all’identità, chiedendo che le identità nazionali vengano protette. Il gruppo dei partiti dell’estrema destra vicini a questo programma si chiama “Identità e Democrazia”. Gli esponenti di questo gruppo sostengono che ai popoli e agli stati europei non basti la democrazia e che abbiano bisogno di qualcosa di più forte e più importante – l’identità. Poi, se le cose dovessero andare come sono andate da noi, emergerà che i popoli e gli stati europei non hanno bisogno di nient’altro che dell’identità e che possono vivere sereni e felici anche senza democrazia.
Così la Serbia e altri stati post-jugoslavi sono stati trasformati dai paesi che hanno presumibilmente combattuto in nome di alcuni programmi e idee ormai superati in Europa in paesi all’avanguardia per quanto riguarda il nuovo nazionalismo riscoperto che, armato di identità nazionali glorificate fino ad assurgere a minaccia, lotta contro l’Europa unita.
[1] Si veda il mio saggio “Rasizam u 11 slika“ [Razzismo in 11 immagini], Dubina. Članci i intervjui 1991-2001, Samizdat B92, Belgrado, 2001, 69-74. [2] Lo storico statunitense Max Bergholz ha scritto un importante studio (intitolato Violenza come forza generatrice. Identità, nazionalismo e memoria in una comunità balcanica) in cui spiega come in una comunità etnicamente mista in Bosnia i crimini di guerra commessi nel 1941 hanno portato all’accettare le differenze etniche come inconciliabili, ossia come i crimini di guerra hanno generato il nazionalismo. [3] Jürgen Habermas, Postnacionalna konstelacija. Politički eseji [La costellazione post-nazionale. Saggi politici], traduzione dal tedesco Aleksandra Kostić e Đorđe Vukadinović, Otkrovenje, Belgrado, 2002, 38-39. [4] Herman Bauzinger, Etnologija. Od proučavanja starine do kulturologije [Etnologia. Dallo studio dell’antichità alla culturologia], traduzione dal tedesco Aleksandra Bajazetov-Vučen, Biblioteka XX vek, Belgrado, 2002, 70. [5] Ivi, 73.
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