Il lato oscuro
La Serbia non è solo Genova. La Serbia non è le manifestazioni violente contro il Gay pride. Ma c’è un lato oscuro, che si trascina dai terribili anni ’90. Ed è per questo che i suoi cittadini e le sue istituzioni non vanno lasciate sole. Nostro commento
“Gli hooligan hanno svergognato la Serbia”, titola oggi Politika il principale quotidiano serbo, a seguito degli incidenti di Genova allo stadio Marassi. Un’apertura forte e condivisa da molti. Come definire altrimenti quello che è accaduto se non una vergogna per la Serbia, per i suoi cittadini, per le istituzioni che a fatica cercano di portare il paese nell’Unione europea?
Molti nostri amici serbi, in questi giorni, hanno chiamato la redazione per scusarsi per il comportamento di gente che infanga il nome del Paese. Un gesto lodevole ma che è difficile da accettare. Perché dovrebbero scusarsi loro, per persone di cui non condividono nulla, con le quali non hanno nulla a che fare?
Quella che abbiamo visto nei giorni scorsi, dalle violenze al Gay pride belgradese alla follia di Genova non è la Serbia, o meglio non si può ridurre un intero Paese a un gruppo di ultranazionalisti scalmanati. Certo questi gruppi sono ben organizzati, sicuramente finanziati da qualcuno, molto probabilmente godono di appoggi politici e hanno relazioni strette con il sottobosco criminale serbo. Ma non possiamo ridurre un paese di 8 milioni di abitanti alle manifestazioni fasciste di questi gruppi.
La magistratura serba ha avviato un’indagine per scoprire chi finanzia movimenti di estremisti come Obraz, Movimento popolare 1389, Srpski dveri e altri. Si stima che in Serbia ci siano tra le 2000 e le 3000 persone che appartengono a questi gruppi. La legge che dovrebbe metterli al bando giace al Tribunale costituzionale. Un’iniziativa voluta dal ministero della Giustizia e consegnata alla Corte costituzionale il 16 ottobre 2009 dall’allora capo procuratore Slobodan Radovanović, che definì in quell’occasione questi gruppi quali una sorta di “eserciti privati” al servizio anche della criminalità.
È sicuramente un grosso problema per la Serbia, un problema che fino ad oggi non è stato affrontato con l’adeguata attenzione. Alcuni di questi estremisti hanno preso parte ad altre manifestazioni violente nelle vie di Belgrado: durante la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, durante il Gay Pride. Addirittura, scrive il quotidiano Blic, alcuni di questi, come il capo dei tifosi “Ultra bojse” Marko Vučković, hanno preso parte alle proteste del 5 ottobre 2000 che portarono alla caduta di Slobodan Milošević. Dietro gli slogan dell’allora Opposizione democratica della Serbia furono proprio loro a fare irruzione nel Parlamento e nella sede della tv nazionale. E questo potrebbe essere uno dei motivi per cui fino ad ora si è in qualche modo taciuto su queste frange fasciste e ultranazionaliste che trovano i loro miti e leggende nei criminali di guerra degli anni Novanta.
Ed è in questo contesto che va collocato l’omicidio dell’allora premier serbo Zoran Ðinđić, ucciso da un cecchino nel 2003 dopo aver cercato di troncare le relazioni con il sottobosco criminale serbo e parte dei servizi di sicurezza deviati, che diedero una mano a rovesciare il regime di Milošević. Il pragmatico e coraggioso Ðinđić voleva spingere l’acceleratore delle riforme e proseguire fermamente con la collaborazione col Tribunale dell’Aja. Una politica che gli ultranazionalisti non potevano accettare.
C’è ancora un’ombra oscura in Serbia su cui va fatta chiarezza. Un maledetto intreccio di criminalità, nazionalismo estremo e politica. La Serbia da sola con ogni probabilità non può farcela. Serve l’aiuto della comunità internazionale. Per questo motivo l’Unione europea deve tendere una mano alla Serbia progressista, a quella Serbia che vuole le riforme democratiche, che vuole diventare parte della famiglia europea. Ed aiutarla a fare i conti con quei gruppi di ultradestra che sfruttano la vetrina internazionale per lanciare messaggi politici al governo di Belgrado. Il messaggio è chiaro: no all’integrazione europea, no ai diritti per le minoranze sessuali, no al Kosovo indipendente, no alla democratizzazione del Paese. Un falso patriottismo, intriso di rabbia e violenza.
La Serbia di oggi non è quella di dieci, quindici, vent’anni fa. La Serbia sta cercando di dare un’immagine di sé diversa. E lo sport finora è stato uno dei migliori brand serbi. Il Partito radicale che un tempo godeva del sostegno di circa il 30% degli elettori, ed era voce dell’estremismo, si è scisso. Da esso è uscita una forza politica che si presenta come “destra europea”. Il Partito socialista serbo siede al governo. Il suo leader, Ivica Dačić, è l’attuale ministro dell’Interno e proprio grazie ai voti di questo partito che un tempo fu di Milošević è stata votata al parlamento serbo una risoluzione di condanna del massacro di Srebrenica. Cose impensabili solo pochi anni fa.
I cambiamenti quindi ci sono e sono visibili. Ma c’è ancora molto da fare ed è per questo che un nuovo isolamento della Serbia non farebbe che giovare a quelle forze retrograde che vogliono bloccarne il cammino europeo.
È facile imputare alla liberalizzazione dei visti, in vigore dal dicembre dello scorso anno, l’arrivo degli estremisti di ultradestra a Genova. Ma pensiamo veramente che ripristinare il muro di Schengen aiuterebbe i cittadini serbi nel superare questi nodi irrisolti? Non ne pagherebbero certo le conseguenze i gruppi di estrema destra, organizzati e finanziati da qualcuno che ha tutto l’interesse affinché la Serbia non cambi. Ma i cittadini della Serbia, e l’Europa tutta.
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