Tipologia: Reportage

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Area: Albania

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Il Grande Padre: la scrittura di Diana

Cosa significava scrivere durante il regime e cosa dopo? L’incontro con la giornalista, scrittrice e traduttrice Diana Çuli

31/03/2021, Christian Elia -

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"Ero in redazione, all’epoca lavoravo a Les lettres albanaises, ci occupavamo di letteratura e pubblicavamo anche in francese. Io ero la redattrice responsabile, il caporedattore era Ismail Kadare. La nostra sede era alla Lega degli Scrittori, in un elegante edificio italiano degli anni Trenta. Ero alla mia scrivania, entrò un amico giornalista e chinandosi su di me mi sussurrò all’orecchio "pare che sia morto". Non c’era bisogno di dire che si parlava di lui, di Enver Hoxha.

Poco dopo entrò un’altra amica, anche lei giornalista, e mi guardò come non dimenticherò mai. Venimmo convocati poco dopo, in sala riunioni. Venne data la notizia. Io e i miei due amici, senza alcuna ragionevolezza, ci stringemmo in un abbraccio profondo. Non badammo alle conseguenze, non abbiamo resistito. Poco dopo rimettemmo la maschera che portavamo sempre, alcuni si misero a piangere, altri a comporre poesie in suo onore. Non era la morte in sé, in fondo, a colpirci. Era l’idea che tutto sarebbe cambiato, che l’Albania potesse salvarsi. Non avevo parole per dirlo, non le avevo preparate, ma ricordo ancora la sensazione. Che sono sicura non sarebbe stata la stessa quindici o venti anni prima, le persone cambiano, riflettono".

Diana Çuli racconta come scrivesse uno dei suoi libri o uno dei suoi reportage. La capacità di parlare per immagini, tenendo assieme ricordi, emozioni e analisi, è profonda. Nata e cresciuta a Tirana, dopo una laurea in Lingua e Letteratura albanese iniziò subito a lavorare come giornalista nella rivista Drita per poi arrivare nella redazione guidata dal celebre Kadare.

Come si aggirava la censura nell’Albania di Enver Hoxha? “L’Albania degli anni del regime era un sistema, non era solo un uomo. In fondo non esisteva un vero e proprio ufficio censura, ma era molto peggio, eravamo tutti noi il nostro ufficio censura. Perché sia quando scrivevo, che quando mi occupavo del testo di qualcun altro, ci si proteggeva a vicenda: conoscevamo quello che avrebbe messo nei guai me e l’autore, evitavamo tutto quello che avrebbe potuto comprometterci. Il giornale usciva la domenica e trattenevi il fiato fino al martedì: se nessuno ti convocava, era fatta. Per la letteratura albanese successiva, bisogna ringraziare proprio Kadare, al di là delle polemiche che lo hanno riguardato come ‘vicino’ al regime. Un Kadare confinato in carcere, come è accaduto a tanti, in particolare dopo la stretta del regime contro il mondo della cultura nella seconda metà degli anni Settanta, non sarebbe servito a nessuno. Noi, invece, ci ispiravamo a lui e alla sua capacità di raccontare un mondo in punta di metafora, scrivendo tra le righe idee e critiche che tutti quelli che facevano la fila per leggere i suoi libri capivano benissimo, così come quelli che lo leggevano all’estero, ma riuscendo sempre a gestire la situazione".

Dettaglio della facciata di un “prefabbricato” cinese.  La produzione in serie e la ripetizione dei moduli, típica dei prefabbricati d'epoca cinese ha contribuito a generare un paesaggio urbano monotono e piatto

La pressione sulla cultura è figlia del rapporto con la Cina, che viveva nella stagione di vicinanza all’Albania la sua Rivoluzione culturale. Hoxha seguì il modello cinese, ormai unico alleato internazionale, e le linee guida del partito divennero ferree in materia. "Dal discorso di Hoxha al quarto Plenum capimmo che arrivava una lunga notte. I suoi attacchi alla cultura erano molto chiari. I cinesi avevano iniziato a frequentare l’Albania, lasciandoci in eredità i loro orribili edifici, che chiamavamo ‘prefabbricati’, e le loro idee. Ricordo ancora come un trauma per la mia generazione i libri che vennero messi all’indice. Nelle biblioteche non svanirono, ma vennero segnati con una grande R stampata sulla copertina: a quel punto nessuno aveva il coraggio di leggerli. E ricordo che uno dei libri che finì all’indice fu Il placido Don, di Michail Aleksandrovič Šolochov, accusato per i suoi personaggi troppo pieni di ‘dubbi’ ideologici. Io amavo e amo ancora quel libro".

I giornalisti erano allo stesso tempo una categoria privilegiata, ma particolarmente controllata. "Tra di noi non sono state tante le vittime del regime, sapevamo come difenderci, ma ricordo che tra gli scrittori – in particolare i poeti – ci sono state delle persone che all’improvviso finivano nel mirino del regime. In particolare quelli che, secondo i dirigenti, erano affascinati da Sartre. Molti di loro venivano rispediti al confine nei villaggi, a fare lavori umili. Anche noi, nel fine settimana, dovevamo partecipare a lavori pubblici o agricoli, per tener fede alla visione cinese dell’intellettuale, ma per il resto riuscivamo ad avere uno spazio. Dovevi solo stare attento alle ‘lettere anonime’: chi voleva il tuo posto scriveva ai dirigenti dicendo male di te e, in modo imprevedibile, la lettera poteva essere cestinata o finivi nella bufera. In fondo la mia generazione si è salvata con un trucco semplice: bastava non parlare di grandi temi ideologici o politici, concentrarsi su piccole storie. Per me è stato una lezione di vita straordinaria quella di essere inviata nelle zone remote del paese, dove dovevo raccontare le attività culturali, ma in realtà potevo studiare la nostra società. E il patriarcato".

Diana, oltre all’attività letteraria e giornalistica, negli anni Novanta diventa un punto di riferimento per le questioni femminili nella società albanese. Non solo come fondatrice del Forum Indipendente della Donna albanese, ma anche come parlamentare e come saggista.

"Per capire il ruolo della donna durante gli anni del regime basta guardare i vecchi film, compresi i due nei quali ho recitato io", racconta divertita Diana. "La donna era sempre il personaggio perfetto! Ma in che modo? Era perfetta come la mia vita: mi alzavo alle 6 e portavo i miei figli all’asilo, poi andavo al lavoro fino alle 14, poi la spesa, cucinavo, tornavo al lavoro, prendevo i piccoli all’asilo, cucinavo, rassettavo la casa e andavo a fare la fila per il latte, soprattutto negli ultimi dieci anni del regime, che sono stati un incubo. Ecco, tutta la celebrazione del regime per le donne, comprese le partigiane, era una narrazione. Il regime ha fatto tanto per le donne, non lo negherò mai: la parità salariale, il divorzio, ma non ha mai sradicato il patriarcato della società, perché anche i dirigenti erano cresciuti con quella cultura. Punivano le violenze domestiche, punivano chi non mandava le figlie a scuola, ma in generale hanno lasciato che una certa cultura sopravvivesse ed è prontamente tornata a galla appena dopo la fine del regime. La grave mancanza del regime, per esempio, al contrario di altri paesi del blocco socialista, è stato il rifiuto del diritto all’aborto. La motivazione non era ideologica o religiosa, anzi, ma tutta pratica: siamo pochi, siamo minacciati, abbiamo bisogno di tanti figli. Ma questo ha portato al fiorire degli aborti clandestini, con tante vittime, come racconto in un mio romanzo. Nel 1995 siamo riuscite a sanare questa situazione e a riscrivere il diritto di famiglia, perché il divorzio era normato in maniera avanzata prima degli anni Novanta, ma non esistendo la proprietà privata c’è stato da scrivere ex novo un codice che tutelasse le donne separate. E lo abbiamo fatto. L’altro grande rimosso sociale, al tempo, era il corpo, il sesso. In nessun film degli anni del regime si vede un bacio. Una morale che si trascinavano dietro dalla disciplina di partito della guerra partigiana, come il rigetto del ‘femminismo’ come teoria sessista e occidentale. Non è finita la nostra battaglia, il patriarcato in Albania è ancora forte".

Diana è ancora in prima fila, perché il suo temperamento, con la penna e con le parole, non prevede periodi che non abbiano battaglie degne di essere combattute. Come vive, oggi, il rapporto con la memoria? “In modo complicato. Ci sono momenti nei quali prometto a me stessa che scriverò solo di futuro, ma poi penso a quella generazione che ha 20, 30 anni, che chiede, che vuole sapere. Noi, subito dopo la caduta del regime, per anni, non abbiamo scritto. Un po’ perché troppo impegnati – senza lavoro – a trovar pane per i figli e i genitori senza pensione, un po’ perché non è stato facile scrivere da persone libere. Eravamo ebbri, ma non sapevamo come si faceva. Io, quando ho potuto farlo, quando ho potuto scrivere senza pensieri, ho dovuto imparare a farlo. Non è stato facile. La prima volta che sono andata in Francia tutti mi chiedevano grandi pareri e opinioni politiche e culturali, ma io non riuscivo a pensare a nulla che non fossero i supermercati pieni, e pensavo ai miei figli, alla nostra fame. Se penso a quegli anni mi manca quel brivido dei circoli ristretti di amici, quel condividere, quell’ironia che ci salvava la vita. Le notti attorno alla tv, a guardare Canzonissima, a commentare di nascosto. Ma solo quello, per il resto, con tutti gli errori dell’Albania della transizione, sono fiera di quello che gli albanesi hanno fatto in questi anni. Perché nessuno di voi può capire fino in fondo quanto sia stata dura".

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