Il fornaio di Tirana
"L’immagine del fornaio del mio quartiere la conservo tutt’ora. Combatteva quotidianamente – in particolare in estate – contro il caldo atroce emanato dal forno a legna che accudiva amorevolmente". Un ricordo di infanzia nella Tirana degli anni ’80. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Quando circa un anno fa ho sentito dell’apertura di un forno comune in un quartiere di Roma, la notizia mi ha fatta ritornare, nella mia memoria, all’Albania. Precisamente nella Tirana degli anni ’80, la mia città.
L’immagine del fornaio del mio quartiere la conservo tutt’ora. Combatteva quotidianamente – in particolare in estate – contro il caldo atroce emanato dal forno a legna che accudiva amorevolmente. Una sorta di bandana in testa e un fazzoletto dietro al collo per asciugare il sudore. Munito di grembiule e guantoni armeggiava con una lunga pala di legno con le teglie, che continuamente inseriva e toglieva. Vicino a lui una ciotola d’acqua, che schizzava sulle teglie per gestirne la cottura senza che si bruciasse la pietanza.
Oltre ad accudire il forno accoglieva i clienti, che arrivavano con le loro tepsi rotonde e in alluminio, con differenti cibi da cuocere, dai diversi sapori e profumi. Fondamentale era il bigliettino, un numero consegnato al cliente e una copia attaccata sulla teglia, con un triangolino metallico.
Certo, accadeva, anche se raramente, che capitasse qualche scambio di teglia. Ma alla fine il disguido durava qualche minuto perché ognuno aveva ben presente, in un periodo non certo di abbondanza, i contenuti delle proprie teglie: quanti pezzi di carne vi aveva messo, quante melanzane, pomodori, zucchine o peperoni ripieni, quante cosce o alette di pollo, o quanti e quali pesci.
Unica eccezione riguardava qualche “alleggerimento” dovuto al fornaio. Gli veniva infatti concesso volentieri di portarsi qualcosina a casa, un peperone da una teglia, una melanzana dall’altra, un pezzo di carne da un’altra ancora o un po’ di patate. Per assicurare il pranzo o la cena alla sua famiglia. Il forno non era suo, la proprietà privata non esisteva e il suo stipendio era basso e lui lo arrotondava come poteva.
Quando mia nonna materna preparava il byrek io mi mettevo in contemplazione. Tirava fuori dalla dispensa gli utensili, la farina e tutto l’occorrente. Il ripieno nel frattempo andava preparato rigorosamente a parte. Il byrek come lo preparava lei, non lo preparava nessuno! Metteva un tocco di amore, di nostalgia e di sapore in ogni sfoglia che distendeva sulla teglia. Quella specialità la considerava proprio sua perché proveniva dalla tradizione culinaria della sua terra, la Turchia.
Nel momento in cui – e qui iniziava la mia parte – la teglia era pronta, tirava fuori di tasca i soldi e mi diceva: “Ecco, è tutto pronto per essere portato dal fornaio!”
Io riuscivo così a partecipare al rito del byrek, se non nella preparazione, almeno nel portarlo a cuocere al forno pubblico. La nonna non poteva di certo farlo lei, anziana e stanca com’era per i sacrifici sacrifici e le rinunce della vita. La sua schiena chinata in avanti, sulla quale portava non solo i suoi anni, ma anche le sue fatiche.
Io, come tutti i bambini, le scale le facevo correndo, anche scavalcandone due o tre alla volta, e di certo, non mi sarebbe risultato difficile scendere giù a portare dal fornaio la teglia di byrek.
Ma sulla teglia c’era sempre un po’ di discussione. Quella sempre usata da mia nonna era molto vecchia, la conservava da tempo dedicandole grande cura. E la preferiva a tutte le altre accumulate sulle mensole in cucina.
Io brontolavo perché quella teglia sottile era diventata scura sui bordi, a forza di essere portata sempre al forno, e nonostante la cura nel ripulirla, quei segni neri non venivano via.
A quel punto, iniziavo con il mio ingenuo ricatto: “Nonna, se il byrek lo prepari su quella brutta vecchia teglia, sappi che io non lo porto dal fornaio a cuocere, mi vergogno!”. Funzionava ben poco. Lei sorrideva e non si scostava dalla linea: il byrek veniva preparato esclusivamente in quella teglia e non c’era verso di farle cambiare idea.
Un giorno quando il vecchio fornaio mi vide arrivare con la teglia in mano e la faccia contrita mi disse: “Ma sai che tua nonna possiede la migliore teglia che io ho qua sul mio banco, perché è una teglia fatta in maniera artigianale, alla vecchia maniera, e la cosa più importante è che non è in alluminio come la maggior parte di queste altre, ma in rame. E il rame è miglior conduttore termico! Tua nonna se ne intende di cottura!”
Capii subito che era stata la nonna a chiedere al fornaio di parlarmi, per farmi superare il disagio che provavo ad andare in giro con quella vecchia teglia.
La volta dopo, avvicinandomi alla porta di ingresso del forno pubblico – dove di solito si raggruppavano le donne del quartiere che, dopo aver portato le teglie da cuocere, si fermavano un po’ per chiacchierare, se non per spettegolare – io ho rallentato il passo. Di solito correvo, perché non scorgessero quella vecchia teglia, ma ormai ne andavo orgogliosa.
“Bambina, hai bisogno di una mano, la teglia pesa molto?” disse una di loro. “Oh, no grazie signora,- le risposi,- questa è una teglia magica! E’ unica, è pesante e leggera allo stesso tempo, è di mia nonna!”.
Improvvisamente, quella brutta e vecchia teglia si era trasformata in motivo di orgoglio. Ma dentro avevo sempre sentito che il vero motivo di orgoglio per me, è sempre stata lei, la mia indimenticabile nonna!
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