Il figliol prodigo
Le pagelle 2008 assegnate dalla Commissione Europea ai Balcani occidentali. La Serbia, dopo lunghi anni di emarginazione, sembra essere salita decisamente sul treno per Bruxelles. L’incognita dell’Aja e le aspettative dei cittadini. Reportage
La fine dell’anno nei Balcani è il periodo delle pagelle. Non per gli studenti, il cui anno scolastico comincia a fine estate, ma per i governi di quei paesi, la cui azione è scrupolosamente esaminata durante l’arco dei dodici mesi dai burocrati di Bruxelles. Quello delle relazioni annuali sullo stato di avanzamento verso l’adesione all’Unione Europea è un rito che si ripete, ormai, dal 2002, da quando, cioè, venne riconosciuto ai paesi dell’Europa sud-orientale lo statuto di candidati potenziali. Non si tratta di voti ma di articolati ed approfonditi giudizi su quello che è stato fatto e quello che resta ancora da fare per essere ammessi a pieno titolo nel club dell’Europa che conta. Non tutti i paesi della regione si trovano nella stessa situazione. La Croazia, per esempio, ha iniziato nel 2005 i negoziati di adesione e conta di concluderli entro la fine del 2009 mentre la domanda della Macedonia ha ricevuto a Bruxelles un’accoglienza tiepida seguita da un lungo periodo in stand-by che non trova ancora sbocchi concreti. Per quanto riguarda, invece, Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia, con eventualmente il Kosovo una volta definita la sua posizione, siamo ancora alle fasi preliminari con le diplomazie impegnate a sbrogliare la complicata matassa delle prime pratiche.
Dopo anni di instabilità interna e di rapporti turbolenti con i paesi vicini e con l’Unione Europea, anche la Serbia è finalmente salita sul treno che porta a Bruxelles. In un vagone separato dal Montenegro, che ha abbandonato nel 2006 con un referendum la federazione fra i due stati, ma con la speranza o l’illusione di poter mantenere qualche forma di controllo o sovranità sul Kosovo che, nel frattempo, ha scelto unilateralmente la strada dell’indipendenza con il sostegno degli Stati Uniti e della maggioranza dei paesi dell’Unione. Le elezioni presidenziali del febbraio scorso e quelle politiche di inizio maggio hanno portato ai vertici dello stato una leadership decisa a scommettere sul futuro europeo del paese scuotendosi di dosso le frustrazioni ultra-nazionaliste e l’eredità ingombrante di un lugubre passato recente. E Bruxelles, giocando d’anticipo con un intervento a gamba tesa ai limiti del regolamento, ha mostrato di voler credere alla possibile svolta europeista della Serbia siglando con Belgrado in piena campagna elettorale un accordo di associazione che ha messo KO gli ultras della Grande Serbia. Per entrare in vigore, però, l’accordo è condizionato, come se fosse una nota a piè pagina, alla piena collaborazione con il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, il cui lavoro è stato spesso rallentato ed intralciato da quei settori più profondi dello stato che sono sfuggiti fino ad oggi ad ogni controllo politico.
Rada mi aspetta puntuale al grande centro congressi vicino al fiume Sava, dove si tiene l’incontro con i rappresentanti delle organizzazioni non governative serbe. Alcuni di quei volti mi sono noti da tempo, avendo con loro condiviso l’esperienza del Forum per la Pace e la Riconciliazione nella ex Jugoslavia nei primi anni novanta. Allora era proprio Rada che da Bruxelles teneva i collegamenti fra le varie realtà di un paese in via di decomposizione. Tutto spazzato via dall’incedere degli eventi. Ma c’è ancora qualcuno che rimpiange quel mondo e forse Rada, anche se non vuole confessarlo, è una di questi. Mi ha sempre stupito la ricchezza della società civile dello spazio post-jugoslavo, a dimostrazione che il regime comunista di questo paese era un po’ meno totalitario degli stati del Patto di Varsavia, e forse non meritava la fine tragica che ha fatto. Ma il verdetto della storia è inappellabile e si può solo prenderne atto.
Tanta gente in sala e tanta voglia d’Europa, un’Europa che, però, non può o non vuole prendersi le proprie responsabilità e portare a termine quel processo di riunificazione del continente che è nell’ordine naturale delle cose. Troppe le paure, consce ed inconsce, troppe le esitazioni e le deviazioni dal cammino intrapreso. E troppi gli errori e le ferite che non cicatrizzano. Nonostante la gelida serata, i ristoranti nel quartiere boemo sono abbastanza affollati e, malgrado questo, il fumo è sopportabile. Rada ha appena terminato un corso di perfezionamento alla facoltà di Scienze Politiche e sta pensando di ritornare a Bruxelles per cercare lavoro. Ma Rada è in possesso anche di un passaporto belga, e può muoversi liberamente senza bisogno di alcun permesso, mentre chi vive nell’"altra Europa" può solo sperare che si apra qualche pertugio nei nuovi muri che tagliano il vecchio continente.
Le autorità di Belgrado hanno accolto favorevolmente il rapporto della Commissione Europea sulla Serbia. Sulla stampa locale si sprecano le dichiarazioni dei vari ministri che sottolineano le valutazioni positive dei tecnici di Bruxelles. In realtà il documento contiene luci ed ombre ma, come spesso avviene, sono solo le prime che contano per i politici pronti a battere la grancassa dei successi ottenuti ed a sorvolare su insuccessi e fallimenti. In 57 pagine, gli esperti della comunità hanno fatto la radiografia del paese analizzandone meticolosamente lo stato di preparazione in base ai criteri di adesione sia politici che economici. Dal documento emerge la buona capacità dell’amministrazione pubblica ed il discreto stato di salute dell’economia, con un tasso di crescita del 7,5% nello scorso anno. Emerge anche, però, che ulteriori sforzi devono essere fatti per garantire l’indipendenza e l’efficienza del sistema giudiziario e che corruzione, crimine organizzato e riciclo di denaro sporco sono ancora diffusi e costituiscono un serio problema.
Quello che più conta, agli occhi del governo di Belgrado, è l’affermazione che, se tutto va nel migliore dei modi, la Serbia potrebbe ufficialmente ottenere lo statuto di paese candidato nel corso del 2009. Il fatto che siano salite al potere forze che puntano sull’integrazione europea ha contagiato di ottimismo le diplomazie dell’Unione che da decenni, ormai, sono impantanate nei Balcani. Una Serbia stabile ed amica è indispensabile per risolvere i problemi della regione, e l’opportunità va sfruttata appieno. Anche se questo suscita sussulti di invidia e gelosia da parte dei paesi vicini, sorpresi e spiazzati da questo improvviso amore. E’ come se il figliol prodigo fosse tornato a casa dopo anni sciagurati di dissolutezza e perdizione.
La cucina regionale non brilla per i piatti vegetariani. Al contrario, sono le carni che dominano la scena. Ovunque, però, anche nei ricevimenti ufficiali, si può rimediare una šopska salata, l’insalata di pomodori, cetrioli e cipolla spruzzata con formaggio di pecora tipica di queste parti, o qualche pezzo di željanica, l’equivalente dell’erbazzone mantovano. Ed è attorno alla tavola, più che negli incontri parlamentari, che si coglie l’orgoglio nazionale, frustrato da un profondo sentimento di ingiustizia.
La questione del Kosovo sembra improvvisamente uscita dall’agenda politica. Sarà la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ad occuparsene. Nel frattempo, la diplomazia di Belgrado si gode il successo del voto favorevole all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e quello più recente del Consiglio di Sicurezza, che ha posto paletti precisi alla missione dell’Unione Europea a Pristina, sganciandola da ogni riferimento o azione che possa sottendere all’indipendenza della ex provincia. Basta, però, un velato accenno e la rabbia riesplode. "Cosa pretende, ancora, l’Europa da noi?", ripete il commensale seduto al mio fianco. "La Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, non è sufficiente tutto quello che è accaduto?". Chi mi parla non è un sostenitore della Grande Serbia, ma una persona che ha vissuto i bombardamenti della NATO e la conseguente secessione di Pristina come una mutilazione dell’identità nazionale. Il nervo è ancora scoperto e troppo viva è la memoria.
Ma c’è una parte di memoria, quella cattiva, che per anni è stata rimossa o negata. Il compito di ricostruirla facendo luce sui fatti ed i misfatti è stato conferito al Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia. Tutti i paesi della regione sono obbligati a cooperare con la Corte, che ha sede all’Aja, ma le autorità di Belgrado hanno spesso offerto una collaborazione puramente formale, al limite della complicità con i ricercati. Solo negli ultimi mesi le cose sono cambiate, e la cattura di Radovan Karađić ne è la prova più evidente.
Mentre i casi più gravi finiscono in Olanda, quelli minori sono di competenza dei singoli stati. La sede del Tribunale di Belgrado è appena stata ammodernata con i fondi dell’Unione Europea. I monitor aggrovigliati sui nuovi scranni nella grande aula dove si tengono i dibattimenti processuali assomigliano ad una selva inestricabile, a testimonianza di quanto sia arduo dipanare il gomitolo della giustizia nei Balcani. Il procuratore generale Vladimir Vukčević, però, si dimostra moderatamente ottimista. "Dei sei grandi ricercati, quattro sono già stati catturati e spediti in Olanda: nessuno può, oggi, dubitare della buona fede delle autorità serbe", racconta con una punta di soddisfazione. "Il problema principale è la raccolta delle prove", aggiunge, "poiché la maggior parte dei crimini si è svolta in un luogo, mentre chi li ha commessi adesso risiede altrove, anche se la cooperazione con le procure degli altri paesi comincia a funzionare ". "Subiamo ogni giorno minacce", conclude, "perché nell’opinione pubblica è tutt’ora radicata l’idea che si tratti di eroi e non di criminali di guerra". Il prossimo anno, la Corte di Belgrado è chiamata ad emettere numerose sentenze. Sui muri della città, tra le nuove insegne luminose delle banche italiane, campeggiano in bella mostra i poster di Karađić. In lui ed in Ratko Mladić si identifica ancora una parte consistente della società serba, ma non è possibile voltare pagina e guardare avanti senza aver fatto i conti con il passato.
C’è un aspetto poco conosciuto conseguente alla frantumazione della Jugoslavia che a Bruxelles ci tocca da vicino. L’idioma ufficiale della Federazione era il serbo-croato mentre oggi, oltre allo sloveno e al macedone, in Croazia si parla il croato, in Serbia il serbo, in Bosnia il bosniaco ed in Montenegro il montenegrino. Tutti si capiscono, ma spesso fanno finta di non intendersi, a sottolineare piccoli elementi di diversità ingigantiti dalle élite nazionaliste al potere. Quando le delegazioni di questi paesi giungono a Bruxelles pretendono il servizio di interpretazione per ciascuna di queste quattro varianti di un’unica lingua. Nell’Unione Europea vi sono già 23 lingue ufficiali. All’incirca un terzo del bilancio del parlamento europeo, 400 milioni di euro all’anno, se ne va per spese di interpretazione e traduzione. La Croazia sta negoziando l’adesione e se le venisse riconosciuto il diritto all’uso esclusivo del croato nelle istituzioni comunitarie sarebbe poi impossibile negare lo stesso ai vicini che seguiranno, con una assurda esplosione dei costi già alti della democrazia europea.
Quando Malta entrò nel 2004 nell’Unione, pretese lo stesso trattamento linguistico degli altri paesi membri, anche se tutti i maltesi parlano correntemente anche l’inglese, l’altra lingua ufficiale della piccola isola. Il maltese è parlato in Europa da poco più di 400.000 persone, e quasi nessuno degli studenti del vecchio continente si prende la briga di studiare una lingua di cui molti ignorano perfino l’esistenza. Con il risultato paradossale che tanti sono ancora i posti vacanti nelle istituzioni comunitarie per interpreti e traduttori di maltese. La torre di Babele si innalza verso il cielo, proiettando un’ombra fosca che mina le fondamenta del processo di integrazione e concede ampi spazi ai cultori delle piccole patrie protette dai reticolati.
La stazione degli autobus di Belgrado è affollata ad ogni ora del giorno. Quella ferroviaria, che dista solo poche centinaia di metri, ha un look dimesso e trascurato. Ai tempi della Jugoslavia, erano parecchi i treni giornalieri che collegavano le varie località. Oggi il servizio è lento ed inefficiente, con locomotive antiquate, binario unico ed orari allegramente flessibili. Il modo più veloce per raggiungere Skopje, in Macedonia, è l’aereo, ma mi rifiuto di abbandonare il suolo per soli 430 chilometri, anche se questo comporta otto ore e mezza di pullman. Con me viaggia un eurodeputato olandese, Erik Meijer, che per ragioni ideologiche non è mai salito su di un aeroplano. Gli ci sono voluti due giorni per arrivare in treno da Amsterdam, e gliene occorreranno altrettanti per ritornarvi. E’ dal 1962 che gira per i Balcani, riportando meticolosamente le differenze ed i cambiamenti nel tempo. Bisogna, però, essere capaci di dormire in treno; io, purtroppo, non ci riesco. Vi è, comunque, una buona notizia per certi versi insperata: anche qui, in vettura, non si può fumare.
La pioggia battente e la condensa sui vetri celano parzialmente ed opportunamente un panorama che non ha molto da offrire. Campi a mollo tra villaggi infangati, ai lati di una strada dritta come un fuso presto inghiottita dall’oscurità. Le dimensioni delle stazioni si fanno sempre più piccole, con l’autobus che gradualmente si svuota dei passeggeri verso il confine macedone. Rimaniamo soli con i due autisti che, appena scoperta la nostra identità, fraternizzano permettendosi qualche sigaretta.
Ivan e Milan hanno una quarantina d’anni, e guadagnano 300 euro al mese. Raccontano dei tempi della leva, di quando croati, serbi, macedoni e sloveni prestavano servizio per lo stesso paese senza alcun problema. "Ho ancora parecchi amici a Zagabria", mi dice uno dei due, "anche se non li sento da tempo". "La colpa di ciò che è successo è di Tuđman e Miloševic", aggiunge, "non della gente comune". L’arrivo alla frontiera ci riporta alla realtà. Nessun problema per il mio passaporto, non così per quello di Erik Meijer sulle cui pagine vi è il timbro, risalente ad un viaggio precedente, d’ingresso del Kosovo, che le autorità di Pristina hanno cominciato ad apporre sui fogli di viaggio dal giorno dell’indipendenza. I doganieri serbi trattengono a lungo il documento e lo riportano, infine, con un curioso timbro d’annullo sovrapposto a quello delle autorità kosovare per riaffermare in modo netto ed inequivocabile che la Serbia non riconosce quel paese. Nei Balcani non si spara più. Carte bollate e timbri hanno preso il posto dei fucili. In fin dei conti è meglio così.
*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo
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