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Il fattore Saakashvili

La crisi in Ossezia del Sud e la politica del presidente georgiano dalla Rivoluzione delle Rose ad oggi. La situazione nel Caucaso, la rinascita della Russia e il nuovo corso nelle relazioni internazionali. Intervista a Jonathan Wheatley, politologo

14/08/2008, Andrea Oskari Rossini -

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*Jonathan Wheatley è consulente per il Centre for Democracy di Aarau (Svizzera). Le sue aree di ricerca comprendono il processo di state-building e trasformazione democratica nell’ex Unione Sovietica e le problematiche relative alle minoranze nel Caucaso del Sud. Recentemente ha pubblicato il libro Georgia from National Awakening to Rose Revolution: Delayed Transition in the Former Soviet Union – Ashgate Publishing Editore – un’analisi del regime politico in Georgia dal 1988 al 2004

Perché Saakashvili ha deciso di attaccare in Ossezia del Sud?

Si è trattato di un disastroso errore di valutazione. Non credo che il presidente georgiano sia stato spinto a questa mossa da problemi di politica interna. Al contrario, credo che sotto quel profilo al momento di iniziare l’attacco Saakashvili e il suo gruppo dirigente si sentissero estremamente sicuri. Avevano appena vinto le elezioni politiche di maggio, erano riusciti a neutralizzare l’opposizione, bloccata da divisioni interne con una parte che aveva deciso di restare fuori dalle istituzioni. Questa del resto sembra essere una delle caratteristiche di Saakashvili: quando si sente in una fase vincente è disposto ad assumere molti più rischi del normale. Era già successo nel 2004. A maggio il governo, con il sostegno di un gran numero di cittadini adjari Adjaria, una delle regioni secessioniste ndr, aveva deposto il leader indipendentista della regione, Aslan Abashidze, che era al potere dal 1991…

Quello però finì per diventare un successo…

Sì, quello fu un successo. Ma solo poche settimane dopo, in giugno, Saakashvili si sentì talmente forte da tentare un piano simile in Ossezia del Sud, usando la forza militare per chiudere il grande mercato di beni di contrabbando di Ergneti, in funzione al confine tra l’Ossezia del Sud e il resto della Georgia. Fu un grossolano errore, perché gran parte degli osseti faceva affidamento su questo mercato per la propria sopravvivenza. Ne risultò un’estate di conflitto di bassa intensità che terminò solo a seguito delle (probabili) pressioni americane nell’agosto. Dopo quell’iniziativa gran parte degli osseti finì per perdere la speranza in una qualsiasi forma di riconciliazione con il governo georgiano, mentre prima la situazione era decisamente migliore almeno sotto il profilo del dialogo e della comunicazione tra le parti.

Possono esserci stati elementi di provocazione da parte russa nel determinare gli avvenimenti di questi giorni?

E’ molto probabile, sembra che i russi abbiano cercato di utilizzare i separatisti osseti per scontri di bassa intensità, ad esempio con un fuoco di cecchini sulle forze georgiane.

I problemi interni georgiani, le dimostrazioni dell’opposizione dello scorso autunno e le recenti polemiche dopo le politiche di maggio possono aver giocato un ruolo?

No. La ragione dell’iniziativa del presidente non sta in quei problemi ma nel fatto che era riuscito a superarli.

Con l’aiuto internazionale?

Gli osservatori dell’Osce che ho sentito avevano mostrato informalmente forti riserve, in privato, sul livello di democraticità delle elezioni politiche di maggio. L’idea che si era fatta strada tuttavia era che fosse meglio non dare una valutazione troppo critica del processo elettorale perché questo avrebbe prodotto instabilità.

Condivide questo atteggiamento?

Francamente l’opposizione georgiana appare del tutto incapace di formare un governo.

Non ci sono alternative concrete?

No, e credo che questa sia stata anche l’analisi prevalente all’interno della missione degli osservatori dell’Osce e del Consiglio d’Europa. Alla fine credo si sia deciso di concedere a Saakashvili il beneficio del dubbio, perché il rischio di instabilità era troppo forte.

E’ stata una strategia lungimirante?

Tskhinvali (AP/BBC)

Ora tendo a pensare che un po’ di instabilità interna forse avrebbe potuto avere degli effetti positivi, forse avrebbe impedito gli sviluppi che abbiamo visto verificarsi in questi giorni.

Quali sono state le caratteristiche dominanti dell’azione di Saakashvili in questi anni?

Nei 4 anni da quando Saakashvili è al potere, dal 2004 – cioè dalla rivoluzione delle Rose – ad oggi, il suo obiettivo è sempre stato quello di restaurare l’integrità territoriale georgiana. Nella cerimonia di inaugurazione del mandato presidenziale, a gennaio 2004, si recò alla tomba di Davide "il Costruttore" Devid IV Agmashenebeli, 1089-1125 ndr, il re che a cavallo tra undicesimo e dodicesimo secolo ha riunificato la Georgia. La caratteristica fondamentale della sua presidenza, quella sempre enunciata in campagna elettorale, è sempre stata questa.

Cosa è cambiato rispetto al periodo Shevardnadze?

La Georgia non è diventata una piena democrazia, anche se possiamo registrare dei progressi sostanziali rispetto all’amministrazione Shevardnadze soprattutto sotto il profilo del rafforzamento dello Stato. Prima lo Stato non esisteva, era un insieme di reti che si autosostenevano. La polizia era una specie di mafia. Le tasse rappresentavano il 15% del prodotto interno lordo, una percentuale molto bassa. Con Saakashvili le cose sono cambiate molto. La polizia è stata riformata, anche se secondo alcuni resta alquanto violenta, ma la corruzione è stata ridotta significativamente. La polizia stradale ad esempio prima aveva come funzione principale quella di estorcere denaro agli automobilisti, adesso la situazione non è più questa. La raccolta delle tasse è cresciuta fino al 30% del Prodotto Interno Lordo, il che ha portato a progressi significativi sotto il profilo infrastrutturale. L’approvvigionamento elettrico – che prima era disastroso – ora funziona 24 ore al giorno praticamente dappertutto in Georgia. Dal punto di vista della democratizzazione dello Stato, però, ci sono ancora grosse lacune.

Questa guerra potrebbe portare ad un cambiamento di regime in Georgia?

Ho creduto ad un certo punto che la Russia avrebbe continuato fino a provocare una sorta di deposizione forzata di Saakashvili, ora lo dubito. E’ molto difficile fare valutazioni, ma la mia impressione è che la posizione di Saakashvili sia temporaneamente sicura, almeno nel breve periodo, anche per il sentimento di solidarietà nazionale che si sta creando intorno al presidente in funzione anti russa.

Cosa potrebbe cambiare con il passare del tempo?

Tskhinvali (AP/BBC)

La gente comincerà a farsi delle domande. Quali sono i risultati dell’aver dedicato il mandato presidenziale alla restaurazione dell’integrità territoriale e una parte significativa del budget statale alla difesa? Potrebbero però manifestarsi anche posizioni politiche più radicali, con persone che chiedono perchè non si sia continuato con la guerra, per quanto assurdo. Personalmente credo che Saakashvili potrebbe dover affrontare grossi problemi interni il prossimo autunno.

La Georgia è un forte alleato degli Stati Uniti. Washington però è sembrata piuttosto distante, perlomeno nella prima fase della crisi…

Non credo che gli USA si lascerebbero coinvolgere in Georgia. Il problema è che il sostegno apparente degli americani deve aver fatto trarre delle conseguenze sbagliate all’amministrazione georgiana. I leader georgiani hanno sempre ritenuto in forma abbastanza ingenua che l’Occidente sarebbe venuto in loro soccorso, ma è chiaro che questo non poteva accadere. Ci sono stati equivoci alimentati dai cosiddetti "neocons" vicini al Pentagono. Dopo la fine dell’era Rumsfeld tuttavia mi sembra che la politica estera americana sia molto più improntata alla realpolitik.

La Georgia non è importante strategicamente?

Sì, ma non abbastanza. D’accordo, c’è l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, ma in realtà la percentuale delle esportazioni petrolifere che passa da quella linea è abbastanza limitata. Alla lunga bisognerà però interrogarsi sulla politica estera sia degli americani che degli europei, perché assistiamo alla crescita di una Russia sempre più incline ad ignorare l’opinione del resto della comunità internazionale. Potremmo assistere a scenari simili a quello attuale in Ucraina, ad esempio. Non credo che al momento ci sia alcun motivo di preoccupazione, ma sicuramente le repubbliche baltiche sono piuttosto in tensione vedendo quello che accade. Credo ci sia una sfida che in particolare gli europei devono raccogliere, cosa fare con una Russia che risorge e che non è disposta a giocare secondo le regole stabilite.

Il presidente Medvedev ha dichiarato martedì che la Russia aveva conseguito i propri obiettivi, cioè la difesa dei peacekeepers e dei cittadini russi. Erano questi gli obiettivi di Mosca?

La Russia vuole mostrare al mondo che questa è la propria sfera di influenza e che non accetterà azioni come quella intrapresa dalle forze georgiane nel proprio cortile di casa.

Questa guerra segna una nuova fase nelle relazioni internazionali?

La Russia sta cercando di riconquistare il proprio status di superpotenza dopo le umiliazioni degli anni ’90. Non vorrei esagerare questo punto, ma ci sono alcune somiglianze tra la situazione della Russia oggi e la Germania degli anni ’30. L’elemento dell’orgoglio ferito, ad esempio. La Russia è stata fortemente umiliata alla fine della guerra fredda, sembrava dover seguire un’agenda imposta dagli Stati Uniti. Ora assistiamo alla rinascita di pulsioni militariste, di destra, che parlano della riconquista dell’orgoglio nazionale e della sovranità sulle aree considerate parte della propria sfera di influenza.

Quanto importante è stata la questione del Kosovo nella crisi in Ossezia?

Credo che abbia avuto una sua importanza. Io ero tra quelli particolarmente preoccupati dalla dichiarazione di indipendenza di Pristina. Potrebbe non essere per forza una cosa negativa per il Kosovo, ma sicuramente lo è per il precedente che introduce nel diritto internazionale.

In questa crisi da diverse parti si è parlato della necessità di tutelare i diritti delle minoranze. Qual è la situazione delle minoranze che vivono all’interno dei confini della Georgia?

Le minoranze, in quanto tali, non hanno nessun reale diritto. La Georgia è uno stato centralista. La retorica ufficiale dichiara che è un paese estremamente tollerante e multiculturale, che a Tbilisi ci sono la moschea, la sinagoga e la chiesa ortodossa una vicino all’altra, ma in realtà c’è un certo grado di sciovinismo etnico anche all’interno della società.

Quali sono le minoranze maggiormente presenti?

Quella armena, che arriva al 90% della popolazione nelle due regioni di Samtskhe Javakheti, Akhalkalaki e Ninotsminda, nel sud del Paese, e quella azera. Gli azeri sono la maggioranza a Marneuli, Bolnisi e Dmanisi, nel Kvemo Kartli. Nessuno di questi distretti tuttavia gode di uno status particolare per il fatto che la popolazione è per lo più costituita da minoranze.

Ci sono state differenze in questo settore tra il periodo Shevardnadze e quello Saakashvili?

Durante il periodo Shevardnadze le minoranze erano praticamente lasciate a se stesse, il che significava che ad esempio nel settore dell’istruzione potevano utilizzare i propri testi scolastici e gli armeni completavano gli studi a Erevan, mentre gli azeri a Baku o Mosca. Con Saakashvili il governo ha proposto l’introduzione dell’istruzione obbligatoria in georgiano in alcune materie particolarmente sensibili come la storia e la geografia, una misura che dovrebbe entrare in funzione a partire dal 2010 e che ha causato molte critiche. Questo fa parte del progetto di costruzione dello Stato portato avanti da Saakashvili, e del tentativo di eliminare situazioni di enclave fuori dal controllo centrale. Il progetto di Saakashvili infatti è un progetto di costruzione dello Stato non solo rispetto alle amministrazioni secessioniste ma anche all’interno, nei confronti delle minoranze o anche dei gruppi e delle associazioni criminali che cercano di sottrarsi al controllo dello Stato.

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