Il fatto e la sua ombra di Vintilă Mihăilescu
I saggi di Vintilă Mihăilescu, antropologo romeno scomparso due anni fa, sono frutto della sua capacità di osservare acutamente le persone e le cose, un’osservazione estranea a qualsiasi desiderio di illudersi e a strumentalizzazioni
Cinque o sei anni dopo l’uscita dell’edizione serba della raccolta di brevi articoli La quotidianità non è più quella di una volta di Vintilă Mihăilescu, ne comprai una copia nella libreria “Plato”, ben fornita e arredata con gusto, a Subotica (editore Biblioteka XX vek, anno di pubblicazione 2002, traduzione dal romeno Biljana Sikimić). Recatomi nella mia patria, ormai scomparsa, da turista casuale, mi è bastato leggere, comodamente sprofondato in una poltrona, l’introduzione a firma dell’autore intitolata Il fatto e la sua ombra e il primo saggio, appositamente scritto per l’edizione serba, per decidere di acquistare il libro di Mihăilescu.
La quotidianità non è più quella di una volta raccoglie una selezione di brevi articoli di Mihăilescu, originariamente pubblicati sul quotidiano di Bucarest Dilema Veche e poi tradotti in serbo (utilizzo il termine “brevi articoli” perché più semplice, seppur meno corretto, dell’espressione “brevi saggi narrativi”.) Dilema Veche ancora oggi è considerato uno dei più importanti fenomeni culturali della Romania post-comunista.
L’edizione belgradese de La quotidianità non è più quella di una volta segna l’inizio e, al contempo, la fine dell’interesse per quest’opera al di fuori della patria dell’autore. L’estate scorsa ne parlai con un editore italiano, ovviamente da semplice lettore-frequentatore occasionale di antropologia (non sono altro nemmeno quando torno a leggere Claude Lévi-Strauss e Bronisław Malinowski.) L’antropologia narrativa di Mihăilescu cattura l’attenzione del lettore ed è capace di far capire ai non esperti l’importanza dell’etnografia e dell’etnologia, senza le quali il pensiero antropologico di Mihăilescu sarebbe inconcepibile.
Ora mi rendo conto di aver scelto il momento sbagliato per suggerire, del tutto volontariamente, a quell’editore italiano di pubblicare il libro di Mihailescu. Mi ascoltava mentre parlavo, o quantomeno fingeva di farlo, poi ad un certo punto mi chiese con aria distratta: “Chi è questo Mihăilescu? Oltre che in Romania, le sue opere sono state pubblicate solo in Serbia? E un libro in Francia?”. Ma non ne parliamo più.
Ho concepito questo articolo come un omaggio all’antropologo Vintilă Mihăilescu che ha concluso il proprio percorso esistenziale, scientifico e letterario nel maggio 2020, quando il mondo intero era sopraffatto da preoccupazioni apocalittiche legate al Covid 19. Ho imparato molto da Mihăilescu, riprendo volentieri in mano La quotidianità e, grazie ai traduttori elettronici online, possono leggere anche i suoi brevi saggi e le sue lucide interviste pubblicate in lingua romena. Se dovessi (ma non ci penso nemmeno!) mettere la mia copia de La quotidianità in vendita su uno dei portali dedicati alla compravendita di libri usati, dovrei aggiungere: in condizioni abbastanza buone, anche se visibilmente usato.
Credo che Mihăilescu si sentisse più a suo agio nel campo della vita reale che in quello bibliotecario e che a tutti i metodi scientifici preferisse il metodo del provare le cose sulla propria pelle. Un metodo rischioso, ma, in fin dei conti, vantaggioso! Non è un caso che la quotidianità costituisse il suo principale laboratorio, “ossia quello spazio in cui il simbolico diventa visibile, o vice versa, se preferite”.
“Tutto inizia con l’osservazione”, sostiene Mihăilescu nell’introduzione a La quotidianità – un volume suddiviso in tre parti, interconnesse tra loro e intitolate: Di cosa siamo fatti? Cosa ci portiamo dentro? Chi e perché ci ama? (vi faccio notare che i centodue testi che compongono il volume possono essere letti senza rispettare l’ordine indicato) – e prosegue affermando: “Una cosa apparentemente semplice e accessibile a tutti: osservo, vedo e racconto ciò che ho visto. In realtà però esiste un’intera disciplina dell’osservare, costituita per solo l’1% della percezione, mentre tutto il resto è… lettura. […] Ecco un episodio del tutto casuale della quotidianità: ad un pranzo organizzato nell’ambito di un incontro internazionale tenutosi in Bulgaria ci sono state servite le sarme. Le sarme!, ha esclamato con entusiasmo una giovane donna slovena. Poi ha guardato più attentamente e, dopo averne assaggiata cautamente una, ha gridato terrificata: ‘These are not real sarmi’ [queste non sono le vere sarme]. Quindi, ci troviamo davanti alla domanda: Cosa facciamo? Prima di tutto, devi essere disposto a sorprenderti, a non fidarti di ciò che credi di vedere, perché, di regola, vedi ciò che credi di vedere a causa degli stereotipi, delle norme o della fede vera e propria”.
I saggi antropologici e sociologici di Mihăilescu sono frutto della sua capacità di osservare acutamente le persone e le cose, un’osservazione estranea a qualsiasi desiderio di illudersi e al tentativo di strumentalizzare visioni ideologiche contrapposte (comunismo e post-comunismo vs. transizione). Semplicemente, Mihăilescu fino alla fine dei suoi giorni è rimasto fedele alla sua idea, al contempo umile e umanistica, della necessità di rendere la società romena, uscita traumatizzata dall’epoca totalitaria, migliore e più umana, rifiutandosi però di rispondere acriticamente alle invocazioni del liberalismo. A prescindere da tutte le specificità culturali e sociali dalla Romania di ieri e di oggi, gli aspetti considerati tipicamente “romeni” possono essere facilmente rilevati in tutte le società post-comuniste, nonché in alcune delle cosiddette vecchie democrazie.
Nessuna sorpresa quindi se i saggi di Mihăilescu – scritti in uno stile lapidario da un osservatore che, quasi sempre, è anche protagonista degli episodi descritti, a prescindere dal fatto che la storia si svolga in uno dei microcosmi rurali e sperduti della patria dell’autore (Mihăilescu amava molto il villaggio!) o nell’ambito di uno di quegli incontri scientifici in cui non mancano mai le menti accademiche straintelligenti – raramente possono essere rinchiusi nella “gabbia” romena, semplicemente perché rispecchiano il complesso dramma di una società in transizione – la si può definire così? – dalla “quantità” comunista alla “qualità” democratico-capitalista. In una recensione de La quotidianità, pubblicata sul settimanale belgradese Vreme, Teofil Pančić ha definito il libro di Mihăilescu “una piccola cronaca di inciampi nel cammino verso la Modernità”.
Mihăilescu ci pone implicitamente la domanda: quando quegli inciampi possono essere considerati parte integrante di una tragedia e quando di una commedia, se non addirittura di una farsa? Quest’ultima è un fenomeno piuttosto diffuso in una società, come quella romena, che dopo la Seconda guerra mondiale da un contesto arcaico e rurale fu spinta forzatamente verso il comunismo e poi, dopo il 1989, si tolse gli abiti comunisti (un fenomeno che non mi sembra circoscritto alla Romania!) per adottare l’habitus democratico. Alla radice del comico è il tentativo di imitare tutto e tutti, basta che ciò che si imita non sia in alcun modo legato al passato. Alla radice del tragico invece è il desiderio di entrare nella cerchia dei paesi dominanti e forti, senza preoccuparsi delle conseguenze. Anche nel saggio di Czesław Miłosz Sotto la pelle della scimmia troviamo ottime spinte alla riflessione sulla costruzione dei modelli preponderanti nel post-comunismo dell’Est di una volta. Sembra che Mihăilescu non taccia nulla di fronte al fatto e alla sua ombra, dalla tradizione inventata alla finzione politica dopo la caduta del Muro. “Occorre sottolineare en passant che in questo mondo della finzione i mass media somigliano quasi alla politica perché fungono da mezzi di diffusione delle storie messe a confronto e, in ultima analisi, di divulgazione di quelle finzioni”.
Mihăilescu a tutt’oggi è rimasto poco noto in Europa. Va bene, la Romania è un paese situato alla periferia dell’Europa, ma anche il pensiero degli intellettuali romeni deve per forza essere considerato periferico, finendo così per essere ignorato?
Non scrivo queste righe (che non sono concepite come una recensione; è risaputo che solo i libri che ancora profumano di inchiostro tipografico vanno recensiti) con l’intento di lodare Ivan Čolović, direttore della casa editrice Biblioteka XX vek, e la sua idea di “educazione permanente”, né tanto meno con lo scopo di criticare gli editori italiani ed europei. No, voglio semplicemente dire che in pochi sono stati capaci di riconoscere una voce autentica come quella di Mihăilescu .
Per concludere, propongo ai lettori pazienti di queste righe dedicate all’intellettuale romeno e grande mentore per diverse generazioni di studenti un testo tratto da La quotidianità non è più quella di una volta.
L’identità e il dente
In questi giorni avrei dovuto presentare davanti ad una commissione attentamente selezionata un progetto di ricerca dedicato alle relazioni internazionali in Romania. E, come di consueto, ho iniziato esponendo “la cornice teorica” e “la situazione della scienza a livello internazionale”. Ho preso in considerazione il cambio fondamentale di paradigma avvenuto negli anni Sessanta nell’ambito della ricerca focalizzata sull’etnicità. Le teorie “costruttiviste” hanno definitivamente sostituito quelle “essenzialiste”, e l’idea secondo cui l’identità, per sua stessa natura, sarebbe relazionale e dinamica è diventata un luogo comune. Dopo aver concluso la presentazione, finalizzata a convincere l’onorevole commissione che si trattava di un progetto molto ben ideato, un eminente esponente della nostra cultura mi ha chiesto così, per soddisfare una curiosità personale: “Crede davvero che queste teorie ‘costruttiviste’ valgano anche per il nostro paese?”. Ero tentato di replicargli con la seguente domanda: “E lei crede che la forza di gravità raddoppi una volta attraversati i Carpazi?”, ma non l’ho fatto, limitandomi a borbottare con la voce più attutita possibile: “Uhm… sì”. Mi è tornato in mente un episodio che racconto ogni volta che se ne presenta l’occasione. Quando in Francia, negli anni Novanta, parlavo di identità, tutti mi correggevano dicendo: “Si riferisce ovviamente alla ‘produzione’ (o ‘costruzione’) dell’identità!”. La prima volta che in Romania ho parlato della “costruzione di identità” è stata anche l’ultima. La mia formulazione francese ha mandato su tutte le furie la redattrice televisiva che stava per intervistarmi sull’argomento. “In che senso ‘la costruzione dell’identità’!? Persino un bambino sa che l’identità è, non si costruisce!”, ha esclamato, per poi uscire sbattendo la porta.
Da allora mi confronto costantemente con i miei studenti e altri interlocutori ingenui, cercando di spiegare loro come si costruisce un’identità collettiva, che dipende dall’alterità con cui interagisce, può essere frutto delle decisioni politiche o strategiche, delle circostanze, e così via. Ho portato avanti questo discorso fino a due mesi fa, quando, per un paio di ore, munito di tutte le armi e gli strumenti a disposizione, sono passato nello schieramento opposto.
Seguivo un colloquio a Lione in cui un mio ex studente stava presentando i risultati di una ricerca sul carattere dinamico dell’identità di una comunità rom in un villaggio della Transilvania. Il suo intero discorso seguiva fedelmente le idee esposte nei libri dedicati alle teorie costruttiviste dell’etnicità: i rom a volte erano considerati rom, a volte no, a volte erano buoni perché, insieme a romeni e sassoni, rientravano nella categoria degli “autoctoni”; a volte erano cattivi in quanto nuovi arrivati nel villaggio, “estranei” anziché “rom”, etc. La spiegazione di un romeno locale secondo cui gli zingari locali sarebbero più romeni che rom perché si comportano come i sassoni è arrivata nel momento perfetto. Il pubblico francese ha accolto la presentazione con ovazioni. “Il nostro collega ha fornito una prova eccezionale del fatto che non si può parlare di gruppi etnici, perché l’identità è sempre, e soprattutto, un costrutto ‘a geometria variabile’”, ha concluso il direttore del dipartimento.
“Certo, come no!”, ho esclamato infuriato, chiedendo polemicamente ai presenti: “E quando si sposano tra di loro, sanno o non sanno che sono rom?”. Poi, dopo aver rifiutato di esporre la mia valutazione, ho iniziato a decostruire, pezzo per pezzo, gli argomenti del mio studente. Visto che quest’ultimo, ovviamente, è intelligente quanto me, ha subito replicato, lasciando i presenti molto perplessi. Ha fatto un discorso “neo-essenzialista”, dopo il quale i francesi volevano deportarmi dal loro paese anti-identitario.
Costruttivista in Romania, essenzialista in Francia, pur di non schierarmi con ideologie dominanti, mi sono definitivamente convinto della veridicità di una tesi avanzata da una mia amica psicologa: l’identità è come un dente, ti rendi conto della sua esistenza solo quando inizia a far male.
La quotidianità non è più quella di una volta. (Vintilă Mihăilescu)
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