Il dialogo fra Belgrado e Pristina riparte (in salita) da Bruxelles
Dopo il naufragio di un controverso intervento statunitense e uno stallo durato venti mesi, il negoziato per la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, facilitato dall’Unione europea, è ripartito nei giorni scorsi da Bruxelles. Nelle prossime settimane le trattative continueranno lontano dai riflettori
(Quest’articolo è stato pubblicato in anteprima su Europea )
La delegazione di Pristina era già in viaggio: tutto era pronto per decollare oltre Atlantico e presenziare al vertice Kosovo – Serbia, messo in agenda a Washington per il 27 giugno dall’amministrazione Trump con l’ambizione di segnare una svolta risolutiva nei tormentati rapporti bilaterali.
All’improvviso, però, nella mattina di quel 24 giugno è rimbalzata sui social media la notizia: il presidente del Kosovo Hashim Thaçi, alla guida del team negoziale diretto negli USA, era stato incriminato dalla Corte speciale per i crimini dell’UCK, accusato tra le altre cose di crimini di guerra e della responsabilità in quasi cento omicidi durante il biennio 1998-99.
La tempistica dell’annuncio della Corte – con sede all’Aja, ma parte del sistema giudiziario del Kosovo – farà discutere a lungo. Di un coinvolgimento di Thaçi nelle indagini si parlava da tempo, viste le gravissime accuse nei suoi confronti dell’esplosivo rapporto pubblicato nel 2011 dal rapporteur al Consiglio d’Europa Dick Marty, che ha dato il via alla costituzione stessa della Corte.
Rendere pubblica l’incriminazione alla vigilia del vertice, però, ha significato di fatto far naufragare sul nascere il tentativo negoziale americano. Un tentativo, c’è da aggiungere, fortemente controverso: con la mediazione europea al palo da mesi, l’amministrazione Trump aveva rilanciato la propria azione diplomatica flirtando a lungo con l’idea di uno scambio di territori, vista in Europa come un rischioso azzardo in grado di riaccendere altre questioni irrisolte nell’area, come il destino della fragile architettura istituzionale in Bosnia Erzegovina.
Col fulmineo tramontare dei negoziati americani che – sussurrano in tanti – avrebbero dovuto garantire a Trump un successo internazionale alla vigilia delle elezioni presidenziali del prossimo novembre, la palla torna quindi nel campo europeo.
Per dimostrare che vuole fare sul serio, l’UE ha nominato un nuovo rappresentante speciale al dialogo Serbia-Kosovo, lo slovacco Miroslav Lajčák, e ha lanciato una nuova agenda per riannodare i fili di un percorso interrotto venti mesi fa, quando il governo kosovaro – allora guidato da Ramush Haradinaj – decise di introdurre dazi del 100% sulle merci serbe come ritorsione contro l’ostruzionismo serbo verso l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali. Un muro contro muro che ha fatto collassare il processo negoziale, lanciato faticosamente nel 2011.
Lo scorso 16 luglio le due delegazioni – guidate dal presidente serbo Aleksandar Vučić e dal premier kosovaro Avdullah Hoti – si sono nuovamente incontrate a Bruxelles: nonostante l’annuncio di passi in avanti su alcuni dossier, come quello delle persone scomparse, la ripartenza ha lasciato però intravedere un percorso tutto in salita.
Hoti ha dichiarato apertamente che il dialogo non deve e non può più essere di natura tecnica – alla ricerca di soluzioni pragmatiche, ma limitate – ma squisitamente politica, con l’obiettivo di normalizzare i rapporti bilaterali “attraverso il riconoscimento reciproco [di Serbia e Kosovo]”. Pristina ribadisce quindi di volere proprio quanto Belgrado non sembra pronta a concedere: prima di viaggiare alla volta di Bruxelles, Vučić ha insistito proprio sui “piccoli passi” come strategia vincente per la Serbia.
In queste settimane il negoziato continuerà lontano dei riflettori, a livello di funzionari e diplomatici, mentre per il prossimo incontro ad alto livello bisognerà aspettare il mese di settembre.
Se vuole riuscire là dove l’amministrazione Trump ha fallito, alla diplomazia europea non basterà una dimostrazione plateale di impegno e buona volontà. A Bruxelles si dovranno invece guardare negli occhi le debolezze che hanno rallentato il negoziato – che per onor del vero si prospettava come complesso e difficile fin dall’inizio – fino a farlo impantanare.
Nel 2013 c’era stato un successo tangibile e foriero di ottimismo, l’accordo quadro tra le parti degli Accordi di Bruxelles. L’intesa però è rimasta in gran parte solo sulla carta, mentre l’attenzione dell’UE nei confronti della questione è tramontata rapidamente, messa in ombra dalle numerose emergenze a cui l’Unione ha dovuto far fronte negli ultimi anni.
Anche la capacità di influenza dell’UE nei confronti delle parti si è fatta via via più debole: la prospettiva di ingresso nell’Unione – la “carota” più ambita da Pristina e Belgrado – è diventata sempre più impalpabile e lontana nel tempo: in questi anni il Kosovo non è riuscito neanche ad uscire dall’umiliante “lista nera” di Schengen, e resta oggi l’unico paese dell’area ai cui cittadini è richiesto un visto d’ingresso per viaggiare verso i paesi dell’area europea di libero movimento.
Per convincere Kosovo e Serbia che il compromesso è la strada giusta da percorrere, Bruxelles e i pesi massimi dell’UE, Francia e Germania, che in questa fase hanno riafferrato le redini del negoziato con l’intervento diretto di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, devono mettere sul piatto incentivi concreti se vogliono davvero chiudere la questione più dolorosa e destabilizzante lasciata in eredità dalla dissoluzione violenta della Federazione jugoslava.
I conti, però, non si possono fare senza l’oste. Senza una reale volontà di intesa di Serbia e Kosovo non c’è spazio per una normalizzazione duratura e sostenibile dei rapporti. I due contendenti si trovano entrambi in una situazione politica, sociale ed economica delicata, dominata dalle enormi incognite legate agli sviluppi dell’epidemia di coronavirus, che al momento colpisce duramente sia la Serbia che il Kosovo.
Vučić, che ha imposto alla Serbia un regime sempre più autoritario, sulla carta ha la mano libera per cercare e difendere un’eventuale intesa sul Kosovo, dopo aver letteralmente dominato le elezioni dello scorso giugno – boicottate dall’opposizione – che gli hanno regalato una maggioranza schiacciante in parlamento. Le basi del suo potere, apparentemente incontrastato, si sono però mostrate più fragili del previsto con lo scoppio delle violente proteste di piazza che hanno scosso la Serbia nelle ultime settimane, mosse dallo scontento politico e dalle frustrazioni generate dalla crisi COVID19. Mettere la propria firma sotto un’intesa con Pristina, resta un rischio politico anche per il potere a prima vista illimitato del presidente serbo.
Ancora più complicata la situazione in Kosovo, oggi retto da un governo figlio di un vero e proprio ribaltone contro i vincitori delle ultime consultazioni, il movimento nazionalista-progressista Vetëvendosje, privo di forza e secondo molti anche di legittimità politica. Con la presenza carismatica e controversa del presidente Thaçi fuori dai giochi a tempo indeterminato, non è affatto sicuro che la debole compagine di governo al potere a Pristina sia in grado di gestire la sfida del negoziato – e di un’eventuale accordo – con Belgrado.
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