Tipologia: Intervista

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Area: Balcani

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Il crollo

La fine della divisione dell’Europa, la fine della Jugoslavia, l’avvento della globalizzazione: intervista a Rada Iveković. I nostri materiali di riflessione e analisi su identità europea, nuovo sistema di relazioni internazionali e memoria del comunismo nel ventennale del 1989

04/03/2009, Andrea Oskari Rossini -

Il-crollo

Rada Iveković, filosofa, insegna al Collège International de Philosophie di Parigi e all’Università di St-Etienne in Francia. Tra le sue pubblicazioni più recenti segnaliamo: La balcanizzazione della ragione, Manifestolibri, Roma, 1995; Autopsia dei Balcani. Saggio di psico-politica, Raffaello Cortina editore, Milano, 1999; Dame-Nation. Nation et différence des sexes, Longo Editore, Ravenna, 2003; S. Bianchini, S. Chaturvedi, R. Ivekovic, R. Samaddar, Partitions. Reshaping States and Minds, Routledge Frank Cass, Londra, 2005

Dove si trovava quando ha saputo del crollo del Muro di Berlino?

A Zagabria.

Come ricorda quel momento?

Come un momento molto particolare da un punto di vista emotivo, e anche come un momento di grande speranza. Vedevamo la possibilità di un’apertura, e la fine della divisione dell’Europa. Lo ricordo anche come un momento di responsabilità, come una chiamata personale. Quello che ancora non sapevo era che nello svolgersi di quegli eventi sarebbe anche finita la Jugoslavia. Poco prima era morta mia madre, ed era morto lo scrittore Danilo Kiš, importante per la mia generazione. Era la fine di un’epoca.

Quali erano le vostre aspettative?

Non so dire se c’erano delle vere aspettative. C’era molta incertezza. Io lo consideravo certamente come un momento molto positivo, perché vedevo la fine della divisione del popolo tedesco e della spartizione dell’Europa. Tutto quello che sarebbe venuto dopo, la violenza, non l’avevo prevista. E’ facile adesso dire che si sapeva che si sarebbe andati verso un esito violento. In verità io allora non lo sapevo, e credo che pochi l’avessero previsto. Pensavo ad una democratizzazione di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, alla fine di regimi come quello della Germania Orientale. Pensavo che quei Paesi si sarebbero trasformati venendo ad assomigliare un po’ di più alla Jugoslavia. Era chiaro che il modello jugoslavo non fosse riuscito, ma noi eravamo ancora concentrati sulla differenza tra teoria e prassi. Si credeva che la prassi non fosse sufficientemente buona, ma che la teoria forse non fosse sbagliata. Questi erano i nostri limiti, erano i limiti del tempo. In seguito abbiamo capito che non era crollato solamente un sistema chiuso, quello del socialismo, ma che il Muro era caduto da entrambe le parti. Questa è una cosa che allora non era chiara.

Cioè?

Nonostante quegli eventi siano stati celebrati come il trionfo del modello capitalistico occidentale, il Muro è caduto da tutti e due i lati e la sconfitta è avvenuta da entrambe le parti.

Quali sono i caratteri di questa sconfitta?

Non siamo arrivati ad un sistema internazionale democratico, sono solamente cambiate le forme dell’egemonia e del dominio. Di questo siamo tutti responsabili. Oggi, con la crisi finanziaria, vediamo con maggiore chiarezza i limiti del modello occidentale, si sa bene che è stata una sconfitta. In quel momento però non lo si vedeva, e forse ancora oggi in Occidente non lo si comprende sufficientemente. E’ come se il Muro fosse caduto solo dalla parte orientale. Noi che eravamo nei Balcani, però, ci siamo resi conto ben presto che il Muro era caduto da tutte e due le parti.

La fine della Jugoslavia era scritta nei fatti dell’89?

Per molto tempo non abbiamo considerato gli eventi successivi come parte del disfacimento dell’equilibrio della Guerra Fredda in Europa, della fine della divisione dell’Europa. Ci vedevamo come un caso a parte, invece non lo eravamo. In quel momento alcune cose erano già visibili, c’erano già ad esempio le barricate serbe nelle regioni croate, nella Krajina, ma mentre sei all’interno del processo non sei sicuro di cosa stia accadendo. Oggi tutti dicono che lo sapevano, io francamente non lo sapevo. Vedevo molte difficoltà, temevo un travolgimento, ma non me lo aspettavo veramente. Certamente non me lo aspettavo in maniera così rapida e violenta.

Esiste ancora un Muro che separa Europa occidentale e orientale?

Abbiamo iniziato un percorso, ma penso che il Muro esista sempre, per lo meno nella testa delle persone. La divisione non è una questione risolta. Certo, la gente viaggia di più, almeno le élites. Diciamo che le élites si conoscono un po’ meglio, e c’è una certa circolazione di idee, anche se non sufficiente. Ma il problema è che i confini sono sempre più proiettati all’interno dell’Europa, e si chiamano razzismo, problemi economici e di classe, problemi sociali, migrazioni.

In molti Paesi dell’Europa dell’Est i dissidenti sono ora al governo, o ci sono stati. Che fine ha fatto la società civile jugoslava del periodo socialista?

E’ stata spazzata via dai nazionalisti, con il concorso attivo della comunità internazionale. Ricordo da esempio la trojka che era stata creata all’inizio della crisi in Jugoslavia, con quel vostro ministro…

De Michelis?

Sì, tragico… I mediatori internazionali europei non hanno mai parlato con i membri della società civile jugoslava non nazionalista.

L’Europa è divenuta un soggetto più forte o più debole con il 1989?

Ha avuto un’occasione storica per divenire un soggetto più forte, ma questa occasione non è stata colta. Il momento per una soggettività forte europea, a livello internazionale, evidentemente non è ancora giunto. Ma a questo punto mi chiedo anche se ce ne sia la necessità, e quale speranza porterebbe. Il problema è che l’Europa non si è assunta le responsabilità che doveva assumersi, per eventi che vanno ben al di là delle crisi degli anni ’90.

Quali?

Quelle per la Seconda guerra mondiale, con lo sterminio, la conseguente espulsione degli ebrei e la creazione di Israele, che è una creazione coloniale. Il conflitto in Palestina continua e non vedo l’Europa agire con intelligenza in questa situazione. Questo avviene perché in Europa siamo tutti colpevoli di quanto è accaduto agli ebrei, non solo il popolo tedesco. Ma su tutto questo esiste una memoria distorta, che assomiglia all’oblio. L’oblio dei palestinesi a favore degli israeliani. L’altro grande oblio è quello della storia coloniale europea. Il colonialismo storico è finito negli anni ’60, ma oggi proietta le sue conseguenze sulle grandi migrazioni, e l’Europa non se ne assume la responsabilità. Si chiude, basta guardare cosa accade in questi giorni a Lampedusa. Il terzo oblio è quello della costruzione dell’Europa attraverso la violenza, attraverso guerre periferiche, come quelle della ex Jugoslavia negli anni ’90 e altre, a minore intensità, ma che continuano ancor oggi, nel Caucaso e in Russia. L’Europa si sta costruendo su questi oblii.

Che legame c’è tra questi elementi?

Non è un processo lineare, dal punto di vista temporale. L’immigrazione, il colonialismo e le guerre nei Balcani si congiungono in una contemporaneità paradossale. Cioè non sono elementi contemporanei, ma lo divengono nel processo di costruzione dell’Europa, nel modo in cui l’Europa rimuove i problemi non risolvendoli. Li circoscrive, li limita, crea delle partizioni senza prendersi cura dell’insieme.

Come dovremmo ricordare il 1989?

Quell’anno sono successi eventi ancora più importanti di quanto è avvenuto in Europa. Il 1989 è l’anno della violenza a Tien An Men, l’anno del grande cambiamento in Cina verso una forma di capitalismo socialista, non so come definirla, una forma specifica di neoliberismo. La stessa cosa è avvenuta per l’India. Anche lì il 1989 è stato l’anno della trasformazione, della grande apertura al mercato, della fine del progetto socialista. In questi due Paesi quell’anno cominciano ad emergere in maniera radicale le divisioni interne, la sempre maggiore povertà di una parte della popolazione a fronte delle sempre maggiori ricchezze di un’altra. L’Europa rappresentava solo in scala minore il modello di una divisione che è caduta. Così come nei Paesi dell’Est, in India e in Cina quell’anno sono stati abbandonati tutti i progetti di welfare state, così anche in Europa occidentale questo progetto ha cominciato a essere messo sotto attacco. Era l’inizio della visibilità della globalizzazione.

La memoria del comunismo ha preso la forma di paccottiglie, distintivi e stelle rosse vendute per la strada. C’è qualcosa che dovremmo ricordare di quel periodo?

Ci sono molte cose da ricordare, ma è intervenuto un problema, quello del passaggio ad un’altra forma di linguaggio e della perdita di senso. Abbiamo conosciuto un processo di de-semantizzazione rispetto a quanto avevamo prima. Si è rovesciato tutto. Questo processo di perdita di senso e di orientamento ha provocato una perdita di passione politica, e una perdita di giudizio. Questo percorso ha favorito la perdita della memoria: cosa vuoi ricordare, se ricordi il rovescio? Siamo di fronte ad un problema più grande, un problema teorico che riguarda il linguaggio e i paradigmi in generale. Serve una rivoluzione epistemologica, nel pensiero e nel linguaggio politico. Non solo all’interno dell’Europa, ma insieme ai Paesi del Sud e ai continenti ex colonizzati. Credo che certe cose ci verranno dal Sud. Anche dall’Est forse, cioè dalle parti non egemoniche del pianeta. Sotto questo profilo, anche l’Est si trova a Sud.

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