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“Il cerchio“ di Meša Selimović

È uscito recentemente per i tipi della casa editrice Bottega Errante di Pordenone “Il cerchio“ di Meša Selimović. Una recensione

23/05/2019, Božidar Stanišić -

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Meša Selimović (1910-1982) lavorava al romanzo “Krug” [Il cerchio] tra il 1973 e il 1976, nei periodi più o meno lunghi in cui, ormai cagionevole di salute, si sentiva meglio. La realizzazione di questo libro, l’ultimo scritto da Selimović, fu caratterizzata dalla costante insoddisfazione dello scrittore per le diverse versioni e la redazione finale del testo. La prima edizione de “Il cerchio”, curata da Nikola Vujčić, fu pubblicata postuma nel 1983 dalla casa editrice belgradese BIGZ, in 6000 copie. La seconda edizione fu stampata in 10.000 copie, e questo libro ancora oggi suscita grande interesse in tutta la ex Jugoslavia.

Il manoscritto de “Il cerchio” è conservato in sette quaderni. Pur essendo rimasto incompiuto, questo romanzo, grazie alla sua struttura e compattezza semantica, si presenta al lettore come un’opera letteraria coerente. Credo che il lettore dell’edizione italiana de “Il cerchio” perdonerà all’autore alcune incongruenze rispetto all’ambientazione del romanzo (Meša era indeciso se ambientarlo a Belgrado o Sarajevo) e all’intrecciarsi di eventi storici degli anni Sessanta e Settanta. L’editore Bottega Errante ha pubblicato “Il cerchio”, nella traduzione di Elisa Copetti, consapevole del fatto che si tratta di un romanzo ancora oggi attuale, incentrato sulle questioni relative al rapporto tra libera volontà e morale, tra etica individuale e norme sociali, tra mezzi e fini, tra ideologia e realtà sociale, tra assurdità di un mondo chiuso e amore inteso come apertura all’altro.

Un contemporaneo di Meša

Vladimir Rađenović, giovane protagonista de “Il cerchio”, è un contemporaneo di Selimović. È evidente che negli anni Settanta, mentre lavorava ai romanzi “L’isola” e “Il cerchio”, nonché a un libro autobiografico intitolato “Sjećanja” [Ricordi], Selimović abbandonò completamente l’idea di mascherare il suo rapporto con se stesso e con gli altri attraverso la trasposizione della trama in un lontano passato. (Il dolore per la perdita del fratello Šefkija, partigiano fucilato nel 1944 dai suoi stessi compagni, era ancora fresco. Ambientando il romanzo “Il derviscio e la morte”, ispirato alla morte del fratello, nel periodo del dominio ottomano in Bosnia, Selimović sembra aver voluto raggiungere una comprensione più chiara del dogmatismo e delle sue conseguenze deleterie. Utilizzò lo stesso meccanismo nel romanzo “La fortezza”, un’opera da cui traspira un’impressionante fiducia nella possibilità dell’amore in un mondo pieno di fortezze).

“Il cerchio” si apre con la scoperta, da parte di Vladimir, della verità su suo fratello maggiore Mladen, morto nell’ottobre 1944. Mladen è stato proclamato eroe della Rivoluzione, ma con il suo gesto ha spinto alla morte suo padre e sua madre. "Tuttavia, contava solo Mladen". Vladimir, nonostante fosse il fratello dell’eroe e l’unico membro sopravvissuto della famiglia, non è stato invitato alla cerimonia di inaugurazione di un museo dedicato a Mladen, allestito nella loro casa natale. Irritato da questo gesto dei suoi compagni di partito, Vladimir decide di abbandonare una radna akcija [iniziative di lavoro volontario organizzate nella Jugoslavia socialista, ndt] senza avvisare nessuno. Da quel momento fino alla fine del romanzo, lo scrittore crea un’intera galleria di personaggi legati da rapporti perlopiù contrastanti. Tuttavia, questi contrasti, caratteristici dello stile narrativo di Selimović, sono determinati dalle sfumature della sua percezione delle differenze – dal punto di vista politico, sociale e culturale – tra i suoi personaggi.

Ogni personaggio de “Il cerchio”, giovane o vecchio che sia, porta sulle spalle il fardello del proprio passato, ma il fardello di Vladimir è il più gravoso e complesso. Il senso di dolore e di vuoto lo spinge a rievocare incessantemente la figura del fratello ucciso e a richiamare alla mente le immagini della tragedia che colpì i loro genitori. La cerimonia di inaugurazione del museo dedicato a suo fratello è un evento scatenante che spinge Vladimir ad acuire il suo sguardo critico sulla realtà. Rendendosi conto delle differenze inconciliabili tra la generazione di partigiani e quella dei loro figli, Vladimir assume sempre maggiore consapevolezza di sé e capisce che non deve permettere che il suo pensiero venga plasmato da nessuna ideologia, compreso il comunismo. La sua ferma fiducia nella correttezza della linea del Partito e della Rivoluzione inizia definitivamente a vacillare.

Un viaggiatore solitario, tra fiducia e dubbi

Vladimir, che all’inizio del romanzo troviamo in un treno, è un viaggiatore solitario che "fa i conti con se stesso, per gli altri e per sé". Questa frase si trova nella parte finale del libro, scritta nel periodo in cui Selimović lottava contro la malattia e la debolezza fisica.

È difficile dire quale sia il più schietto tra i romanzi di Selimović. La profondità e precisione delle sue riflessioni, esposte nei dialoghi de “Il cerchio” – degni di essere paragonati ai dialoghi più convincenti del cinema (Selimović vantava anche una ricca esperienza come sceneggiatore) – ci inducono a pensare che questo romanzo, sotto questo punto di vista, non abbia nulla da invidiare alle altre opere di Selimović.

Ma chi viene “risparmiato” da Selimović? Nei confronti di chi lo scrittore mostra una certa mitezza? Nel romanzo “Il derviscio e la morte” Selimović assume un atteggiamento mite nei confronti di Hasan, l’unico amico di Ahmed Nurudin. Da giovane, Hasan nutriva una fede più ferma di quella di un derviscio, ma poi decise di seguire il consiglio di un uomo saggio di Smirna: "Sei destinato a vivere qui – e allora vivi. E vivi la vita migliore che puoi, ma in modo tale da non doverti vergognare di te stesso. E fai in modo che Dio ti chieda: ‘Perché non lo hai fatto?’. Anziché: ‘Perché lo hai fatto?’". E vivere qui, secondo Selimović, comporta un prezzo da pagare, un prezzo che consiste nel subire il disprezzo della propria famiglia, ma anche dell’intera società. Il suo Hasan vagabonda per le ampie strade, lungo le quali incontra "persone buone e cattive, con le stesse preoccupazioni e difficoltà come qui, con le stesse gioie per le piccole fortune, come ovunque".

Tutti i personaggi di Selimović che accettano e vivono in obbedienza ai dogmi diventano prigionieri della propria fortezza, sia essa un’ideologia, religione, potere oppure il desiderio di arricchimento materiale. Non di rado la fortezza è rappresentata anche dalla famiglia.

Nei suoi “Ricordi” Selimović mostra mitezza verso un personaggio ispirato a una persona reale, che lo scrittore conobbe durante la sua infanzia trascorsa a Tuzla. Anch’egli si chiamava Hasan. Era un minatore, un uomo diverso dagli altri. Non si vergognava di mostrare in pubblico il suo amore per sua moglie, di origine russa, che conobbe in Russia dove fu detenuto come prigioniero di guerra austro-ungarico. "La russa lo tiene a briglia corta!, dicevano. Ma gli invidiavano la sua innocua felicità".

Ne “Il cercho” Selimović mostra mitezza verso tutti quelli che condividono il suo credo, che ci si rivela implicitamente: autentico è naturale, naturale è bello, e bello è solo ciò che è vero. Pertanto è bella, a modo suo, la vita di Mara e dello zio; il bello e il vero emanano dall’amore tra Nina e Ismet; c’è bellezza anche nello spirito critico di Čizmić, che non risparmia nessuno (perché è meglio criticare che rimanere in silenzio di fronte ai fatti e alle diverse espressioni del dogma); la vera vita è quella delle persone che vivono sulle rive del fiume, così come sono – non senza difetti e debolezze, ma calorose nonostante la povertà. Queste persone hanno quello che manca a molti – una filosofia di vita che ha aperto loro gli occhi sulla verità sul “possedere”: l’uomo possiede tutto ciò che vede. A questa concezione dell’”avere” Selimović avvicina gradualmente anche Vladimir, che è uno dei due alter ego dello scrittore. L’altro è lo zio di Vladimir, un pittore che dipinge fino all’ultimo respiro perché bisogna resistere a tutto, anche all’impotenza estrema, se necessario con il pennello legato alla mano ormai debole.

“Il cerchio” di Meša oggi

A quasi quattro decenni di distanza dalla prima edizione de “Il cerchio” e a un quarto di secolo dalla dissoluzione della Jugoslavia, questo libro ci si apre davanti con tante possibilità di interpretazione quanti sono i suoi lettori, soprattutto quelli “direttamente interessati”, cioè gli ex jugoslavi. Ma questo romanzo potrebbe ugualmente essere ambientato anche nell’Europa e nel mondo di oggi; è inesorabilmente attuale anche nell’epoca della globalizzazione. È sufficiente sostituire il monopolio dogmatico del comunismo con quello della finanza e del capitale – che ormai incidono esplicitamente sul funzionamento dei sistemi democratici – e tenere a mente il fatto che questi sistemi hanno bisogno di servitori politici, militari e mediatici. Ogni monopolio dogmatico porta alla rovina, come Selimović aveva profeticamente intuito nel caso della Jugoslavia.

Post scriptum

Oggi i figli di Hana e Vladimir probabilmente si chiederebbero perché negli anni Ottanta e Novanta si è persa l’occasione per compiere la transizione dal comunismo a una democrazia dal volto umano, e perché la resistenza all’ideologia, ormai dominante, del semi-selvaggio capitalismo balcanico è limitata all’azione di un ristretto numero di forze culturali e politiche. In un altro romanzo, mai scritto, almeno uno di loro due sarebbe un Vladimir 2, che avrebbe un’altra Nina e un altro Čizmić, il ribelle… Solitario, naturalmente.

 

Frammenti da "Il cerchio"

La terribile lotta corpo a corpo con il demonio del dubbio solitamente cominciava con una domanda:

«Hai fatto davvero la cosa migliore?».

Era un approccio cauto e riguardoso all’idolo: oltre a tutto il rispetto che porto per te e per il tuo gesto, hai scelto proprio la possibilità ideale?

La difesa immaginaria di Mladen, che si componeva dei suoi stessi argomenti, di altri tempi, in effetti, lo conduceva in una discussione sempre più accesa e in una contestazione sempre più aspra. Era una lotta contro se stesso, il biasimare i principi più limpidi cui il suo cuore poteva giungere, uno sguardo dall’altra parte, dove di solito non si guarda: che cosa c’è nell’oscurità che nascondo a me stesso?

«Ho agito come dovevo» rispondeva l’ombra del fratello.

«E questo è anche un bene? Non volevi arrenderti vivo, è giusto, hai donato la tua vita al partito, non potevi fare di più. Ma non eri solo. Avevi il diritto di sacrificare gli altri? Tuo padre, tua madre, me. Sì, anche me. Anche io sono stato vittima della tua convinzione, come i nostri genitori. Io, a dire il vero, con la minima volontà e la perdita minore. Ma tuo padre e tua madre sono tue vittime dirette».

«Ciascuno decide per sé. Se fossi stato legato a degli scrupoli, non avrei fatto nulla, mi sarei sottomesso. La mia libertà di scelta sarebbe stata limitata. Il mio dovere era di sparire nel momento in cui la mia esistenza sarebbe diventata pericolosa per il partito, dovevo andarmene».

«Hai spinto gli altri alla morte. Ne avevi il diritto?».

«Posso solo che dispiacermi di questo. Ma è stato un incidente per loro, come se li avesse colpiti un fulmine o bruciati un incendio».

«Tu hai appiccato l’incendio, tu hai attirato il fulmine. Non hai pensato a loro, ma avresti dovuto, dovevi pensarci».

«Ho pensato a ciò che era più forte di me. Più importante di me. Più importante dell’individuo».

«Un’idea vale tante vittime?».

«L’idea, se richiede un cambiamento, richiede anche la lotta. E la lotta chiede vittime».

«Quale lotta vale tante vittime?».

«Quella con la quale sono concordi il nostro intelletto e il cuore».

«Perfino a prezzo dei nostri cari?».

«Avrei potuto salvarli soltanto se non fossi stato ciò che ero. E non ne sarei mai stato capace. Erano destinati insieme a me. E tu con loro. Perché abbiamo detto no alla violenza disumana, perché volevamo un mondo più giusto».

«Non era la loro volontà, hanno acconsentito al tuo fianco».

«Ero il portatore di un’idea, non un figlio».

«Per loro eri solo un figlio. Hai approfittato del loro amore. Li hai sacrificati senza necessità».

«L’amore è piacevole, ma può diventare anche un ostacolo, soprattutto in tempi non propensi all’amore. Al rivoluzionario è concesso accogliere l’amore soltanto se è pronto a sacrificarlo. Se desidera averne cura ad ogni costo, smetterà di essere un rivoluzionario».

(….)

Poi ancora su suo padre, ridendo: suo padre era ritornato in segheria, ci aveva passato tutta la vita, era l’operaio più vecchio e il più intraprendente, credeva che fosse passato il tempo della fame e della grave povertà operaia, era stato scelto come presidente del consiglio operaio, convinto che gli operai fossero diventati i padroni del proprio lavoro, non usciva dalla fabbrica, si immischiava in tutto, di più che nella propria casa, esortava impietosamente gli operai a lavorare, se avevano sfacchinato per i capitalisti, potevano farlo anche per se stessi, passava in fabbrica anche il secondo turno, spiegava agli operai che la paga era bassa perché la produttività era bassa, in realtà non si trattava più di paghe ma di introito (mentre quelli dicevano che faceva lo stesso se era un introito o una paga, non si riusciva a vivere né con l’uno né con l’altra), anche lui vedeva che non si riusciva a vivere, così andò dal direttore, quel mio padre matto. Com’è, disse, compagno direttore, che gli operai sfacchinano come bestie, abbiamo anche lavoro, e l’introito è così basso. Il direttore gli spiegò la struttura degli affari finanziari, le paghe individuali, le spese e i consumi di produzione, il fondo di spesa generale, il fondo d’investimento, ma lui lo interruppe e chiese che gli spiegasse punto per punto, finché non arrivarono ai “contributi”. C’erano diversi contributi alla comunità, al comune, alla repubblica, alla federazione, in forma di tassa e di imposta, che servivano per finanziare le amministrazioni, gli eserciti, la scuola, la sanità, le necessità comunali, uno stato moderno è un’istituzione complessa. “Fratello, si prendono molto” aveva detto suo padre. “Non potrebbero limitarsi finché i lavoratori saranno sfamati? Che diminuiscano l’amministrazione, ci sono molti direttori e impiegati, che diminuiscano l’esercito, chi ci attaccherà e da chi dovremo difenderci”. E questo mio balordo padre dal direttore andò al presidente dell’Unione socialista, dall’Unione dei combattenti al segretario dell’organizzazione di partito, dal segretario del Comitato locale di partito al presidente del comune, con le stesse domande per tutti. All’inizio gli hanno spiegato, poi hanno cominciato a stupirsi, poi a borbottare, poi ad arrabbiarsi, poi a minacciare. Ma lui rispondeva: noi siamo i padroni del nostro lavoro, soltanto i lavoratori possono dividere i guadagni, lo dice il compagno Tito ed è scritto anche nella risoluzione del partito, e chi ce l’ha chiesto finora e perché? Gli hanno consigliato di calmarsi, hanno detto che portava inquietudine tra i lavoratori, hanno cercato di spiegargli ciò che non poteva in nessun modo accettare, allora l’hanno escluso dal partito e l’hanno destituito dalla funzione di presidente del consiglio dei lavoratori. “Nemici! Reazione!” dice il mio cocciuto Jernej1 “il servo” e ora si prepara a scrivere una lettera al compagno Tito, per metterlo in guardia su quel che stanno facendo ai suoi lavoratori.

 

1Jernej “il servo” è il protagonista del racconto “Hlapec Jernej in njegova pravica” ("Il servo Jernej e il suo diritto") di Ivan Cankar, e raffigura la lotta del contadino che rivendica i propri diritti contro la società borghese ingiusta.

 

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