Il Caucaso e l’ostinazione dell’ingerenza
Massimo Bonfatti, presidente dell’associazione "Mondo in Cammino", è appena rientrato da una missione nel Caucaso del Nord. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una sua riflessione
Le diverse missioni, susseguitesi negli ultimi anni, in Ossezia del Nord, Inguscezia e Cecenia, mi hanno messo di fronte ad una realtà difficile da interpretare ed a cui si affiancano problemi logistici che, volutamente o conseguenti alla effettiva complessità presente, pongono barriere subentranti al fine di ostacolare quelle forme di cooperazione o di interventi umanitari in cui la presenza straniera osi porsi in condizioni di reciprocità o di coerenza progettuale.
In ciò sta l’alfa e l’omega del nostro agire come volontari in quelle zone: la negazione e, in contrapposizione, l’affermazione delle nostre motivazioni e dei nostri principi passano attraverso queste difficoltà, per essere, a seconda dei punti di vista, affossate o legittimate.
Il risultato di 10 missioni negli ultimi 4 anni condensa 100 giorni di presenza nel Caucaso del Nord: numero a tre cifre che, nel tempo, mi conferma sempre più la convinzione di non essere assolutamente un esperto, ma solo all’inizio. La percezione di una confidenza che si accompagna a posti e volti ormai noti, alla rassegnazione quotidiana dei posti di blocco, allo sfondo di un paesaggio incorniciato da armi, blindati e soldati in assetto da guerra, ebbene!, questa percezione si coniuga con una sempre maggiore consapevolezza della complessità degli strumenti di valutazione e comprensione e ad una maggiore umiltà. Una umiltà che rifugge dai proclami e dai giudizi/pregiudizi di chi, a distanza (o per autoreferenzialità o per opportunità/opportunismo di vario genere), "solonizza" su una realtà con cui, di fatto, non si è mai concretamente confrontato. Le "urla" europee non si sentono per la strade di Vladikavkaz, Nazran e Grozny: la popolazione non può sentirle distolta volutamente da esse o impegnata in una difficile gara per la sopravvivenza o impegnata (affidando all’intuito o al fato) la possibilità di non trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto.
E chi detiene il potere in Caucaso lo sa bene. Sa bene di poter contare su questa disaggregazione: fra i pochi che ci vanno ed i tanti che vociferano a distanza.
La nostra esperienza (con tutti i suoi limiti) ci ha fatto capire (e lo abbiamo percepito proprio sulla nostra pelle) che la semplice presenza un po’ curiosa è molto meno tollerata delle forti denunce "in differita".
Non vorrei essere frainteso. Le mie affermazioni contengono quella giusta vena polemica rivolta a coloro che giudicano velleitario il nostro impegno e a coloro che ritengono che non possa albergare "spessore culturale" nei semplici volontari.
Detto questo, ho pieno rispetto di chi si impegna a denunciare con passione, impegno e disinteresse le anomalie e le ingiustizie del "sistema Caucaso".
È, semplicemente, l’amara constatazione della difficoltà di unire gli sforzi di tutti, di integrare le diverse modalità in sinergie maggiormente impattanti, di far interagire le denuncie con l’operosità: insomma lo sforzo di ridurre il gap fra parole e fatti.
La forte campagna di denuncia dei soprusi contro i diritti umani non può non prendersi cura delle persone, vittime di quegli stessi soprusi o bussolotti designati ad essere estratti nella lotteria Caucaso e ricompensati con la tortura o una pallottola in testa.
Ricordarsi di Grozny (una capitale per tutte) vuol dire prendersi cura della sua gente e delle contraddizioni di un popolo che sta rifiatando e che antepone ai soprusi e alla corruzione la voglia di una passeggiata in centro senza l’incubo delle bombe.
Nel Caucaso si vive il tutto ed il contrario del tutto. La sedimentazione dei subentranti conflitti ha alternato personaggi amici/nemici, ha confuso le carte (per poi distribuirle, in ogni caso, sempre secondo il volere di Mosca), ha obbligato ed obbliga a servirsi, in maniera doverosamente forzata, delle istituzioni presenti. Non esiste società civile senza istituzioni: che si chiamino Putin, Kadyrov, Yerkurov, Medvedev, Patiev, Mansurov, Berlusconi o Prodi. Con esse bisogna rapportarsi: per ottenere un prestito, un passaporto per l’estero, l’iscrizione dei propri figli a scuola, per pagare le tasse e, nello stesso tempo, per denunciare le persone scomparse, per chiedere la restituzione del corpo del proprio figlio ucciso come terrorista, per denunciare ora l’FSB ora i kadyrovisti. Come in tutte le realtà ci sono funzionari buoni e funzionari cattivi: entrambi con il peso del ricatto o del culto della personalità (Kadyrov) o di una rassegnazione che sa e che non può competere con il potere imposto da Mosca. Un’istituzione verso cui ci si "deve" rapportare, riconoscendone l’intrinseco valore "democratico", il più delle volte, però, svilito da uno stato non democratico.
Ennesima contraddizione nelle contraddizioni caucasiche.
Molte volte le piccole cose aiutano ad interpretare la realtà. A Grozny la via principale invita a passeggiare, coinvolgendo in un atmosfera che nulla ha da invidiare ad altre capitali europee. La ricostruzione l’ha resa esternamente bella e ad essa si sono adeguate le ragazze cecene, belle e gentilmente intriganti. Se c’è il sole è un’esplosione di voglia di vita e di colori. Nulla può turbare queste sensazioni, nemmeno gli echi di spari o di attentati sporadici alcuni isolati più in là. Non è cinismo, ma semplicemente voglia di normalità…ed è quel dannato fatalismo sopravissuto alle bombe, alla pulizia etnica e che affida ad Allah, con un profondo senso religioso, il destino della propria vita. Sopravvivere è accettare la nuova situazione politica senza dimenticare, dissimulando il proprio malessere in una speranza di vita migliore, in un futuro di ripresa sociale, economica e civile per i propri figli. Ma sopravvivere è soprattutto guardare e leggere le scritte che ad ogni isolato intitolano la via, ovvero "Corso Putin", e pronunciare, come era precedentemente, "Corso della Vittoria". Vale più di mille discorsi e di mille parole: perché non ci siano dubbi!
Una realtà così complessa potrebbe indurre a fuggire per paura di sbagliare, per paura di "sporcarsi le mani", per paura di essere stritolati da logiche di più ampia portata.
Ma anche noi, come i ceceni sulla via principale, abbiamo deciso di leggere la realtà come è e di interpretarla come dovrebbe essere. Ed abbiamo deciso di dare un nome, un senso, un significato a questo nostro modo di agire: L’OSTINAZIONE DELLA INGERENZA.
La sola presenza in Caucaso è un’ingerenza per un potere che non vorrebbe stranieri fra i piedi. Cercheremo di giocare questa ingerenza a tutti i livelli: cooperazione, economia, cultura, sport, ecc.
Cercheremo di portare laggiù delle opportunità, che il più delle volte probabilmente verranno frustrate, ma che reclameranno la nostra presenza, la necessità di discutere su opzioni etiche e democratiche e di creare pian piano una cassa di risonanza che sappia unire gli echi interni agli echi esterni.
Un’ingerenza civile, umanitaria, sociale che ci permetta di lavorare assieme alle persone, perché è l’isolamento l’unica porta che può chiudere la "casa Caucaso". Cercheremo di impedirne la chiusura. Bastano progetti di piccola/media portata, ma ciò che conta soprattutto è la perseveranza. E con la stessa ostinazione che dovrebbe contraddistinguere il nostro agire, mi ostino a dire che la solo presenza in loco è già un progetto vincente.
Dopo l’uccisione della nostra collaboratrice Zarema Sadulaeva, direttrice dell’associazione "Salviamo la generazione" di Grozny, abbiamo dato vita, con la limitatezza delle nostre forze e risorse, ad una campagna di sensibilizzazione e sostegno della nostra associazione partner cecena. Dopo il barbaro omicidio di Zarema la porta dell’associazione è rimasta chiusa alle giovani vittime di mina, ai ragazzi portatori di stress psicologici in seguito ai conflitti, agli orfani di "desaparecidos", per tre mesi. È stata riaperta nel corso della nostra ultima missione, appositamente per noi. I pochi volontari rimasti hanno ricevuto, dalla nostra presenza e dalla certezza di non essere dimenticati, lo stimolo per ricominciare la loro attività, seppur a piccoli passi. Non ci possiamo permettere il lusso di abbandonarli e di non andarli più a trovare, sapendo che la presenza è un segno tangibile di interessamento, condivisione, sostegno.
Mi ricordo tanti anni fa quello che mi disse in Bielorussia una madre che viveva con il proprio figlio in una delle zone maggiormente colpite dal fall out radioattivo dell’incidente nucleare di Chernobyl: "Uccide più l’oblio che la contaminazione". Rapportata al Caucaso la frase diventa: "Ne uccide più l’oblio che la politica di Mosca".
A Nazran, in Inguscezia, c’è il "Memorial della deportazione": un museo simboleggiato da torri unite da filo spinato, per ricordare le varie deportazioni ingusce.
Ad Oktjabrisky, nel distretto osseto del Prigorodni, c’è il Memoriale del conflitto del 1992 fra osseti ed ingusci, per ricordare le vittime ossete.
Il ricordo delle vittime, ora dell’una e ora dell’altra parte, sono l’unica merce di scambio nel mercato delle ideologie e delle rivendicative e reciproche accuse, unite dal collante etnico e religioso della propria appartenenza e sotto la regia attenta di Mosca.
Nel Prigorodni, zona contesa fra Ossezia del Nord ed Inguscezia, dove le sparizioni sono all’ordine del giorno, si impone il dovere di ingerenza. Oltre alla costruzione della "Fabbrica della pace", che non ha solo la scopo di essere un laboratorio di azioni concrete per le due etnie, ma che rende "istituzione" la pace, si sta ipotizzando, con l’aiuto della Camera di Commercio di Vercelli di porre le basi per un’economia di pace e di giustizia, tramite piccoli investimenti, attraverso la politica dei microcrediti e la formazione professionale.
Con Beslan e con Grozny si stanno attivando protocolli di gemellaggio che, pur nella loro complessità, rappresentano forme di dialogo ed impongono confronti normativi che non possono basarsi su accordi compromissori o velatamente corruttivi e corruttori.
In definitiva tutta una serie di interventi di ingerenza.
Molto dipenderà dalla realtà caucasica e dalla capacità di saper interpretare, anche con creatività, le diverse sfide che si presenteranno.
Ma molto dipenderà anche dalle sinergie e dalla collaborazione che sapremo realizzare con il variegato movimento che si occupa ed interessa del Caucaso, sapendo che l’eco europeo delle denunce dei soprusi potrà superare ad est i confini dello spazio post sovietico ed arricchirsi, nel contempo, di una legittimazione di ritorno, coerente con una realtà caucasica in evoluzione e con le aspettative di una popolazione che vuole passare gradatamente dalla sopravvivenza alla vita….nella misura in cui essa verrà garantita sia come diritto inalienabile e sia come opportunità concreta per una vita che progetta il futuro a partenza dalle possibilità reali, economiche e sociali.
Nel mio archivio posseggo le immagini terrificanti della strage nella ex scuola N° 1 di Beslan, scattate la mattina del 4 settembre 2004 dal FSB. Ho visto la scuola quando era ancora visitabile, nei primi mesi del 2005: le macchie di sangue, gli schizzi neri di materia cerebrale, le migliaia di fori di pallottole, il passaggio nella palestra in cui si erano "adagiati" i resti carbonizzati dei bambini, le scritte ingiuriose dei parenti, gli squarci delle bombe sul tetto, la finestra da cui venivano buttati i cadaveri, i mozziconi di sigarette nervosamente fumate prima di diventare assassini o prima di essere assassinati, i servizi igienici in cui veniva raccolta l’urina nei vestiti fatti a brandelli e strizzati per concederle di colare nelle bocche arse degli ostaggi, il canestro della palestra con ancora i fili attorcigliati dei detonatori.
Ho incontrato diverse volte i parenti delle vittime, con ostinazione alla ricerca della verità.
Qualche "cretino" osa contrapporre fra loro le varie tragedie che hanno insanguinato ed insanguinano il Caucaso del Nord: Beslan, infatti, non è solo il nome di una tragedia nord osseta, ma anche il ricordo di tante piccole Beslan sparse nelle repubbliche vicine, a cominciare dalla Cecenia. Ma tutte gravi e, fatta salva l’analisi politica ad esse riconducibili, senza il diritto di giudizi di merito e di speculazione su una presunta maggiore legittimazione del dolore degli uni su quello degli altri.
Dopo la tragedia la mobilitazione internazionale è stata enorme e, nello stesso tempo, irragionevole. Abbiamo visto giacere abbandonate in uffici centinaia di tende da campeggio provenienti dalla Corea, regalo inutile ed inservibile. Forse sono state vendute o distribuite per ameni trekking nelle valli caucasiche.
I parenti delle vittime sono stufi di essere "testimonial" di manifestazioni che servono solo ad esaltare la retorica del ricordo o a giustificare, per pochi attimi, il rimorso di chi ha potuto solo essere spettatore della tragedia. I parenti vogliono essere supportati nello loro denunce, in qualcosa che va al di là della semplice celebrazione, ma che da essa trae gli strumenti per prese di posizioni coerenti e per una sensibilizzazione che dal cuore si sposti al cervello.
Ho incontrato, con l’amico Carlo, Ella Kesaeva di "La voce di Beslan". Per lei è tutto chiaro: la tragedia è stata voluta da Mosca. Sta raccogliendo più materiale possibile, è diventata esperta di bombe e tragitti dei proiettili; lei, da parente delle vittime e da amica di Anna Politkovskaya, ha capito solo una cosa: raccogliere prove, prove e prove e trasmetterle documentate al tribunale di Strasburgo. Siamo entrati in casa sua in maniera circospetta, perché sapevamo che aveva avuto l’amorevole "protezione" del FSB, tanto da dover trasferire l’ ufficio dell’associazione (presidiato per la sua incolumità!?) nella propria abitazione.
Anche questa è stata un’INGERENZA di piccoli volontari che hanno voluto testimoniare la propria vicinanza, trasferendo, direttamente in loco, quell’ovattato vociare delle piazze europee. E nell’eventuale ingerenza del possibile gemellaggio con Beslan, se non sarà presente Ella fisicamente e giuridicamente, saranno sicuramente presenti i suoi insegnamenti.
L’ostinazione dell’ingerenza rappresenta, inoltre, un investimento ideale per il futuro. La storia insegna che, prima o poi e per le cause più diverse, i conflitti cessano o almeno hanno degli intervalli liberi dal fragore delle armi. Se, per esempio, al cessare delle ostilità nel Prigorodni (anche solo per imposto ordinamento giuridico/legislativo, come stanno tentando adesso di fare le autorità dell’Ossezia del Nord e dell’Inguscezia), non saranno presenti delle possibilità o degli esempi "diversi" di modalità di convivenza o di semplice sviluppo per questa area (fra le più depresse di tutta la federazione Russa), sicuramente prevarranno di nuovo i vecchi stereotipi e il predominio della "memoria del passato" a giustificazione delle proprie ragioni e pretese territoriali, e sicuramente l’ipotesi di un nuovo conflitto (spada di Damocle di tutta la realtà caucasica) da probabilità diventerà certezza.
La nostra ingerenza si gioca tutta sul fattore di probabilità nel tentativo di scongiurare (in un gioco di parole che da dialettico diventa etico) una ulteriore "probabilità" di degenerazione.
Non abbiamo certezze sui risultati del nostro operato: le variabili in gioco sono molte, anche analizzandole in maniera ponderata e con prospettiva progettuale; anche portando al massimo livello le strategie di "confidence building" fra le persone comuni, fra i funzionari ed i rappresentanti istituzionali e politici: in una parola in tutte le pieghe della società civile del Caucaso europeo.
L’unica certezza è che, nonostante tutto, bisogna esserci coniugando fra loro intelligenza, sacrificio, analisi, passione, cuore, tenacia, aggregazione altrui, pazienza, arrabbiature, pugni sul tavolo, diplomazia: il tutto tenuto assieme da un rigore che ha i suoi fondamenti nel rispetto della legalità e dei diritti inalienabili di ogni essere umano e nella pratica della non violenza. Ed in più con un ottimismo che sappia superare i tanti momenti bui (in cui verrebbe voglia di buttare tutto all’aria) e che, a distanza, elevi, ad investimento per il futuro, il tempo che inesorabilmente trascorre e che, all’apparenza, non ricompensa di risultati tangibili.
L’ostinazione dell’ingerenza rifugge dalla cultura, da alcuni ritenuta realistica, dell’agire immediatamente, senza nessuna altra considerazione. Intervenire subito, certamente vale nelle situazioni di emergenza oggettiva: ed esistono in Caucaso tali sacche di emergenza (vedi, per esempio, la situazione di alcuni campi profughi). Il progetto dell’ostinazione dell’ingerenza non si può attuare senza presupporre la costruzione di un avvenire.
Nelle modalità del nostro presente di intervento in Caucaso c’è l’idea del futuro.
Il futuro ha per noi un senso sociale.
Ilvo Diamanti, professore all’Università di Urbino e a Parigi II, afferma, analizzando la nostra società italiana: "Io sono figlio di un mondo in cui la parola futuro (declinata diversamente da cattolici, comunisti, illuministi) aveva un senso sociale. A guidarci erano le mappe, non il GPS".
Noi volontari siamo il popolo delle mappe. Le mappe presuppongono lo studio del territorio, la conoscenza del contesto. Il GPS ti guida lui: volta a destra, imbocca la strada a sinistra. Non ti invita a imparare, ma a rimanere come sei. Agisci senza sapere perché lo fai.
E questa è la situazione del Caucaso del Nord, dove i GPS di Mosca, di Putin, di Kadyrov ti indicano, all’unisono, un’unica strada.
Il nostro sforzo (e lo sforzo dell’ostinazione dell’ingerenza) va nella direzione di cercare di dare una maggiore dignità, in tutti i suoi settori, ad una società piegata ad una pianificazione politica esterna (il volere di Mosca dissimulato strategicamente e in maniera multiforme nelle pieghe del potere, del terrorismo, della democrazia preterintenzionale, della politica della tensione e della sfera di influenza territoriale, della gestione strumentale dei conflitti interetnici e religiosi).
Lo ripeto all’inverosimile: impresa ardua, ma non impossibile.
Ciò che fa più paura non sono le difficoltà, ma il senso di abbandono in cui potremo essere lasciati in questo nostro percorso.
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