Il caso Ljubiša Diković
È stato nominato Capo di Stato maggiore lo scorso dicembre, ma è già sotto pressione. Un dossier pubblicato da Nataša Kandić accusa Ljubiša Diković di non aver impedito crimini di guerra commessi durante le operazioni avvenute sotto il suo comando in Kosovo
In Serbia il cosiddetto “problema del Kosovo” trova spazio in quasi ogni discussione politica. Raramente, però, si parla del Kosovo nel contesto dei crimini di guerra commessi dall’esercito serbo (all’epoca Esercito jugoslavo “Vojska Jugoslavije” – VJ) nel 1998 e 1999, né tanto meno si fanno i nomi di colpevoli e imputati coinvolti “nell’intervento” attuato dal Comando Unito delle forze militari e della polizia.
Il 23 gennaio scorso il Centro per il diritto umanitario (Fond za humanitarno pravo – FHP) di Belgrado ha pubblicato il “Dossier Ljubiša Diković ”, dove si accusa il nuovo Capo di Stato Maggiore serbo di non aver impedito crimini di guerra commessi sotto il suo comando durante le guerre in Bosnia e in Kosovo.
Le accuse contro Diković
Il rapporto, firmato da Nataša Kandić, direttrice del FHP, sostiene che Diković non è degno della funzione che gli è stata conferita lo scorso 12 dicembre. Il FHP ha inoltre fatto appello alle istituzioni competenti perché tengano conto delle prove raccolte dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI) sui crimini di guerra commessi in aree che ricadevano sotto il comando di Diković. Il dossier sul generale trova le sue fonti nella sentenza contro Milutinović et al. (presso il TPI), nelle testimonianze delle vittime sopravvissute di Drenica, in Kosovo, rilasciate sia al Tribunale dell’Aja che al FHP, e nel database pubblico del TPI.
Nel 1999 Ljubiša Diković era colonnello dell’Esercito jugoslavo presso la 37a brigata motorizzata dell’Esercito jugoslavo del Corpo d’armata di Užice. Il rapporto descrive dettagliatamente i crimini commessi da un’unità speciale appartenente alla brigata sotto il comando di Slobodan Stošić e Miodrag Đorđević. La documentazione presentata, quindi, non parla di crimini commessi od ordinati direttamente dall’attuale Capo di Stato Maggiore, ma gli si attribuisce la responsabilità per non aver preso adeguate misure per evitarli.
Nel dossier si legge inoltre che dal maggio del 1998, quando la 37a brigata motorizzata iniziava a svolgere operazioni in Kosovo, passando per il 7 marzo del 1999, quando il suo stanziamento in Kosovo diventò definitivo, e fino all’arrivo delle forze internazionali nel giugno dello stesso anno, sotto il comando di Ljubiša Diković sono stati commessi omicidi di massa. “Le forze dell’esercito serbo e della polizia hanno commesso crimini contro la popolazione civile albanese nei comuni di Drenica, Glogovac e Srbica, uccidendo circa 200 persone”, si legge nel dossier.
Le reazioni al dossier
Il generale Diković ha respinto le accuse pubblicate nel dossier, sottolineando che si tratta di un attacco all’esercito. “Attacchi di questo tipo non fanno che acuire l’odio sul territorio dell’ex Jugoslavia”, ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore. “Sembra che qualcuno cerchi in ogni modo di non far guarire le ferite subite durante i conflitti passati, e che voglia anche approfittarsene”.
Diković ha già annunciato che presenterà una denuncia per calunnia contro il FHP su tutti i sette punti elencati nel dossier. Immediate anche le reazioni del ministro della Difesa, Dragan Šutanovac. Il ministro si è affrettato a dichiarare, all’indomani dell’uscita del dossier, che si trattava di “un falso, che accusa inadeguatamente, e in alcuni punti mostruosamente, il generale”. Inoltre Šutanovac ha sottolineato di avere fiducia nella “adeguata reazione delle istituzioni statali competenti". Infine il ministro ha fatto un appello a Diković perché difenda prima se stesso, ma poi anche l’esercito serbo.
Pronta la risposta di Nataša Kandić che, in una lettera rivolta direttamente al ministro Šutanovac, pubblicata sul portale web Pesčanik , rimanda al mittente le accuse di falsità relative al dossier, rispondendo nel dettaglio alle critiche del ministro e rivelando infine l’identità del testimone grazie al quale sono state raccolte numerose informazioni contenute nel dossier. Un ex ufficiale, già procuratore militare durante la guerra in Kosovo e testimone presso il Tribunale dell’Aja.
Per la Procura l’accusa è infondata
Secondo la Procura per i crimini di guerra, però, non c’è una base giuridica per accusare il generale Diković per i crimini denunciati nel dossier. Nella dichiarazione rilasciata dalla Procura si legge che questo organo giuridico ha già discusso una precedente denuncia dell’FHP, del 3 marzo 2009, contro sette persone sospettate dei crimini di guerra descritti nel dossier Ljubiša Diković, in cui il generale non era nominato. “Se ci fosse stato un dubbio sulla responsabilità per crimini di guerra del generale Diković, il Tribunale dell’Aja avrebbe già avviato un processo contro di lui”, aggiunge la nota.
Il fatto che una persona non sia stata incriminata dal Tribunale dell’Aja, però, non la assolve da eventuali responsabilità. Il TPI ha accusato un totale di 161 persone, tra cui alcuni capi di Stato, primi ministri, capi dell’Esercito, ministri dell’Interno ed altri alti ufficiali politici, militari o membri della polizia. Per colmare l’impunity gap è inevitabile che i tribunali locali debbano occuparsi di altri ufficiali di medio grado che non sono stati processati in sede internazionale e che avevano il comando degli esecutori diretti.
Gli unici generali dell’Esercito jugoslavo accusati dal Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra commessi in Kosovo sono i quattro del caso “Milutinović et al.”: Dragoljub Ojdanić, Nebojša Pavković, Vladimir Lazarević, Sreten Lukić. Tutti e quattro superiori a Diković sia in grado che in giurisdizione di comando.
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