Idomeni, frammenti di vita dal campo
Al confine tra Grecia e Macedonia più di diecimila rifugiati e migranti sperano ancora che il confine venga aperto. Le loro storie si intrecciano come in un caleidoscopio nel racconto del nostro inviato
12/04/2016, Francesco Martino - Idomeni
[…] “Buone notizie”, dice Ahmad. Siamo all’ingresso del tendone numero tre, da cui un flusso costante di persone continua ad entrare e ad uscire ininterrotto. Comincia ad imbrunire, un vento leggero, ma freddo e pungente soffia testardo sulla linea di confine. Nel tendone centinaia di donne, uomini e bambini si preparano alla notte: sui bassi letti a castello a due piani, di tela rigida, si dispiegano coperte grigie, tutte uguali. In molti le usano come tenda improvvisata, alla ricerca del lusso di un po’ di intimità. “Ho buone notizie, mio figlio, il mio primogenito, è ancora vivo”. Ahmad parla con calma, senza scomporsi. La sua è una gioia tormentata, che brilla solo a tratti negli occhi scuri. Non chiedo niente, aspetto che sia lui a parlare ancora. “Non lo vedo da venti mesi, da venti mesi è nelle mani dei servizi segreti di Bashar al-Assad. Ma ora so che è ancora vivo: ne ho avuto conferma da un amico di un amico, che ha influenza a Damasco”. Ancora una lunga pausa. Difficile fare domande. Aspetto ancora. “L’hanno catturato a pochi giorni dalla maturità e dal suo compleanno, il diciassettesimo. Qualcuno ha fatto il suo nome, l’ha accusato di far parte dell’Esercito Siriano Libero, anche se non si è mai occupato di politica. Poi è sparito, anzi è diventato un numero. E’ così che funziona: nessuno sa chi sei, nemmeno i tuoi compagni di cella”. Il racconto si interrompe: uno dei figli minori di Ahmad, che accompagna il padre nel viaggio verso l’Europa, si avvicina e parla brevemente col padre, poi sparisce di nuovo nel ventre caldo del tendone. “E’ ancora vivo. Per farmelo sapere c’è chi ha rischiato grosso, a Damasco. Venti mesi…ma è vivo, è ancora vivo”.
[…] Una città di tela e di fango, di umori e provvisorietà, di attesa, momenti di gioia e disperazione, di notti fatte di colpi di tosse e fuochi improvvisati, ma pur sempre una città. Diecimila, forse quindicimila persone, piccoli quartieri spesso organizzati intorno alla provenienza geografica o all’identità etnica, tempi scanditi da una quotidianietà fatta di lunghe file: per i bagni chimici, per la colazione, per il pranzo e per la cena, per le coperte, per le tende, per una visita medica. La vita, qui, somiglia alla superficie piatta e monotona di uno stagno. Sotto la facciata tediosa e grigia, però, ribolle un’energia potente, a tratti rabbiosa. Basta una parola, “Europa”, “confine”, “trafficante”, “Macedonia”, per risvegliarla. D’un tratto, allora, si formano capannelli di uomini, donne e bambini, alla ricerca di risposte. “Cosa fare? Come aprire il confine? Aspettare o agire? Rimanere uniti, o cercare ognuno la sua fortuna? Protestare o cercare i servizi dei trafficanti? Giocare il tutto per tutto ora, prima che si esauriscano le risorse, fisiche, mentali ed economiche, o sperare nella misericordia di chi decide chi passa e chi resta?” Poi, così come si erano formati, i capannelli si sciolgono e ognuno torna nella sua tenda, carico di dubbi e di pensieri. Nel frattempo, però, in attesa di risposte che non arrivano, la città fluida di Idomeni inventa il suo essere quotidiano ogni mattina. Sull’asfalto di una strada di campagna, trasformata nel corso principale – dove troupe televisive e volontari si mischiano all’umanità variegata del campo – spuntano cassette di frutta rovesciate, tramutate in bancarelle improvvisate. Sui banconi di plastica scura uova, olio di semi, carne in scatola, bombolette di gas da campo, passata di pomodoro, zucchero e scarpe. La merce più abbondante, però, sono le sigarette. Arrivano tutte dalla Macedonia, con tanto di etichetta del monopolio di stato, costano dai due euro e mezzo ai tre. Quando chiediamo a chi vende come le hanno avute, la risposta è sempre la stessa: “Me le ha portate un tizio, dalla Macedonia…” La barriera al confine non è quindi invalicabile. Almeno per le sigarette […]
[…] Mohammad afferra la busta di plastica bianca, e ne tira fuori tutti i suoi strumenti: rasoio elettrico, forbici, pettine, rasoio. Mentre mi siedo su uno sgabello improvvisato nel tendone numero quattro, li esamina con attenzione. Poi mi gira intorno al collo un asciugamano a mo’ di grembiule, e aziona il rasoio con studiata lentezza. In quell’attimo, assisto alla sua repentina trasformazione: da anonimo rifugiato del campo di Idomeni torna ad essere orgoglioso barbiere di Deir el-Zor, città sulle rive dell’Eufrate non lontano dal confine siriano-iracheno, in gran parte occupata dalle milizie del sedicente Stato Islamico ad inizio 2016. “Non riesco a immaginare una sfiga più fottuta”, esclama eccitato mentre le prime ciocche di capelli cadono sulle assi del pavimento. “Per l’ISIS è peccato mortale accorciare o modellare qualsiasi pelo, sia esso di capelli o di barba. Puoi immaginarti che razza d’allegria fare il barbiere dalle mie parti, di questi tempi”. Da buon barbiere, Mohammad utilizza un linguaggio colorito e iperbolico: nemmeno il filtro della traduzione dall’arabo riesce ad attutire il potenziale dissacrante e pirotecnico del suo vocabolario. Il ritratto della vita nel campo è tanto sintetico quanto efficace. “Cosa devo dirti, è proprio un bello schifo: si mangia male, si dorme peggio, e si passa il tempo ad aspettare, a giocare a carte e ad aspettare ancora”. Rifinita la sfumatura, Mohammad inserisce una nuova lama nel rasoio, poi passa la schiuma da barba sul collo e sulla parte alta degli zigomi. Prima di iniziare a lavorare di fino, con un gesto della mano scaccia per l’ennesima volta il nugolo di bambini che si si sono assiepati intorno a noi, incuriositi. “Insomma, non vedete che sto lavorando?” dice assorto, come un artista che si accinge a dare le ultime, definitive pennellate al suo capolavoro. Tra le labbra, però, gli pende un sorriso ironico e indecifrabile, pieno di voglia di vivere, il sorriso da gatto di un barbiere di Deir el-Zor.
[…] “Che ne dici, come finirà questa storia?” Il militare macedone è a due passi, ci divide solo la trama scura della rete, sormontata dal filo spinato. Chiacchieriamo da un po’: mi chiede cosa succede nel campo, cosa ne penso delle persone che incontro tra le tende e lungo i binari. Racconto dei dolori e delle speranze, delle impressioni, e chiedo a mia volta. All’improvviso arriva la voce di un ufficiale, che fa capolino dietro ad un blindato. “Attenti a quello che dite!”, urla da lontano, per poi sparire repentinamente come era comparso. Il militare, però, non sembra farci troppo caso, e continua a chiacchierare. “Quello che succede qui ha un solo nome: ipocrisia. L’Europa vuole i ricchi, quelli che si accalcano su questa rete, però, sono poveracci e allora li lascia a noi. Questa non è una questione che può risolvere la Macedonia. Ora ci hanno messo a pattugliare i confini d’Europa. E noi li pattugliamo, cos’altro dovremmo fare? Per noi però, da più di vent’anni, l’Europa non sta da questa parte del confine, ma dalla tua, da quella greca”. Gli chiedo se è vero quanto raccontano tutti nel campo, che chi tenta di passare il confine di notte, aggirando la barriera, viene maltrattato, picchiato, respinto nella notte. Alza le spalle. “I siriani sono gente civilizzata, ma non tutti sono così. Sono stato due volte in Afghanistan, in missione. Con gli afghani è diverso… per farti ascoltare, non c’è alternativa, devi usare le maniere forti…” […]
[…] “Cosa succede adesso, ci sparano?”. “Rischiate qualche manganellata in testa, ma non sparerà nessuno”. Samir, però, non sembra molto convinto. Ripete la stessa domanda più volte. Poi dopo aver ricevuto sempre la stessa opinione sembra tranquillizzarsi, e si siede sull’asfalto. “Allora resto qui a oltranza, fino a quando non apriranno la frontiera. Non ho più nessuno che mi aspetti in Siria, sono rimasto solo. Non ho nulla da perdere”. Di fronte, una sottile linea di poliziotti in tenuta antisommossa indossa il casco: per un momento la tensione sale, ma nessuno si muove. E’ già scesa la sera quando arriviamo all’autostrada E-75, a poche centinaia di metri da valico di Tsoriades/Bogorodica. Alcune decine di persone bloccano le due corsie da ore, come dimostra la una lunga colonna di TIR bloccati che si snoda in direzione sud. Sull’asfalto tende e coperte: i rifugiati, che vengono dal campo sorto nella vicina stazione di servizio dell’hotel “Hara”, promettono di continuare a oltranza, finché il confine non verrà aperto. La polizia non si muove, anche se sgomberare l’autostrada sarebbe tutt’altro che difficile. Gli unici che perdono la pazienza sono i camionisti – per la maggior parte macedoni – che attendono di poter continuare il loro viaggio. “Ci vorrebbe Putin, lui si che saprebbe come sistemare questa marmaglia!”, ruggisce uno, quando vede tra i reporter gli inviati di un canale tv russo. A un tratto, però, il comandante delle forze dell’ordine raduna gli autisti, poi i TIR in coda iniziano a fare manovra, e spariscono uno dietro l’altro: evidentemente è stato trovato un percorso alternativo per raggiungere il valico. Un moto di delusione scuote il gruppo che presidia la E-75. A piccoli gruppi, donne e bambini tornano “a casa”, sull’asfalto resta soltanto un manipolo di uomini e ragazzi. E’ notte fonda ormai, la guerra di nervi si trascina ancora un po’, poi anche i più caparbi raccolgono le coperte e si incamminano sulla corsia vuota, buia e silenziosa che porta all’hotel “Hara”. L’ultimo ad alzarsi, smarrito e forse incredulo, è Samir. “Torneremo domani, torneremo. E stavolta non andremo via. Bloccheremo l’autostrada finché non ci sentiranno, finché non ci apriranno le porte”.
[…] Cippi di confine numero 58 e 59. I due blocchi di cemento spuntano silenziosi ai lati della linea ferroviaria, mutilata da un pesante cancello d’acciaio, addobbato da lunghi rotoli aguzzi di filo spinato che brillano al sole. Dall’altra parte, come addormentato, un grosso blindato scuro dell’esercito macedone. A destra e a sinistra, fin dove si perde l’orizzonte la lunga rete innalzata di tutta fretta sul confine tra Grecia e Macedonia. Qualche decina di metri più in là, da un profondo affossamento del terreno trasformato dalla pioggia in un pantano pieno d’acqua e d’immondizia, il gracchiare sincopato di decine di rane, intente nella loro serenata monotona alla primavera. Dalla parte greca, il binario è recintato per alcune centinaia di metri, da entrambi i lati altre reti e filo spinato, da cui pende ad asciugare la biancheria stesa al sole di chi oggi abita le centinaia di tende spiegate su quelli che, fino a ieri, erano campi coltivati a mais, girasole e grano. Dalla parte macedone, i lunghi filari spogli di una vigna e, in lontananza, quasi un miraggio, i tetti rossi della città di Gevgelija. Difficile immaginare un paesaggio più dimesso, meno pretenzioso. Eppure per uno scherzo del destino i due cippi muti, il 58 e il 59, sono oggi il simbolo di qualcosa di grande e doloroso: sono i cardini della porta – sbarrata – del sogno chiamato Europa […]
[…] La vita nel campo logora in fretta. Facciamo una passeggiata oltre il campo, oltre il villaggio di Idomeni, lungo una strada sterrata che costeggia il confine, segnato dalla rete onnipresente e dai meli in fiore. Il tracciato entra in un boschetto, poi s’inerpica sui fianchi morbidi di una collina. In cima una vecchia postazione militare, con tanto di bandiera greca al vento. Intorno sul prato punteggiato di bocche di leone, alcuni ragazzi riposano al primo sole caldo d’aprile. “Per noi afghani è meglio tenersi alla larga del campo. Coi siriani non ci sopportiamo, l’altro giorno c’è stata una rissa. Noi eravamo in pochi, loro in tanti, ma ci siamo difesi. Siamo afghani, noi! Non mi piacciono i siriani, si lamentano tanto, fanno le vittime, ma hanno la guerra in casa solo da quattro anni. Quattro anni! Dalle nostre parti, la pace non la ricorda nessuno, nemmeno i vecchi”. Firuz è tagiko, nato tra le cime orgogliose e altere del Panshir. Mentre parla, magnifica il suo paese e – allo stesso tempo – ne elenca le innumerevoli miserie. “L’inglese l’ho imparato da solo, in strada, ascoltando e parlando coi soldati americani. Poi ho lavorato come interprete e, proprio per questo, oggi non posso restare in Afghanistan, coi talebani in cerca di vendetta”. Firuz accende un’altra sigaretta, poi fa girare il pacchetto. “Riproviamo stanotte, oppure domani. Tante volte abbiamo già provato, ma ci hanno sempre preso. Forse hanno sensori notturni, non so. Dai macedoni delle volte prendi botte, altre no. Poi ti portano indietro in camionetta, ti scaricano di fronte alla rete, la sollevano e ti obbligano a strisciare indietro”. La brace quasi tocca il filtro della sigaretta, Firuz fa un’ultima boccata, poi spegne meticolosamente il mozzicone in una scatola d’alluminio. “Avevo un lavoro. Sarei rimasto in Afghanistan, a cosa mi serve l’Europa? Ma non potevo restare e ora ho speso cinquemila euro per arrivare fin qui. Come potrei tornare indietro? No, riproveremo stanotte, oppure l’altra ancora…”
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