“Fuori dagli schemi”, il teatro sociale a Belgrado
Il teatro come strumento di inclusione sociale. E’ questo il tema sul quale ha lavorato quest’anno il festival "Fuori dagli schemi" di Belgrado. Affrontando la tensione tra il promuovere l’integrazione dei gruppi marginali e il rischio che la loro ‘rappresentazione’ possa invece rafforzare lo stigma
Van okvira, fuori dagli schemi. Si chiama così il festival regionale del teatro sociale che si è svolto in questi giorni a Belgrado. È un nome che si presta a un curioso bisticcio linguistico, che è ricorso spesso nei discorsi di contorno suscitando più di qualche risolino. “Nell’ambito del festival Van okvira” si dice infatti “u okviru festivala Van okvira”, che è una specie di contraddizione in termini, traducibile come “nella cornice del festival Fuori dalla cornice”.
È un bisticcio rivelatore, perché mette in luce la tensione fondamentale sottesa al teatro sociale: quella tra la volontà di promuovere l’integrazione dei gruppi marginali della società e il rischio che la loro ‘rappresentazione’ possa invece contribuire a rinsaldare i margini e rafforzare lo stigma. Una questione che le persone coinvolte nel festival hanno avuto la saggezza e il coraggio di affrontare apertamente.
Persone con invalidità, non-vedenti e ipovedenti, sordomuti, utenti di servizi psichiatrici, veterani delle guerre jugoslave, minoranze etniche (tra cui i rom), individui LGBT, anziani, lavoratrici sessuali, donne vittime di violenza. Sono queste le categorie di persone con cui gli organizzatori e le organizzatrici del festival Van okvira di quest’anno hanno provato a elaborare il tema del teatro come strumento e campo di inclusione sociale.
L’incontro tra arte e marginalità ha preso varie forme. Ovviamente quella teatrale, con spettacoli che hanno visto la partecipazione di persone appartenenti ai suddetti gruppi emarginati. Ma anche quella didattica e informativa, con lezioni e presentazioni tenute da esperti sia locali che internazionali. E infine quella esplorativa, con un ciclo di incontri partecipativi sulle forme attuali e possibili dell’arte socialmente impegnata nella regione post-jugoslava.
“La sensualità delle vite disperate”
Gli spettacoli messi in scena nell’ambito di Van okvira sono soprattutto produzioni indipendenti, nate dalla collaborazione tra professionisti del teatro e le associazioni e i movimenti che rappresentano gruppi soggetti ad esclusione sociale.
Lo spettacolo Cabaret dietro lo specchio (Kabare "Iza ogledala"), ad esempio, ha come protagoniste delle lavoratrici sessuali transgender di Belgrado, e si propone di descrivere senza eufemismi le norme sociali, ma anche politiche e legali, che determinano la loro esistenza e ne influenzano il benessere. SS e più in alto ancora (SS and above) rappresenta invece le sfide con cui le persone con invalidità si confrontano ogni giorno, a partire dalla difficoltà di entrare in una relazione alla pari con le persone cosiddette ‘normali’. I due personaggi, un uomo e una donna, si muovono a fatica sotto lo sguardo clinico di un osservatore esterno e invisibile, come due cavie da laboratorio. Prendono gradualmente confidenza con il proprio corpo, e poi con il corpo altrui, ma l’agognato incontro finale, invece che essere liberatorio, genera ancora più sofferenza e frustrazione.
Lo spettacolo Maschioni (Muškarčine), vero successo di pubblico, vede otto ragazzi poco meno che ventenni prendersi gioco delle definizioni di ‘maschio vero’ dominanti nella società serba. La trasgressione è rappresentata come un continuo entrare e uscire da degli scatoloni di cartone, i gender box.
Alla leggerezza e al tono canzonatorio di Maschioni fa da contrappunto la forte inquietudine che suscita la rappresentazione Spettacolo (che non s’intitola fighe con le palle girate) [Predstava (koja se ne zove "pičke u kurcu")]. Due ragazze sedute a un tavolo leggono composte un testo femminista. All’improvviso una delle due ribalta il tavolo, e la situazione degenera in una spirale di sfoghi emotivi, oscenità corporee e momenti disturbanti. Ciò che lo sguardo conformista tende a congedare come ‘scenata isterica’ qui diventa confronto ineludibile con la natura problematica della posizione della donna nella società attuale. E quando alla fine dello spettacolo si spengono le luci, le cose non sono più come prima.
Il teatro sociale è, per propria natura e vocazione, un teatro ‘senza censura’, proprio perché ambisce a rendere visibili e mettere in discussione proprio le forme di censura e discriminazione cui sono soggetti tutti coloro che si discostano dalla ‘tirannia della normalità’. Tuttavia, portare in scena la marginalità e la ‘stranezza’ (ovvero ciò che non aderisce alle convenzioni) porta con sé un pericolo. Quello che la rappresentazione diventi attrazione (da parata o da circo), e che all’intento pedagogico e politico si sostituisca la curiosità morbosa del pubblico. Ed è forse proprio qui che entra in gioco l’arte, chiamata a mediare tra la volontà di esprimere un messaggio e il rischio che la visibilità si riduca a voyeurismo.
Marko Pejović, uno degli ideatori di Van okvira, mi invita a considerare anche un altro aspetto: “Sono successe cose che non ci aspettavamo. Ad esempio una lavoratrice sessuale transgender, protagonista del primo spettacolo in scaletta, era presente tra il pubblico degli spettacoli dei giorni seguenti. Questo significa che qui si è sentita al sicuro, al riparo dalle discriminazioni”. Come a dire che l’inclusione avviene anche, e forse soprattutto, fuori dai riflettori.
Il teatro sociale nel contesto post-jugoslavo
Chiedo a Marko quale sia per lui il senso di fare teatro sociale. In particolare, lo invito a riflettere proprio sul rischio che la rappresentazione della marginalità possa avere effetti controproducenti, in un contesto segnato da forti discriminazioni come quello post-jugoslavo. La sua risposta è lucida e misurata: “La società si evolve per gradi. Il primo passo è l’identificazione del problema, ovvero la consapevolezza dell’esclusione sociale e della privazione di diritti. Noi ci troviamo ancora in questa fase. In questo senso, il festival ha come proposito quello di offrire ai gruppi emarginati uno spazio per esprimersi artisticamente. Nel passato siamo riusciti a dimostrare che anche una persona paraplegica può fare danza contemporanea. È quello che questo festival fa anche oggi: rompe le barriere”.
Il progetto Van okvira coinvolge persone ed associazioni provenienti da vari paesi della regione, in particolare Croazia e Bosnia Erzegovina. Mi interessa sapere se ci siano energie sufficienti per stabilire una collaborazione efficace a livello regionale. O se invece la dimensione regionale del festival non sia soprattutto l’effetto delle politiche dei donatori, che spesso la impongono come requisito imprescindibile.
Marko precisa subito che la decisione di coinvolgere soggetti provenienti da altri paesi non è il risultato di una pressione esterna, ma scaturisce invece dalla volontà di raccogliere esperienze diverse. Ammette poi che nell’ambito del teatro sociale le reti di collaborazione non sono molto sviluppate. Ma aggiunge: “Non sono particolarmente interessato alle produzioni teatrali socialmente impegnate che si sono già ‘istituzionalizzate’ e che circolano per la regione. Trovo più interessanti le iniziative minori e indipendenti, le organizzazioni che raccontano cose nuove e fresche, e che anzi spesso non sanno neanche bene che cosa raccontano. È a loro che ci rivolgiamo”.
Come avviene il cambiamento?
Prima di congedarci, Marko mi spiega cosa lo ha portato ad occuparsi della promozione del teatro sociale. La sua passione è nata a seguito di due eventi: un’operazione agli occhi, che lo ha costretto a un periodo di cecità temporanea durante il quale si è accorto degli enormi ostacoli che segnano la vita delle persone non-vedenti. E un incontro con dei veterani delle guerre degli anni ‘90 (anche il fratello di Marko è un veterano) che hanno espresso il desiderio di esprimersi attraverso il teatro. Due momenti che per Marko hanno costituito una specie di illuminazione.
C’è un concetto, sviluppato dalla filosofa sociale Nomy Arpaly, che descrive bene l’esperienza di Marko: dawning (alba, epifania). Scrive Arpaly (2003): “L’epifania è forse il modo principale in cui le persone cambiano idea, specialmente riguardo ai temi che ritengono importanti. […] Sono poche le persone che abbandonano pregiudizi razzisti, per esempio, a seguito di un processo di deliberazione. È più frequente che l’irrazionalità dei loro pregiudizi appaia loro ‘come un’alba’ dopo aver trascorso abbastanza tempo con persone della razza in questione, ed essersi accorti, passo a passo, di assomigliarsi molto”.
Il senso del teatro sociale è forse soprattutto questo: creare occasioni di incontro tra persone che ‘normalmente’ conducono esistenze separate e spesso segregate. E favorire così il manifestarsi di qualche piccola alba.
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