‘Forza proporzionale’ contro il Primo maggio
Da anni i lavoratori turchi cercano di celebrare il Primo maggio in piazza Taksim. Come di regola le manifestazioni, inevitabilmente legate agli eventi del 1977, quando nella piazza persero la vita 36 persone, vengono osteggiate ed impedite con pesanti interventi delle forze dell’ordine
Il Primo maggio scorso, la città di Istanbul è stata nuovamente teatro di scontri e di una esasperata dimostrazione di violenza da parte delle forze dell’ordine a scapito non solo dei manifestanti e dei cortei sindacali, ma anche di persone che si trovavano casualmente a passare dal luogo delle manifestazioni.
Sembrava che la proposta del ministro del Lavoro e della Sicurezza sociale Faruk Çelik di riconoscere ufficialmente il 1° maggio come "Giornata del lavoro e della solidarietà", e di dichiararla giornata festiva, presentata al Consiglio dei ministri, potesse aprire, previa la sua approvazione, un nuovo capitolo nella storia di questa data, inevitabilmente legata agli eventi del 1° maggio 1977, quando durante le manifestazioni in piazza Taksim persero la vita 36 persone.
Dichiarata "Festa della primavera" nel 1935 e abolita nel 1980 in concomitanza del colpo di stato, il Primo maggio in Turchia è da sempre presagio, destinato poi inevitabilmente a divenire realtà, di repressione e di violenza.
Il 21 aprile scorso, invece, il Consiglio dei ministri ha preso la decisione di riconoscere ufficialmente la data come "Giornata del lavoro e della solidarietà" portando la Turchia – aveva dichiarato il vicepremier e portavoce del Governo Cemil Çiçek – "alla pari degli altri paesi del mondo, in cui il 1° maggio sottolinea il rispetto dovuto nei confronti del lavoro, fondamentale per la coesione dei lavoratori".
Ma il riconoscimento è rimasto ad un livello puramente formale, senza alcuna modifica reale dell’atteggiamento delle autorità nei confronti dei lavoratori: la giornata, infatti, non è stata dichiarata festiva e per i manifestanti è rimasta l’interdizione a riunirsi in Piazza Taksim. Çiçek ha spiegato che una nuova giornata non-lavorativa avrebbe causato una perdita di 2 miliardi di nuove lire turche (1 miliardo di euro circa) all’economia del paese.
Il braccio di ferro tra le autorità e le organizzazioni sindacali DİSK (Confederazione dei sindacati dei lavoratori rivoluzionari), KESK (Confederazione dei lavoratori del settore pubblico) e TÜRK-İŞ per poter svolgere le manifestazioni in Piazza Taksim è durato fino al 30 aprile, quando i presidenti delle confederazioni sindacali sono stati ricevuti dal Premier Tayip Erdoğan, senza ottenere il risultato sperato.
L’infelice espressione del premier turco – "Quando sono i piedi (la feccia, gli operai ndt) a diventare testa, arriva il finimondo" – rilasciata nei giorni scorsi, aveva suscitato la rabbia e l’indignazione dei sindacati, i quali avevano chiesto l’accettazione delle loro rivendicazioni in cambio delle scuse dovute ai lavoratori.
Contro l’iniziale fermezza dei sindacati di andare a tutti i costi a Taksim, organizzando un raduno che avrebbe previsto la presenza di almeno 500.000 partecipanti, si era già pronunciato anche il sindaco di Istanbul, Muammer Güler, nella conferenza stampa del 29 aprile: "Io sto festeggiando la giornata del lavoro e della solidarietà già da ora. Taksim non è un luogo sicuro per i festeggiamenti con una larga affluenza. Non è adatta né dal punto di vista del traffico e né da quello dello svolgimento del normale corso delle cose. Siamo pronti a concedere ai manifestanti le aree periferiche ndt di Çağlayan, Kazlıçeşme, Kadıköy e Kartal. E’ reato lanciare inviti per una manifestazione illegale. Perciò, coloro che hanno esteso questo invito sono stati denunciati alle autorità. In base a dei rapporti segreti in possesso delle forze dell’ordine sappiamo che alcune organizzazioni illegali e separatiste causeranno azioni provocatorie e attaccheranno le forze dell’ordine con mazze, pietre, ordigni esplosivi e se necessario con armi. La polizia contrasterà tali azioni con ‘forza proporzionale’. I cortei che verranno organizzati nei luoghi indicati dai sindacati sono illegali. Coloro che vorranno unirsi al corteo verranno allertati dal capo delle forze dell’ordine. E naturalmente, se costoro insisteranno nel rimanere sul posto, saranno fatti allontanare con ‘forza proporzionale’". (Radikal , 29 aprile 2008)
La "forza proporzionale" di cui parlava il sindaco si è scatenata all’alba del Primo maggio. Secondo la ricostruzione degli eventi, fatta dal quotidiano "Radikal" del 2 maggio, la polizia ha organizzato un assalto alla sede centrale della DİSK alle 06.30, prevenendo con botte e getti d’acqua a pressione il raduno dei lavoratori che era stato fissato attorno alle 09.30.
"Un’altra arma usata indiscriminatamente dalle forze dell’ordine", riporta il quotidiano, "sono state le bombe fumogene. A partire dal primo attacco alla sede della DİSK, dove si trovavano circa 1500 persone, la polizia ha iniziato a lanciare i fumogeni verso chiunque si trovasse a passare dal luogo. La polizia, incapace di calmarsi, inseguendo alcuni manifestanti che si erano rifugiati nel giardino dell’ospedale Şişli Etfal, non ha ritenuto necessario evitare di lanciare due bombe fumogene dirette al pronto soccorso e al reparto pediatrico dell’ospedale."
Le forze dell’ordine hanno avuto modo di provare anche una nuova arma adottata con lo scopo di "intervenire in occasione di eventi di massa" che getta un tipo di vernice indelebile in modo da segnare e identificare più facilmente i manifestanti.
Il presidente della DİSK, Süleyman Çelebi, alle 11.20 dichiarava di aver rinunciato ad andare a Taksim "perché la nostra vita è a rischio". "Siamo stati fatti oggetto di atti di terrorismo da parte dello Stato, come se Istanbul fosse stata assediata. Se volessimo, potremmo arrivare fino a Taksim, ma ci sarebbero troppe perdite. Per impedire che accada una catastrofe, per proteggere le persone e i commercianti, rinunciamo alla nostra richiesta", ha spiegato Çelebi. "Rinunciamo, ma non si tratta di accettare. Chiederemo il conto di quello che è accaduto." (Vatan, 2 maggio 2008)
Le immagini delle forze dell’ordine che compiono atti di violenza hanno fatto il giro dei telegiornali delle reti televisive turche e sono state messe sotto gli occhi di tutto il paese, ma tutto quello che ha fatto il Governo nei giorni seguenti è stato incolpare i manifestanti che si sono ostinati a marciare su Taksim.
Il premier Erdoğan, in un’intervista comparsa sul quotidiano "Radikal" del 3 maggio, ha detto: "Il fatto che a Istanbul si siano verificati degli eventi indesiderati è colpa delle richieste ostinate che sono state fatte. Se la manifestazione si fosse trasformata in un raduno di 35.000 persone in Piazza Taksim, il danno avrebbe potuto essere anche più esteso. Lo Stato ha fatto il suo dovere".
Il Premier, ha colto l’occasione per rivedere anche l’espressione offensiva riguardo alla ‘feccia’: "Quell’espressione è un nostro proverbio ed era riferito al fatto che si vuole diminuire la credibilità del governo. Non ho pronunciato la parola ‘classe’. Inoltre io stesso sono una persona proveniente dalle file operaie. Probabilmente molte delle persone che hanno criticato quella frase non lo sono."
In riferimento, invece, alle domande riguardanti l’uso spropositato utilizzato dalle forze dell’ordine, Erdoğan ha detto: "Taksim non è un luogo di cortei. Taksim è l’unica piazza importante di tutta Istanbul ad uso dei cittadini. Ed è per questo motivo che già da qualche decina di anni non vi si svolgono più manifestazioni".
Il ministro della Cultura Günay, in risposta alla stessa domanda ha detto che i membri del corpo di polizia sono figli di povera gente, lavoratori anch’essi. Il ministro degli Esteri Ali Babacan, in visita a Londra durante i fatti del 1° maggio, in risposta alle immagini che hanno fatto il giro di tutto il mondo in cui volavano i manganelli, si utilizzavano bombe lacrimogene a piacere, ha dichiarato che la situazione è stata affrontata con una sensibilità eccessiva.
Il presidente della DİSK ha annunciato il 5 maggio in una conferenza stampa che porteranno il caso al Tribunale dei Diritti Umani.
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