Tipologia: Notizia

Area: Balcani

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Essere o non essere: piccoli agricoltori nei Balcani

L’allargamento dell’UE ai Balcani apre nuove opportunità per gli agricoltori locali. L’adeguamento delle norme con quelle comunitarie in modo letterale, senza sfruttare i meccanismi di flessibilità, rischia però di rivelarsi fatale per i piccoli produttori. Slow Food Bulgaria e OBC ne hanno parlato in una conferenza sul tema organizzata a Sofia

12/11/2013, Tzvetina Borisova - Sofia

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Come in molte altre parti del mondo, anche nei Balcani negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio revival dell’interesse per il cibo tradizionale, locale e naturale.

Inoltre l’adesione all’UE di alcuni paesi della regione ha aperto nuove opportunità per gli agricoltori locali, dando loro modo di far conoscere ed esportare i propri prodotti verso altri mercati. Molti esperti del settore hanno però messo in guardia su alcune conseguenze negative che l’allargamento ha portato, come il declino o addirittura la possibile estinzione di alcuni prodotti tradizionali negli stati recentemente entrati a far parte dell’UE, come la Bulgaria e la Romania.

Per attirare l’attenzione su queste problematiche ed evitare che il fenomeno si allarghi ad altri paesi balcanici, Slow Food Bulgaria e Osservatorio Balcani e Caucaso hanno recentemente organizzato una conferenza a Sofia, che ha avuto per protagonisti i piccoli produttori agricoli dei Balcani.

Norme UE, rigorose ma anche flessibili

Petyo Ivanov ha un allevamento di capre nel villaggio di Razhevo in Bulgaria. Produce formaggio, ma non lo vende: "Ci sono una serie di documenti da produrre se vogliamo offrire i nostri prodotti nei negozi. E non è una cosa semplice in Bulgaria, specialmente nel settore alimentare, dove c’è tanta burocrazia. Arrivi a un punto in cui pensi: ‘Dove vado, in che vicolo cieco mi sono ficcato?’".

Secondo Ivanov, i requisiti di igiene sono troppo severi e hanno bisogno di enormi investimenti, che i piccoli agricoltori non possono permettersi. I grandi produttori, invece, possono facilmente soddisfare tali requisiti grazie ai capitali di cui dispongono. È a causa di questo squilibrio di posizioni che i piccoli agricoltori vengono spinti fuori dal mercato.

Desislava Dimitrova, console internazionale di Slow Food per il Sud-Est Europa e Balcani, è convinta che la rinuncia di Ivanov a trasformare la sua produzione in un business è quello che succede a tutti i piccoli agricoltori bulgari.

Il fatto è che i paesi dei Balcani tendono ad adeguare le proprie legislazioni con le norme comunitarie secondo un’interpretazione troppo letterale, non sfruttando i meccanismi esistenti in grado di offrire una certa flessibilità, anche in materia di igiene e di altri requisiti operativi.

"Come risultato dell’applicazione formale di regolamenti UE i piccoli produttori e le aziende familiari sono stati effettivamente privati della possibilità di vendere i loro prodotti, e noi consumatori del nostro diritto di scegliere tra i prodotti industriali delle catene internazionali e i cibi sani che tanto ci piacciono", sostiene la Dimitrova.

Optare per i secondi, comunque, non è così facile e spesso comporta una spesa maggiore.

Dove sono i piccoli agricoltori?

Trovare cibo sano e tradizionale è diventata una missione difficile nelle grandi città. Secondo Magardich Hulian, dell’ Associazione tradizione e imprenditorialità nell’agricoltura, i piccoli produttori si "nascondono nei villaggi, lungo le strade, nei vicoli intorno ai grandi mercati, ovunque dove possano rimanere inosservati". Hulian ritiene che uno dei motivi sia il rifiuto dello stato di riconoscerli come veri produttori e di fornire una chiara definizione del loro status e delle norme per le loro attività.

A ventiquattro anni dalla transizione democratica della Bulgaria, infatti, non esiste ancora una chiara definizione legislativa di piccolo agricoltore. Questa lacuna crea un ambiente poco chiaro e spesso complicato in cui operare.

La seconda ragione risiede nei produttori stessi: molti di loro preferiscono operare nell’economia sommersa, dove possono continuare a commerciare senza regole e senza assumersi alcuna responsabilità.

Secondo l’ ultimo censimento del settore, effettuato nel 2007, ci sono in Bulgaria 370mila produttori agricoli. Qualcosa come 340mila di loro sono piccoli per dimensione, con un volume medio di produzione annua di 8mila euro. E di questi il 70% ha un volume medio di produzione di meno di 2mila euro all’anno. Allo stesso tempo, il 93% dei lavoratori agricoli è composto dagli stessi proprietari o loro familiari.

"Si tratta di un modello agricolo distorto. Un gran numero di piccoli agricoltori che utilizzano una quota relativamente piccola (circa il 30%) delle terre coltivabili, mentre il resto sono gestite da cooperative, imprese e titolari di leasing", ha spiegato Hulian, che ha anche notato come questa mancanza di equilibrio colpisca inevitabilmente i consumatori: abbiamo assistito alle conseguenze negli anni passati, sotto forma di un sempre più difficile accesso ai cibi gustosi della tradizione bulgara, dalla frutta e verdura, ai latticini, alla carne.

Cosa si può fare?

Gli esperti ritengono che il modo per salvare i piccoli agricoltori e garantire l’accesso dei consumatori al cibo sano e tradizionale passi per una chiara identificazione e definizione normativa del loro status. Un altro aspetto importante consiste nell’elaborazione di una politica di sostegno e di una strategia a lungo termine in grado di garantire il progressivo rafforzamento del settore.

Ma soprattutto è necessaria una flessibilità nell’interpretazione e attuazione delle norme comunitarie. Molti paesi della regione stanno ancora combattendo per superare il loro passato comunista, che ha lasciato un’eredità di dipendenti pubblici con una mentalità spesso rigida, abituata ad attribuire un alto valore alle strategie industriali applicate all’agricoltura e agli alimentari.

Un maggiore spirito di iniziativa deve però venire anche dagli agricoltori stessi. Uno dei problemi che affliggono i Balcani, comune anche nel resto d’Europa, è che la maggior parte degli agricoltori è composta da pensionati. Mentre però l’Europa sta adottando misure per affrontare questo problema, fornendo incentivi per i più giovani che vogliono entrare nel settore, nessuna politica del genere è al momento attuata nella regione.

Infine, un altro problema ha a che fare con la mancanza di professionisti adeguatamente formati per lavorare in agricoltura. L’istruzione è un prerequisito obbligatorio per l’agricoltura moderna e tradizionale, e coloro che lavorano nel settore hanno bisogno di essere assumere competenze su vari aspetti della filiera, comprese le tecniche di commercializzazione dei prodotti.

Piccoli agricoltori, grandi benefici

Secondo Hulian, aiutare i piccoli agricoltori porterebbe tre vantaggi significativi per la società. Da un punto di vista economico, queste persone otterrebbero un guadagno equo per il loro lavoro. Attualmente molti di loro cedono i propri prodotti a rivenditori a prezzi estremamente bassi. Se avessero la possibilità di accedere direttamente ai consumatori – cosa che sarebbe possibile se ottenessero una chiara individuazione legislativa e un trattamento corrispondente al loro status –  raggiungerebbero un tenore di vita più elevato.

Questo a sua volta attirerebbe più persone verso questa attività, contribuendo ad alleviare un grave problema sociale: lo spopolamento delle piccole città e dei villaggi.

Un terzo aspetto positivo della piccola agricoltura è che è ecologica. Nella maggior parte dei casi l’attività si svolge in luoghi naturalmente adatti, dove le fattorie esistono da generazioni. La vendita dei prodotti nello stesso luogo di produzione aiuterebbe anche a ridurre le emissioni nocive provenienti dal loro trasporto. Ciò consentirebbe anche di migliorare la salute umana, favorendo il consumo di prodotti freschi.

Fai una scelta

"Un formaggio prodotto industrialmente con prodotti chimici e ingredienti artificiali, che ha trascorso mesi in una cella frigorifera, non è uguale al formaggio che un pastore ha fatto con le proprie mani utilizzando il latte che lui stesso ha prodotto. Sono due mondi totalmente diversi", ha detto Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità. Sardo ritiene che ciò che la gente dovrebbe fare è decidere quale di questi mondi dovrebbe scomparire, "perché quando facciamo la scelta di acquistare un prodotto stiamo effettivamente decidendo il destino dei piccoli produttori".

C’è però anche un’altra domanda a cui dobbiamo dare una risposta, ha detto Sardo: "Ci sono persone secondo cui siamo in grado di sopravvivere senza questi prodotti, scegliendo solo quelli industriali”. Tuttavia, questo significherebbe la perdita di tradizioni storiche, del paesaggio e altre migliaia di cose. "Possiamo vivere senza Mozart; possiamo vivere senza le cattedrali gotiche e costruire parcheggi a loro posto, possiamo vivere senza i dipinti nelle gallerie d’arte. L’unica domanda a cui dobbiamo rispondere è: vogliamo questo tipo di vita?”

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