Erdoğan o non Erdoğan? La Turchia alle urne
Il 14 maggio in Turchia si vota per le politiche e per le presidenziali. La Turchia sembra essere un paese sempre più desideroso di cambiare rotta. A prescindere, forse, da chi reggerà il timone. Un commento
«L’uomo giusto al momento giusto» (doğru zaman, doğru adam). Verrebbe da ribaltare lo slogan scelto da Recep Tayyip Erdoğan per la campagna elettorale in vista del 14 maggio, che campeggia accanto al suo volto nei tanti cartelloni elettorali sparsi da Ankara a Istanbul. Tutto al contrario, infatti: in Turchia sembra esserci la diffusa sensazione che il tempo, zaman, per chi ha guidato il paese negli ultimi vent’anni sia ormai scaduto. Quelle del prossimo fine settimana potrebbero essere le elezioni che sanciscono la fine del potere del partito Akp, un potere che – pur attraversando diverse fasi e mettendo in campo politiche talvolta anche divergenti fra loro – si è fatto sempre più pervasivo e autoritario fino al punto che risulta quasi difficile immaginare una Turchia senza Erdoğan.
Tuttavia, vari segnali spingono in questa direzione: innanzitutto la più parte dei sondaggi effettuati sulle intenzioni di voto indicano in lieve vantaggio l’oppositore Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Partito repubblicano del Chp a guida della coalizione Alleanza della Nazione (Millet İttifakı), che potrebbe dunque scalzare l’attuale presidente magari al ballottaggio; in secondo luogo negli ultimi anni è andata intensificandosi una crisi economica particolarmente acuta, che ha visto l’inflazione crescere dal 20 all’85% e il costo della vita raggiungere picchi che non si registravano da tempo; infine, anche se dal punto di vista umano è forse l’elemento che assume maggiore rilevanza, il terribile terremoto dello scorso febbraio (con oltre 50mila morti accertate) ha messo in luce la scarsa efficienza dello stato nell’intervenire durante un’emergenza nonché il lato negativo, anzi letale, dello sviluppo sconsiderato del settore abitativo su cui si era basata buona parte delle politiche dell’Akp.
Quello che è certo comunque, al di là di come andranno le elezioni, è che il paese sta entrando in una nuova fase e che Erdoğan e il suo gruppo di potere, se anche dovessero riuscire a spuntare un risultato favorevole, sembrano aver perso il loro mordente sulla popolazione, non hanno più un’idea forte o un “sogno” capace di smuovere con profondo fervore le masse. Ma è proprio così?
Make Turkey Great Again
Sulla lunga Bahriye Caddesi del quartiere Kasımpaşa di Istanbul – il quartiere dove Erdoğan è nato e cresciuto, sostentandosi da giovanissimo come venditore di strada, e che ancora costituisce una delle sue roccaforti di consenso – il traffico di automobili eccede quello delle persone che si preparano a recarsi al comizio del presidente. Presso la sede dell’Akp giusto qualche sparuto gruppo – soprattutto uomini e donne di mezza età – attendono un paio di piccoli autobus che li porteranno alla stazione della metro e poi da lì verso l’aeroporto Atatürk, dove per le quattro del pomeriggio di domenica è appunto atteso il discorso di Erdoğan. Più ci si avvicina alla “meta”, però, l’atmosfera inizia a cambiare: praticamente tutti i treni della linea M1 sono stipati di gente, si fatica a salire.
Anche sull’interminabile autostrada che taglia in due la parte europea della città, il lato che corre verso l’uscita dal centro urbano è sostanzialmente bloccato da mezzi grandi e piccoli: alcuni a colpi di clacson sventolano fuori dall’abitacolo bandierine del partito di governo, ma ci sono anche autobus delle forze politiche più di sinistra che sparano musica a tutto volume. Fatto sta che l’enorme pista di atterraggio dell’Atatürk – dismessa da alcuni anni, dopo che è stato inaugurato il nuovo aeroporto – sembra davvero la location di un festival: persone di tutte le età sciamano in ogni direzione, si accalcano, chi improvvisa dei cori a favore del presidente chi si è adagiato su delle sedie da campeggio portate da casa.
Ogni volta che dal palco viene fatto il nome dell’opponente Kılıçdaroğlu, o di qualche candidato della coalizione rivale, i “buu” di dileggio partono come un boato, spesso il gesto delle due dita dei lupi grigi si leva in aria. «Erdoğan nei suoi vent’anni di governo non ha sbagliato niente», afferma decisa Hamide – che rivendica il fatto di poter portare il velo grazie alle politiche dell’Akp. «Semplicemente, è un leader che prende la Turchia sul serio così come noi vogliamo prendere il nostro paese sul serio. Lui ci ha aiutati e noi aiutiamo lui», conclude con riferimento al recente terremoto che la ha portata a trasferirsi dal sud del paese a Istanbul.
Ma non sono solo le esperienze del passato a portare consenso. Recep, un web designer di ventidue anni (e che dunque non ha mai conosciuto altra Turchia se non quella di Erdoğan) è convinto che «non ci sono alternative. Conosco la storia del mio paese e so cosa hanno fatto gli “altri”. Con l’Akp invece diventiamo una nazione forte e siamo rispettati all’estero. Siamo il più forte paese islamico!».
Sarebbe un errore sottovalutare il radicamento di popolarità di cui Erdoğan comunque gode e che difficilmente potrà essere scalfito dagli argomenti dell’opposizione o dalle condizioni di vita quotidiana che si sono fatte più dure. La sua figura continua per molti a essere legata a un periodo di crescita economica senza precedenti (uscito dal “commissariamento” del Fondo Monetario Internazionale, sotto la guida dell’Akp il paese prese a crescere con ritmi superiori al 7% annui, cosa che permise anche una notevole estensione del welfare presso le fasce più deboli).
Allo stesso tempo, se la spinta propulsiva dei primi anni del suo potere così come l’iniziale liberalismo politico si sono esauriti, a cementare il consenso ha contribuito nell’ultimo decennio un generale senso di insicurezza derivante sia da fattori interni (la recrudescenza del conflitto in Kurdistan nel 2015, il tentativo di colpo di stato del 2016) che da fattori esterni (lo scoppio della guerra in Siria, con la conseguente conflittualità di stampo militare fra Turchia e regione del Rojava, e gli attentati di matrice fondamentalista islamica, per esempio).
Se Erdoğan non è più “l’uomo giusto al momento giusto”, è tuttavia agli occhi di molte persone l’uomo forte che può giustamente far fronte alle minacce sotto cui si trova la nazione. Come riassumeva all’inizio di aprile la giornalista di Cumhuriyet Aslı Aydıntaşbaş: «Nella seconda metà dei suoi due decenni di governo, Erdoğan ha abilmente strumentalizzato le guerre culturali, il nazionalismo e le politiche identitarie, dando ai conservatori sunniti una voce nel destino della Turchia. Con una combinazione unica di neo-ottomanesimo e islamismo, ha rilanciato il paese come un’inarrestabile potenza in ascesa. Per la base dell’Akp, Erdoğan è l’unico uomo in grado di rendere la Turchia di nuovo grande».
L’altra Turchia, un’altra Turchia?
D’altra parte, è proprio quanto si contesta nelle file dell’opposizione. Kemal Kılıçdaroğlu e i partiti che lo sostengono – dalla destra dell’Iyi Parti fino alla sinistra libertaria dello Yeşil Sol Parti, in cui confluiscono anche le forze curde dell’Hdp – vogliono infatti farla finita con il “potere dell’uomo unico”. Dopo il tentativo di golpe, per mantenere il potere e ricombinare il proprio consenso, l’Akp di Erdoğan si è notevolmente sbilanciato verso destra, stringendo un’alleanza con l’ultra-nazionalismo dell’Mhp (cosa che non è stata pacificamente accettata neanche da alcuni dei componenti dell’Mhp stesso). Questa ridefinizione ha posto le basi affinché si creasse uno scontento allargato dentro il quadro partitico verso le sue politiche e, di conseguenza, lo spazio per un’alleanza di forze eterogenee che vedono nel leader al governo una figura da osteggiare: alleanza che, è bene ricordarlo, ha già raccolto un primo successo nel contesto delle elezioni municipali del 2019, strappando sia la capitale Ankara che la città di Istanbul alla guida delle forze di governo (con l’arrivo, rispettivamente, dell’ex-nazionalista Mansur Yavaş e del carismatico Ekrem İmamoğlu).
Ma non si tratta solo di “cambi di casacca” o di ricomposizione dello spettro parlamentare. La gestione accentratrice e autocratica di Erdoğan sta scavando dentro la società un solco sempre più profondo di ingiustizie e repressione: dal 2016 a oggi, oltre 200 giornalisti sono stati arrestati e più di 100 di questi imprigionati; più di 130mila persone hanno perso o si sono viste sospendere il proprio posto di lavoro (e una quarantina di queste si sono inoltre suicidate) con generiche accuse di terrorismo o di relazione con il presunto gruppo dei golpisti; secondo la piattaforma “We Will Stop Femicide”, i femminicidi sono in constante crescita anche per via delle politiche maschiliste del governo (non da ultimo, la decisione di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul); senza contare la costante stretta nei confronti delle forze politiche curde, dall’incarcerazione del co-fondatore dell’Hdp Selahattin Demirtaş alla sostituzione di numerosi sindaci eletti nell’est del paese con dei funzionari di governo (i cosiddetti kayyum) fino agli arresti arbitrari di politici e candidati (sono già centoventi in vista di questa tornata elettorale).
A questo si aggiunge la guerra vera e propria, che la Turchia ha condotto e continua a condurre con un uso di certo non “moderato” della forza sia dentro il proprio territorio (il centro storico di Diyarbakır o la città di Cizre sono state praticamente distrutte) sia fuori (le numerose operazioni nella Siria del nord, da “Sorgente di pace” ad “Aquila d’inverno” ma anche i raid arei nell’Iraq settentrionale).
Non stupisce dunque che ci sia un’altra Turchia – quella più convintamente laica contraria all’islam politico, la componente femminista e Lgbt stanca di discriminazioni legislative e verbali, la sinistra libertaria esasperata dalla repressione, le minoranze linguistiche, etniche e religiose – che desidera un cambio di passo, e lo desidera apparentemente più nella direzione di una ricomposizione delle fratture politico-sociali che di uno scontro frontale.
«Credo che Kılıçdaroğlu abbia fatto un ottimo lavoro nello strutturare una nuova idea di Turchia, vale a dire un’idea di società "anti-polarizzante" che riesce a costruire ponti fra le diverse identità della popolazione», dice il ricercatore Can Evren sottolineando come fra le altre cose il candidato dell’opposizione abbia posto l’accento sulle proprie origini alevite.
«In qualche modo, mi pare che in questo si rifletta anche un certo cambiamento della società: le generazioni più giovani sperimentano divisioni meno acute fra i diversi ambienti, come per esempio fra ambienti secolari e religiosi (che, in alcuni contesti del paese, corrispondono anche a divisioni di classe). Negli ultimi vent’anni si sono date numerose esperienze di coesistenza e reciproca comprensione fra le diverse anime della Turchia. Non dimentichiamoci infine che alcuni candidati della coalizione di Kılıçdaroğlu sono ex-membri dell’Akp e ex-ministri dei governi di Erdoğan (come Davutoğlu). Aleggia insomma, dal punto di vista politico, un senso di riappacificazione che ovviamente potrebbe essere esteso anche alla questione curda e che, presumo, abbia fra le altre motivazioni spinto i rappresentanti del partito curdo ad appoggiare la coalizione d’opposizione».
Gli aghi della bilancia
Ma sarebbe sbagliato vedere nella Turchia che va al voto un paese spaccato in due lungo linee ben definite e precise in termini ideologici. La parabola di Erdoğan, per quanto sia stata soprattutto ultimamente caratterizzata da un forte autoritarismo e da una centralizzazione istituzionale in molti casi deleteria anche solo in termini di efficienza governativa (si vedano le nomine di figure del tutto inadatte al proprio ruolo per la Banca Centrale o per l’agenzia di gestione delle emergenze Afad, per esempio), rappresenta un percorso spesso di sintesi e adattamento delle diverse tensioni presenti nella società.
D’altronde, come accennato, il leader dell’Akp ha cambiato più volte i propri alleati e i propri “compagni di viaggio”, passando da un periodo di riformismo liberale e di apertura verso l’Europa a un nazionalismo più esasperato e miraggi di neo-ottomanesimo, legandosi a doppio filo con gli ambienti dell’Hikmet di Fethullah Gülen per poi rompere totalmente fino alla caccia internazionale dei suoi membri, avviando un processo di pacificazione con la guerriglia curda e invece impegnandosi in una militarizzazione dell’est del paese.
Il “dissenso” dirimente nei suoi confronti, al di là di quello ormai consolidato, potrebbe dunque esprimersi in termini di voto più nelle aree grigie che negli ambienti di opposizione maggiormente “radicalizzati”. In vista del 14 maggio, sarà interessante osservare in che misura alcune fasce e “categorie” della popolazione turca sposteranno il proprio orientamento.
Un grande interrogativo viene chiaramente sollevato dalle nuove generazioni: si tratta di milioni di cittadini e cittadine che andranno alle urne senza aver mai fatto esperienze di alcuna gestione politica che non fosse quella di Erdoğan e dell’Akp.
Come ha rilevato l’analista Kenan Behzat Sharpe, stando sia alle interviste condotte in presa diretta che ai risultati dei sondaggi ufficiali, è lecito pensare che la maggioranza di queste persone sia scontenta dell’attuale governo, che sente distante in termini di politiche, identità ma soprattutto di retorica.
Afferma Sharpe: «Anche se non tutti i giovani votano per l’opposizione, è significativo che il 62,5% affermi che lascerebbe la Turchia se ne avesse la possibilità . Ciò include anche i giovani che sostengono l’AKP e i suoi partner di coalizione, ma che allo stesso modo citano la disoccupazione e le difficoltà economiche come ragioni per volersi trasferire in posti come la Germania o gli Stati Uniti».
In secondo luogo, come ha ricordato anche la giornalista Futura D’Aprile in un commento sul Domani, particolarmente contraddittorio e in evoluzione è il percorso politico della componente femminile del paese. Soprattutto durante i suoi primi mandati infatti Erdoğan ha potuto contare su un forte sostegno da parte delle donne (nel 2002, circa il 55% dei voti ottenuti provenivano dal bacino delle elettrici), che grazie anche alle politiche del governo riuscivano accedere in misura maggiore al mondo del lavoro e in quello educativo. D’altra parte, in particolare a partire dal 2018, l’insistenza sul ruolo sociale della maternità (per cui ogni donna dovrebbe concepire “almeno tre figli”) o le pressioni affinché venga messa in discussione la legge n.6284 riguardante la prevenzione della violenza domestica, stanno facendo vacillare il consenso di quante ritrovavano nell’Akp una sorta di “equilibrio” fra allargamento di opportunità e insistenza sul valore della “famiglia tradizionale”. Senza contare, inoltre, il bassissimo tasso delle candidature femminili nel partito di Erdoğan (19%). Come riassume il giornalista Murat Yektin (citato nell’analisi di Arzu Geybullayeva), «sono state le donne che hanno giocato un ruolo cruciale nell’ascesa al potere dell’AKP e saranno le donne che giocheranno un ruolo chiave nella caduta del partito».
Infine, c’è il tema molto complesso del lavoro e della classe lavoratrice. Come segnala un’analisi pubblicata su Foreign Policy, durante la gestione di Erdoğan la Turchia ha visto un incremento delle diseguaglianze legate al reddito oltre che una significativa riduzione dei diritti sindacali e delle possibilità di sciopero (nonostante, soprattutto per motivi culturali e di appartenenza, buona parte delle fasce più deboli del paese sia fedele in termini di voto all’Akp). La necessità di mettere in piedi e di mantenere un’alleanza larga, quindi con anche le forze di destra o più convintamente “neoliberali” – con l’obiettivo principale di far fronte al “potere di un uomo solo” – potrebbe dunque portare con sé il rischio di annacquare le proprie visioni in termini di politiche economiche, e conseguentemente di alienarsi quella fetta di popolazione che guarderebbe con favore a iniziative di maggiore redistribuzione della ricchezza o di implementazione delle tutele sindacali.
Una domanda su tutte
Sopra tutti questi interrogativi, grava poi la domanda su come si comporterebbe Erdoğan in caso di sconfitta alle urne. Ci sono segnali per cui la sua “presa” sulle istituzioni non sia così assoluta come qualche anno fa (si veda per esempio la parabola riguardante il rettore dell’università di Boğaziçi), ma allo stesso tempo è difficile immaginare che l’autoproclamato “sultano” acconsenta a una transizione di potere al cento per cento pacifica. È probabile che la tensione salga soprattutto se si dovesse andare al ballottaggio, con due ulteriori settimane in cui potrebbero essere messi in atto tentativi di forzare l’andamento del voto. In ogni caso – quale che dovesse essere il responso – le “vecchie ricette” non bastano più. Dopo gli anni turbolenti del post-golpe, dopo una pandemia globale, con l’inflazione galoppante e la disoccupazione che tocca il 10%, un devastante terremoto e una guerra di portata internazionale che lambisce il Mar Nero, la Turchia sembra essere un paese sempre più desideroso di cambiare rotta. A prescindere, forse, da chi reggerà il timone.
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