Economia turca: quando la tigre abbaia
E’ indicata da molti come un’economia molto in salute. La Turchia ha avuto nell’ultimo decennio tassi di crescita invidiabili e ha risentito meno di altri paesi della crisi globale. Ma non mancano le contraddizioni. Un approfondimento
“Turchia” è diventato negli ultimi anni sinonimo di crescita. Non c’è esperto di economia che si rispetti che non abbia dedicato almeno una pagina al “fenomeno Turchia”. Gli acronimi si sprecano, c’è chi dice che il paese della mezza luna andrebbe aggiunto alla lista delle più importanti economie emergenti, i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) facendoli diventare Brict mentre Jim O’Neil, della Goldman and Sachs ha coniato una nuova sigla che raccoglie i paesi che si stanno sviluppando più rapidamente, i Mist (Messico, Indonesia, Sud Corea e naturalmente Turchia).
Del resto i dati confermano chiaramente la crescita. Prodotto interno lordo triplicato, aumento esponenziale degli investimenti esteri, una crescita media annuale del 5%, reddito pro capite passato da 3,500 dollari del 2003 ai 10 mila del 2012. Questi sono i più eclatanti successi conseguiti negli ultimi dieci anni dal governo Erdoğan e snocciolati uno dopo l’altro dal premier turco durante il suo discorso al Word Economic Forum che si è tenuto proprio a Istanbul il mese scorso. Tuttavia le ambizioni dell’ “uomo più potente della storia recente della Turchia”, come lo ha definito il Financial Times, vanno ben oltre la mera crescita.
Programmi ambiziosi
Durante la campagna per le ultime elezioni politiche che hanno segnato l’ennesimo trionfo del suo partito, L’AKP, Erdoğan ha reso pubblico un ambizioso programma da realizzare entro il 2023 quando la Repubblica turca compirà 100 anni: “La nostra economia sarà tra le 10 più importanti del mondo, il reddito pro-capite raggiungerà i 25 mila dollari, le esportazioni i 500 miliardi di dollari e l’industria darà il via alla produzione di automobili, velivoli e mezzi militari 100% made in Turkey”, ha annunciato il premier.
Secondo questa visione l’economia turca, come un treno in corsa, è destinata a crescere senza freni e Ankara è presto destinata a diventare una delle principali potenze mondiali. Ma lo sviluppo turco è davvero così irrefrenabile? Secondo importanti osservatori il “sistema Turchia” sta cominciando a mostrare le prime crepe.
Scricchiolii
“Sebbene molti paesi europei che passano di crisi in crisi si ucciderebbero a vicenda pur di avere i problemi che ha la Turchia, tuttavia lo sviluppo economico degli ultimi anni è insostenibile” scrive Daniel Dombey sul Financial Times. Secondo il giornalista il principale problema dell’economia turca sarebbe rappresentato da un “disavanzo nella bilancia commerciale che rappresenta l’8-8,5% del Pil”. In altre parole Ankara esporta poco e importa troppo, soprattutto dall’Europa, e quindi si indebita. “L’UE rimane il primo partner commerciale del paese e la principale fonte di investimento” e considerando che la maggior parte dei paesi UE sta attraversando un periodo di crisi “la Turchia è in balia di eventi esterni che influiscono sulla quantità di investimenti che interessano il paese”.
Secondo l’Economist quella turca sarebbe un’economia “estremamente vulnerabile”. “Quando l’economia, a livello globale, attraversa una fase positiva c’è un forte afflusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista valore, aumentano gli import e il disavanzo nella bilancia commerciale, ma quando gli investitori hanno paura allora i capitali escono dal mercato turco più rapidamente rispetto ad altri paesi, spingendo in basso la lira turca e provocando una riduzione della domanda interna”.
In altre parole gli investitori dei paesi ricchi dove i tassi d’interesse sono bassi investono “soldi caldi” in Turchia creando una situazione di benessere effimera, destinata a dissolversi quando, cambiato il clima, gli stessi investitori ritirano i fondi che prima avevano investito.
Inoltre l’economia turca, dopo anni di crescita a doppia cifra, dal 2012 ha cominciato a rallentare. Dopo l’aumento record dell’11,9% nel primo trimestre 2011, il Pil turco ha cominciato a crescere di meno fino ad arrivare a un ben più ridotto aumento del 3,2% nel primo trimestre del 2012. La locomotiva Turchia quindi ha rallentato, ma il paese di Atatürk continua a crescere. Lo sviluppo degli ultimi anni ha reso davvero la vita di tutti migliore?
Crescita e benessere
“Il tenore di vita e il livello di ricchezza delle famiglie dell’alta borghesia è sicuramente aumentata – spiega a Osservatorio Balcani e Caucaso Sevket Pamuk, storico dell’economia di fama mondiale e Presidente del Dipartimento di studi sulla Turchia della London School of Economics – allo stesso tempo è nata una nuova piccola borghesia, formata da coloro che sono emigrati dalle campagne dell’Anatolia verso le grandi metropoli turche come Istanbul, Ankara e Izmir per cercare un futuro migliore. Divenuti principalmente commercianti e piccoli imprenditori si sono arricchiti grazie alle politiche del Akp di Erdoğan di cui sono i più forti sostenitori. Diversa invece la condizione di operai, lavoratori non qualificati e dipendenti pubblici – sottolinea Pamuk – che non è migliorata di molto. Inoltre a un aumento seppur ridotto dei loro stipendi, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città e un’inflazione all’8,9% che rende impercettibile questo cambio”.
D’altro canto anche chi si aspettava che la crescita economica degli ultimi dieci anni portasse con sé un miglioramento delle condizioni di lavoro di operai e lavoratori dipendenti è rimasto deluso. L’International Trade Union Confederation nel suo ultimo rapporto annuale sulle violazioni dei diritti sindacali nel mondo denuncia che in Turchia “i sindacati non sono adeguatamente tutelati dalla legge. La Costituzione è stata emendata nel 2010 e da allora è possibile la contrattazione collettiva nel settore pubblico, tuttavia il numero di lavoratori che devono sostenere un sindacato perché esso goda di rappresentanza nelle trattative è estremamente alto e questo rende difficilissimo sedersi al tavolo delle trattative per la maggior parte dei sindacati esistenti”.
I dati preoccupanti sulla diffusione del lavoro minorile e le morti sul lavoro completano il quadro già poco confortante relativo alle condizioni di lavoro in Turchia. Secondo uno studio condotto dal sindacato Disk il 49% dei ragazzi tra i sette e i quindici anni lavora, la Turchia inoltre è prima nella triste classifica dei morti sul lavoro in Europa e quarta a livello mondiale.
Erdoğan il liberista
Inoltre provvedimenti come l’approvazione della recente legge che toglie alla Corte costituzionale il potere di bloccare privatizzazioni considerate illegittime, la nuova legge in discussione che riduce ancora di più il peso dei sindacati e il provvedimento preso d’urgenza dal governo per proibire lo sciopero nel settore aereo, al fine di bloccare la mobilitazione dei lavoratori della compagnia di bandiera turca per il rinnovo del contratto, mostrano che Erdoğan, convinto liberista, percepisce i diritti sindacali, la contrattazione collettiva e il controllo del potere giudiziario sulle scelte economiche del governo come un ostacolo al libero mercato da togliere di mezzo.
Secondo Ahmet Insel, editorialista del quotidiano Radikal, questi provvedimenti dimostrano come il governo Erdoğan a partire dall’ultima vittoria elettorale stia assumendo un modo di governare sempre meno democratico: “In nome dell’interesse nazionale, ad esempio attraverso provvedimenti come la sospensione del diritto di sciopero in alcuni settori, sta cercando di imporre un modello autoritario di economia di mercato”.
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