E anche Janez va alla guerra
Tutti cercano d’andarsene ma la Slovenia va controcorrente. Mossa controversa del governo sloveno che ha annunciato l’invio di militari sloveni in Iraq. Per ora solo 4 ufficiali, ma ne dovrebbero seguire di più. La prudenza slovena dimostrata all’avvio della guerra in Iraq sembra ora lasciare il passo ad una linea esplicitamente filo-USA
La Slovenia manderà propri militari in Iraq. La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Nella sua seduta di giovedì scorso, oltre a mandare in parlamento la discussa e restrittiva bozza di modifica alla legge sul diritto di asilo (di cui abbiamo già ampiamente informato su Osservatorio) il governo sloveno, senza consultare nè l’opposizione, nè il parlamento, ha preso una decisione che a parere di molti è un vero e proprio guado del Rubicone. Anche la Slovenia manderà in Iraq una propria mini unità militare. Solo quattro ufficiali, per il momento, quattro istruttori destinati ad un centro di formazione militare a Bagdad.
Fino ad ora Lubiana si era tenuta prudentemente lontana dagli ingaggi diretti in Iraq partecipando solo all’addestramento di futuri agenti di polizia iracheni in territorio giordano. La prudenza , voluta a suo tempo dal governo liberaldemocratico di Anton Rop, aveva a più riprese infastidito gli USA che sin dalle prime ore della guerra in Iraq avevano contato su un appoggio pressoché incondizionato dei paesi della cosiddetta »nuova« Europa: i nuovi membri e candidati alla Nato e all’UE dell’Europa orientale. Per convinzione, opportunità o ricatto allineati con l’ amministrazione Bush.
Anche la Slovenia, insieme ad altri 9 paesi dell’Est, il 5 febbraio del 2003, aveva firmato la cosiddetta »dichiarazione di Vilnius«, un deciso appoggio politico all’intervento militare americano in cui si enfatizzava la »veridicità« delle tesi e delle »prove« sull’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene presentate da Collin Powell al Consiglio di sicurezza ONU.
La dichiarazione dei dieci fu in verità preparata da Bruce Jackson, un lobbista del Pentagono legato a Donald Rumsfeld, ed imposta ai dieci paesi candidati Nato quale condizione per il loro ingresso nell’Alleanza. Fu lo stesso Jackson che telefonò al ministro degli Esteri sloveno Dimitrij Rupel richiedendo la sua adesione in tempi brevissimi.
Il documento che salutava il »convincente« intervento del segretario di stato venne infatti avallato dai dieci prima ancora che Powell esibisse le proprie (false) prove al palazzo di vetro. La dichiarazione di Vilnius rappresentò una vergognosa manipolazione che suscitò nell’opinione pubblica slovena non poche sdegnate polemiche. Un tentativo di distinguo dal cieco filoamericanismo di Rupel, a quei tempi ancora liberaldemocratico ma incoraggiato nel suo agire dall’opposizione guidata da Janez Janša e anche dall’accondiscendenza del leader socialdemocratico Borut Pahor, fu fatto dal premier Anton Rop. Questi espresse infatti qualche perplessità sulla dichiarazione che la rapidità degli eventi aveva impedito di valutare meglio. Rop decise di arginare l’appoggio alla guerra dichiarando che, malgrado Vilnius, la Slovenia non faceva parte della »coalizione dei volonterosi« creata tra i governi conservatori europei, quelli dell’Est e quello di Londra in appoggio a Bush.
Posizione questa che ribadì anche sul piano pratico con la decisione di non inviare nemmeno un militare, un poliziotto o un civile in Iraq ma di limitare la partecipazione slovena al minimo necessario, in sintonia con gli altri partner dell’ UE. Rop fu bersagliato a più riprese dalle acide ironie di Washington che decise di sostenere apertamente la campagna elettorale di Janša. »Not so fast, Anton « titolava un articolo sulla poca affidabilità degli alleati sloveni pubblicato su Washington post.
Tutto il rovente dibattito precedente all’entrata della Slovenia nella Nato era stato imperniato sulla crisi irachena. I contrari all’entrata nell’alleanza militare (i movimenti pacifisti) vedevano in essa una sottomissione totale della »nuova Europa« alla dottrina americana della guerra preventiva. I sostenitori della Nato (governo, opposizione, presidenza, camera di commercio, ex-combattenti, chiesa cattolica, ecc) insistevano soprattutto nel dimostrare che tra la guerra in Iraq e l’adesione alla Nato non c’era alcuna connessione.
Ora il governo di Janša, per bocca del ministro della Difesa Karl Erjavec, spiega l’invio di militari sloveni a Bagdad »quale obbligo derivante dalla nostra affiliazione alla Nato«. Una tesi questa che l’opposizione contesta, adducendo che importanti membri della Nato quali Francia, Germania, Belgio o Spagna non hanno militari in Iraq.
La decisione di giovedì scorso è stata marcatamente politica, visto che sul piano operativo 4 soldati non significano nulla. In ogni caso la Slovenia ora c’è, è entrata di fatto nella coalizione militare che sta occupando l’Iraq atteggiandosi al contempo a »forza di pace« grazie ad un mandato ONU che gli USA hanno intascato a suon di fatti compiuti e condizionamenti diplomatici. La decisione di Janša e Rupel viene letta in Slovenia come una svolta filoamericana senza precedenti, tanto più stridente se si pensa che vari paesi »volenterosi«, incalzati dalla propria opinione pubblica, hanno ritirato le proprie truppe dall’Iraq o sono in procinto di farlo. I 4 militari – una volta metabolizzata da parte dell’ opinione pubblica slovena, maggioritariamente critica ma anche divisa, la loro presenza nel complesso fronte iracheno – potrebbero diventare ben presto 40 e più.
Attualmente la Slovenia partecipa con propri militari o poliziotti in missioni con mandato ONU, UE o Nato in Bosnia Erzegovina, nel Kossovo, in Afganistan e in Giordania.
L’ Iraq comunque è un’opzione molto diversa e secondo non pochi analisti sloveni rischia di trascinare ed esporre il paese nelle prime file dei paesi-bersaglio del terrorismo. E c’è pure chi allude ad un calcolo ben congeniato: la nuova situazione dovrebbe legittimare le restrizioni e lo sbandamento di tipo poliziesco che caratterizzano l’azione dell’attuale governo di Lubiana.
Non è un caso che insieme alla decisione dell’invio di militari in Iraq il governo abbia presentato le modifiche al diritto di asilo. Ora che anche la Slovenia è in guerra e che i pericoli di rappresaglie terroristiche aumentano diventerà sempre più difficile contestare le barriere poliziesche per arginare l’arrivo di extracomunitari o ex-jugoslavi da zone considerate a rischio. Nella retorica nazionalista e militarista enfatizzata da missioni di questo tipo (l’ Italia insegna) anche la dissidenza e l’opposizione alla guerra sono suscettibili di inquietanti sospetti non proprio democratici.
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