Dust: la fotografia di fronte all’inoggettivabile
Come Orfeo con la sua Euridice: non può guardarla negli occhi, si può solo evocarla, avvicinarsi sino ad un certo punto, ma quanto più ci si avvicina, tanto più lei si tramuta in polvere. Lo sguardo del fotografo Michele Cera sull’Albania
(Pubblicato originariamente su 404: file not found il 3 dicembre 2013)
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.
Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più.
Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa
Epistemologicamente il sud, con la sua lentezza, con tempi e spazi che fanno resistenza alla legge dell’accelerazione universale può diventare una risorsa e quindi il collegamento tra i sud sottrae il pensiero ai luoghi dove oggi esso ama assidersi e star comodo, alla forza di gravità del conformismo moderno.
Franco Cassano, Il pensiero meridiano
Michele Cera [1] accompagna ormai da anni la propria pratica fotografica con attività di educazione, diffusione e sviluppo della cultura fotografica; egli ha attrezzato, e continua ad attrezzare, gli sguardi di giovani appassionati, che con lui possono formarsi in una tensione costante fra abbattimento dei cliché e ricerca sulle possibilità della fotografia.
Si ha ragione di credere che, anche per questo, l’influenza del suo libro sarà duratura e profonda per molti di coloro che lo seguono come un maestro. Questo è un po’ il motivo intimo che mi spinge a scrivere una recensione del suo libro, le cui ragioni interne sono però dovute, evidentemente, alla ricchezza di riflessioni che Dust impone.
Pubblicato circa un mese fa per l’importante casa editrice tedesca Kehrer, il libro raccoglie 37 fotografie scattate nel corso di svariati viaggi che Cera ha compiuto, per alcuni anni, in Albania. Come nella migliore tradizione fotografica italiana, non c’è un tema specifico al quale poter ricondurre l’unità delle immagini, se non appunto l’identità del luogo: l’Albania.
La ragione di questa scelta è presto detta dall’autore nella conversazione con Francesco Zanot che chiude il libro: «[questo lavoro] intende ricostruire l’immaginario legato a quello che, con Marcel Proust, chiamo il mio ‘paesaggio interiore’: un posto mitico che incorpora elementi provenienti in parte dalla mia infanzia nel piccolo paese di San Marco in Lamis e in parte dall’idea che ho sempre avuto dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale, veicolata principalmente dal cinema di quegli anni.»[2]
Il fotografo documentario Michele Cera ci consegna dunque un lavoro intimista che intende ricostruire un paesaggio interiore? Tutt’altro: tramite una raffinatissima riflessione sullo statuto insieme intimo e sociale della memoria, l’intento è appunto quello di ritracciare l’immaginario legato a un paesaggio interiore.
Fotografie prive di ogni didascalia (‘la fotografia è afasica’ insegna Michele Cera durante le sue lezioni) costituiscono una serie all’interno della quale l’occhio è inizialmente spaesato, poiché nessuna delle urgenze profonde del libro viene sacrificata sull’altare di una presunta bellezza cui l’arte dovrebbe puntare. Se Gerry Badger definisce brutte le fotografie dell’immenso maestro di Cera (Guido Guidi) si può dire che le fotografie di Dust sono ancora più brutte e meno liriche di quelle, per esempio, di A New Map of Italy di Guidi.
Fotografie ruvide, raspose, che non ammiccano, così come l’Albania non è un luogo ammiccante. Certo, parliamo di fotografie, riproduzioni bidimensionali di ritagli di realtà fruibili solamente da uno dei nostri cinque sensi, non pretendiamo perciò di parlare del reale, e quindi non ci riferiamo all’Albania come luogo geografico, ma all’Albania trasfigurata di Dust, che è anche l’Albania che vive nei nostri immaginari.
L’Albania così lontana e così vicina che alberga nelle menti di molti meridionali che con essa hanno un rapporto di prossimità e lontananza, l’Albania e gli albanesi che ‘sembrano gli italiani trent’anni fa’, l’Albania come luogo di un impossibile e inevitabile incontro con l’altro, l’altro che sbarca a Bari sulla nave Vlora nell’agosto del 1991, costituendo da allora un pungolo costante contro la naturale diffidenza dei meridionali, mitigata solo dalla loro altrettanto naturale capacità empatica.
Ma anche, anzi soprattutto, l’altro in quanto singolarità inappropriabile: tutte le fotografie di Dust ritraggono una figura all’interno di un paesaggio. Quasi sempre si tratta di una, o più, figure umane, tranne in due casi, quello di un cane e quello di una nuvola di polvere che dà il titolo al libro. Come nota giustamente Zanot nell’intervista, le figure compaiono inizialmente in scala molto piccola rispetto al paesaggio, per poi crescere progressivamente fino a un apice e decrescere nuovamente fino alla fine.
È interessante che l’avvicinamento non si compia con la conclusione, ma avvenga verso la metà della serie per cedere poi il passo a un nuovo arretramento: quello che cerchi, Orfeo, la tua Euridice, non puoi guardarla negli occhi, ella vive solo nella tua memoria, puoi solo evocarla, ti ci puoi avvicinare fino a un certo punto, ma quanto più ti avvicinerai tanto più ella si tramuterà in polvere, costringendoti a tornare a casa solo e sconfitto.
Si noti infatti che le figure umane che popolano ogni immagine negano pervicacemente il proprio sguardo all’obbiettivo, e questa negazione si fa tanto più ostentata quanto più ci si avvicina all’apice di cui si è detto, che corrisponde, non a caso, con la foto scelta per la copertina: un ragazzo che, seduto quasi di fronte al nostro Orfeo, si copre il volto con le mani (a dire il vero, il volto di tutte le tre figure centrali ci è vistosamente e fastidiosamente nascosto: il ragazzo lo copre con le proprie mani, la donna voltandosi si schermisce il profilo con un braccio, la ragazza che passeggia rapidamente ha i capelli portati davanti al viso dal vento).
Questa e la nuvola di polvere, copertina e titolo, sono le figure scelte per veicolare il significato simbolico del progetto, il confronto della fotografia di fronte all’inoggettivabile, della memoria di fronte al rimosso, dell’immaginario di fronte a una realtà che, per essenza, si nega. Non soltanto la fotografia è, per natura, incapace di restituire il reale, ma Cera sembra suggerirci, a tratti, che la fotografia possa addirittura nasconderlo, oppure esibirne l’intima ritrosia ad essere rappresentato. In questo senso, se da un lato è difficile definire Dust un libro di ritratti (nonostante quasi ogni fotografia presenti delle persone), poiché le immagini disegnano una spazialità che sconfina continuamente fra quella del ritratto e quella della fotografia di paesaggio, dall’altro lato esso è veramente un libro sul ritratto, sul ritratto come ritrazione e arretramento del soggetto di fronte alla macchina fotografica.
È sicuramente questo grande tema il messaggio principale del libro, in cui il rapporto fra il Sé e l’Altro, la memoria e l’oblio, Orfeo e Euridice viene sapientemente mediato e direi anche mediatizzato dall’uso del mezzo fotografico, diventando al contempo una riflessione sulla fotografia e sui suoi limiti, che sono poi anche le sue possibilità, se essa riesce a dirci tutto questo.
Senza pretendere di voler esaurire i temi proposti dal libro, vorrei solo accennarne un altro, legato senza dubbio alla dialettica fra memoria e oblio di cui si è parlato, ossia il rapporto fra la casa e l’altrove. Spesso, le figure ritratte, ritraendosi, guardano altrove, accennano a un orizzonte che non vediamo, che ci viene però suggerito dalla penultima immagine del libro. Si tratta di un ampio paesaggio in cui, molto alle spalle delle due piccole figure, sullo sfondo, compare l’insegna di quello che si direbbe un centro commerciale: CASA ITALIA. Il libro si conclude così con questo gioco di specchi e di rimandi continui fra l’Albania e l’Italia, l’Albania che sembra l’Italia e che aspira a diventare come l’Italia, l’Italia che ritrova la propria identità in Albania e la perde invece in se stessa, ridotta a segnale di un centro commerciale. Dust ci spinge allora a interrogare non tanto quel tempio alla profanità, in cui qualsiasi senso della distanza e del sacro si è perso rincorrendo il nuovo che avanza, quanto quelle due figure che ad essa volgono le spalle indifferenti. Michele Cera firma in questo modo, delicato e commovente, il primo libro fotografico meridionalista.
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